Centro Milanese di Psicoanalisi
“Sul sogno” di Lucio Russo
8 maggio 2014
Nella serata di giovedì 8 maggio, il Centro Milanese di Psicoanalisi ha avuto come ospite il Dott. Lucio Russo che ha presentato ai soci il capitolo “Il sogno-testo e la sua ombra” tratto dal libro “Esperienze”.
Il tema trattato dall’autore, il sogno e il sognare, è un pilastro della teoria e clinica psicoanalitica, oltre che argomento intrigante, lungamente dibattuto, inesauribile fonte di riflessione ed interrogazione costante. Il Dott. Rossi, affascinato più che turbato dalla vastità oceanica dell’argomento, saprà nel corso della serata sia circoscrivere il campo per non perdersi che allargarlo allo spazio infinito. Parte, infatti, esplorando il territorio, ben noto agli psicoanalisti, del VII capitolo dell’”Interpretazione dei sogni”, dove Freud enuncia i due compiti che l’analista ha nei confronti del sogno:” trasformare il sogno manifesto in quello latente ed indicare come, nella vita psichica del sognatore, quest’ultimo sia diventato il primo”. L’autore ci convoca di fronte al Freud, scienziato positivista, preoccupato di sottrarre la psicoanalisi dal terreno paludoso dell’occulto e del mistico. In questi passaggi, il padre della psicoanalisi, scienza nascente guardata con sospetto dalla scienza ufficiale, riduce il sogno a divenire narrazione dotata di logica, passibile di interpretazione. Concluderà l’opera, enunciando una teoria. Come sottolineato dal Dott. Russo “il sogno freudiano è la teoria e l’oggetto della teoria, è lo strumento che interpreta e l’oggetto interpretato”. Ci stiamo muovendo nel terreno dell’inconscio rimosso, rappresentabile, comunicabile, che sa diventare immagine onirica e sintomo nevrotico.
A questo punto, però, l’autore, si allontana dai luoghi luminosi di una psicoanalisi classica per addentrarsi nel territorio notturno dell’inconscio irrapresentazionale, pre-verbale, muto, non passibile di interpretazione. Scopriamo quindi, lacerazioni nell’impalco teorico freudiano. Sempre nel capitolo VII dell’”Interpretazione dei sogni”, scrive Freud: “perché […] si nota che in quel punto ha inizio un groviglio di pensieri onirici che non si lascia sbrogliare, ma che non ha nemmeno fornito altri contributi al contenuto del sogno”. Addentratosi coraggiosamente in questo territorio oscuro, il dott. Russo procede spedito, citando passi inediti di Freud che scrive all’inizio del paragrafo VIII di “Osservazioni sulla teoria e pratica dell’interpretazione dei sogni”: “l’impiego dei sogni nell’analisi è qualcosa di lontano dall’intenzione originaria dei sogni stessi”. Se, infatti, il sogno è “una fantasticheria che serve a proteggere il sonno”, il contenuto è del tutto indifferente al dormiente, per cui Freud conclude, sconcertandoci:”… i sogni che svolgono meglio il proprio compito sono quelli di cui non si è in grado di riferire nulla dopo il risveglio”. Nelle parole del Dott. Russo: “il sogno migliore è il sogno dimenticato”. Ancora l’autore: “è caduta l’illusione ermeneutica della psicoanalisi”. Infatti, il sogno ricordato e narrato dal paziente non è che la pallida ombra del sogno originale che non è passibile né di ricordo né di narrazione. Veniamo, quindi, invitati, come psicoanalisti a non diventare costruttori di palazzi di parole e significati che violentano la natura, necessariamente incolta, dei sogni. Un invito a superare i limiti della ragione e del logos per potere accedere all’inconscio somatico, a quel sistema indifferenziato mente-corpo di cui parlava la Little e di cui sembra impastato il “vero sogno”.
Smarriti (ma felici di ascoltare qualcosa di originariamente personale) nella selva oscura dove la diritta via era smarrita, sentiamo la nostra guida articolare un nuovo modello teorico, quello dei “due sogni”, secondo cui il “sistema sogno” è organizzato intorno a due fuochi. Cito dal testo: “il sogno raccontato, stampato nel testo e usato dalla parola, e l’altro sogno, del quale le lacune del testo onirico manifesto e il silenzio del senso e delle parole sono l’unica traccia”. Questo snodo teorico originale, presentato dall’autore con freschezza ed altrettanta, benvenuta chiarezza, affonda le sue radici, come lui stesso sottolinea, in una lunga e personale elaborazione dei testi freudiani sul sogno, ma anche di quelli sul sognare di Winnicott, Masud Khan, Milner, Pontalis. Citando lo psicoanalista pachistano Masud Khan che nel lavoro del 1972 (“Uso e abuso del sogno nell’esperienza psicoanalitica”), parla di “capacità di sognare”, il Dott. Russo ci introduce all’idea, un po’ scomoda per chi gode del primato egoico della parola, che “lo statuto dell’esperienza del sogno è diversa dal testo del sogno”. Siamo nel mondo winnicottiano dell’esperienza primaria non rappresentabile, fonte della creatività. Dice Russo, in alcuni passaggi mirabilmente condensati, ma agevolmente fruibili: “il sogno originale è l’assenza, che spinge il sognatore a costruire ricordi, racconti e libere associazioni. Esso è anche garanzia di verità soggettiva, come lo è il corpo perduto della madre. Il sogno originario assente è l’esperienza del sognare analoga all’esperienza del corpo assente della madre nutrice”. Aggiunge Russo, citando a braccia Pontalis: “ il sogno è nostalgia” e per permetterci di fare esperienza di queste parole, l’autore ricorda la Kristeva quando parla di una caverna più profonda di quella di Platone dove ci sono due corpi acciambellati, senza parole, sordo-muti. Eccoci, quindi, nel terreno indifferenziato di una dipendenza potentissima e paurosa, quella da cui solo può sgorgare la vita, quella che tanti pazienti non potranno mai sperimentare, qualcosa che è difficile rendere con la concreta povertà delle parole. Lo stesso autore, nel testo, ricorre all’aiuto di poeti visionari, Coleridge e Borges, per catturare qualcosa del senso profondo di quel qualcosa che ogni uomo ha sperimentato e presto dimenticato, qualcosa di così ineffabile e potente da condizionare per sempre la vita, di nascosto. Mentre sento parlare il Dott. Russo mi vengono in mente alcuni versi del poema di Coleridge che, nella “Ballata di Kublai Khan” scrive di un “fiume sacro che scorre verso un mare senza sole, caverne che l’uomo non può misurare, miglia e miglia di fertile suono. Catturato in uno stato oniroide, il poeta inglese, parla di un luogo selvaggio, santo e fatato poco prima che la sua visione incontri la fanciulla col salterio, la giovane Abissina che sonava e che cantava. Concludono il poema, per la verità interrotto perché sognato e poi dimenticato, i seguenti versi:
Perché con rugiada di miele fu nutrito
E bevve latte di paradiso.
Dopo averci condotto nel terreno tenebroso ed ineffabile dell’impensato, l’autore torna al “focus” luminoso del suo argomentare, proponendo, a fronte delle teorizzazioni precedenti, modifiche tecniche nel lavoro sul sogno. Parla, infatti, di “dis-immaginare” la mente, lacerare l’immagine perché la visione rievocata dal sognatore del proprio sogno può coprire l’altro sogno, quello fecondo e germinativo, quello pre-verbale. Mette in guardia sul rischio che l’immagine del sogno possa essere un oggetto concreto e che, quindi, non vada interpretato. Se il frammento di sogno rievocato in immagini è atto difensivo ed evacuativo, l’interpretazione dello stesso sarà parola di cemento che impedisce il fragile atto creativo del sognare.
La discussione che ha fatto seguito è stata calda, partecipata, intensa. Forse qualcuno si è dilungato nel tentativo di costruire parole-palazzi (siamo pur sempre umani!), ma i modi, pacati, pieni di tatto oltre che di una spontaneità misurata e seria dell’autore hanno permesso l’esperienza di un dialogo e di uno scambio profondo. L’ora tarda ha obbligato a concludere la serata quando qualcuno dei partecipanti citava Jung e si sarebbe potuto ricominciare da capo, in un gioco di specchi che durasse all’infinito, come infinito è l’inconscio, il vero sogno, la creatività.
Per concludere, lascio parlare, come suggerisce l’autore, lo scrittore argentino.
“Un imperatore mongolo, nel secolo XIII, sogna un palazzo e lo edifica conformemente alla visione; nel secolo XVIII, un poeta inglese che non poteva sapere che la fabbrica era nata da un sogno, sogna un poema sul palazzo. Confrontate con questa simmetria, che opera con anime di uomini dormienti e abbraccia continenti e secoli, niente o ben poco sono, mi pare, le levitazioni, resurrezioni e apparizioni dei libri pietosi.
[……]
Nel 1691, il Gerbillon, della Compagnia di Gesù, accertò che del palazzo di Kublai Khan non restavano che rovine; del poema sappiamo che si salvarono soltanto cinquanta versi. Tali fatti permettono di immaginare che la serie dei sogni e delle costruzioni non abbia toccato il suo fine. Al primo sognatore fu concessa nella notte la visione del palazzo, che poi costruì; al secondo, che non seppe del sogno dell’altro, il poema sul palazzo. Se lo schema non viene meno, un lettore di Kublai Khan sognerà, una notte dalla quale ci separano i secoli, un marmo o una musica. Quell’uomo non saprà che altri due sognarono; forse la serie dei sogni non ha fine, forse la chiave sta nell’ultimo”.
Jorge Luis Borges
(da Altre inquisizioni, 1952)