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6 Giugno 2015 CMP Giornata di Studio: Ansia e Attacchi di Panico

27/08/15

Centro Milanese di Psicoanalisi / Mangiagalli 

Report a cura di Licia L.Reatto

Ho accolto la notizia del convegno su Ansia e Attacchi di Panico organizzato dal Centro Milanese di Psicoanalisi il 6 giugno scorso pensando che finalmente si tornava su di un tema che è di stretta nostra pertinenza. La psicoanalisi, com’è noto, si è fondata proprio sullo studio delle manifestazioni d’ansia, e lo testimonia lo scritto di Freud del 1894 “Legittimità di separare dalla nevrastenia un preciso complesso di sintomi col nome di nevrosi d’angoscia”, che per la prima volta identificava questa sindrome, la distingueva dalle varie forme d’ansia e ne ricercava la causa, dando l’avvio a quelle elaborazioni che lo porteranno in “Inibizione, sintomo, angoscia”, del 1926, ad approfondire ed in parte modificare le ipotesi eziopatogenetiche relative all’ansia e la teoria della mente sottostante. Ho pensato: ‘eccoci a casa’, intendendo con questo che finalmente si riportava la psicoanalisi al suo giusto posto, allo studio non solo delle teorie, ma anche delle sindromi, perché la psicoanalisi è una cura, una cura del disagio psichico, e il disagio prevede anche un contesto ospedaliero che lo contenga dal momento che alcune sue manifestazioni coinvolgono il soma, oltre a strumenti per capire e per trattare in modo adeguato.
La giornata di studio che si è svolta presso l’Aula Magna della Mangiagalli, Istituti Clinici di Perfezionamento, Policlinico di Milano, lo scorso 6 giugno 2015, dal titolo “Ansia e Attacchi di Panico”, non ha deluso questa aspettativa, collocandosi in una realtà ospedaliera, e andando al centro del problema. Perché il contesto ospedaliero: sappiamo che le crisi d’ansia acuta, gli attacchi di panico, come hanno sottolineato molti degli oratori, a partire da Anna Ferruta nel presentare la giornata e Giacomo Calvi nella lettura introduttiva, molto spesso arrivano in prima battuta all’ambito medico, a causa dei sintomi somatici importanti che li accompagnano: tachicardie, mancanza d’aria, paura di morire, che inducono chi ne soffre a cercare aiuto nei servizi di Pronto Soccorso, mobilitando cardiologi e specialisti vari alla ricerca di possibili cause organiche in genere inesistenti. Perché la psicoanalisi: sappiamo che queste sono espressioni tipiche dell’ansia, di una condizione psichica che sfugge, ma fa sentire chi ne soffre impotente, in balia di qualcosa che non conosce e per questo più terrificante. La psicoanalisi del resto è nata proprio con questo scopo, curare le forme d’ansia che sembravano non avere radici evidenti, che sfuggivano alla coscienza, ma non per questo erano meno invalidanti.
Come ricordato dai vari oratori, a differenza del contesto medico, che ha altri meriti, la psicoanalisi ha cercato e trovato dei modi per affrontare queste forme di disagio, rispondendo alla crisi acuta secondo vie ben differenziate da quella dell’urgenza medico-farmacologica; si è occupata di cercare il significato e le cause della crisi, trovando modo non solo di alleviare il disagio, ma anche di impedire il suo ripetersi, inevitabile se la cura è sintomatica e non va alle cause, quindi risulta aspecifica. Questa probabilmente è la situazione in cui si è trovato Freud stesso, più di un secolo fa, quando di fronte alla potenza dei sintomi si è interrogato non tanto su come intervenire, rivelandosi inadeguati i rimedi del tempo, quanto sul perché del sintomo, facendone il punto di partenza per una teoria del funzionamento psichico e la formulazione di nuovi strumenti di cura a carattere risolutivo, volti a superare le ragioni sottostanti all’ansia, radicate nelle vicende di vita e nei vissuti ad esse legate.
Ancor oggi, dopo tanti anni, e nonostante studi e ricerche di varia natura, psicoanalitici, medici, evolutivi (ricordiamo l’infant research), neurobiologici, con risultati convergenti, ancora si stenta a riconoscere l’importanza delle emozioni nello strutturarsi della vita psichica, e come il loro sviluppo abnorme dia ragione di molte forme di disagio, ansia, ingorgo conflittuale e non solo; accanto al mondo emozionale, ha assunto sempre crescente importanza l’aspetto relazionale, responsabile del modo in cui la realtà soggettiva si articola per e attraverso l’interazione, sia durante la crescita (si pensi alla teoria del mirroring, del resto anticipata da Freud stesso, Psicoterapia, 1904), sia nella vita adulta e nel processo di cura.
Giacomo Calvi, psichiatra e psicoanalista, ha affrontato con estrema chiarezza il tema del legame tra ansia e psichismo, ancor oggi così sottovalutato in ambito medico; ripercorrendo le radici del concetto in Freud, ha sottolineato come si rischi di ‘ridurre la psiche agli effetti che fa’, ripristinando l’Errore di Cartesio (Roberta De Monticelli), se si privilegia l’apparenza del sintomo neurovegetativo, che sembra avvalorare un intervento separato sul corpo; in tal modo, “i sintomi del panico vengono sottratti alla loro psicogenesi”. Se il linguaggio viscerale viene sottratto alla ‘rappresentazione’, non resta che l’espressione somatica del malessere; questo è il legame che la cura deve trovare, o ritrovare, per essere efficace, dice Calvi. Dando rilievo alla strada operativa accanto a quella teorica, e unendo in un continuum le evoluzioni dei principali concetti della psicoanalisi tradizionale e odierna, ha sottolineato come sia la relazione terapeutica, con le sue specificità, il mezzo necessario a ricreare quel processo di ‘mirroring’, fondamentale alla formazione della soggettività anche e soprattutto nei casi più gravi, che nella storia del soggetto è stata per qualche motivo insufficiente o mancante. Siamo dunque ben lontani dalla fuga dal sintomo, prima richiesta del paziente spesso avvalorata da cure parziali e non ben fondate, e da soluzioni sintomatiche rapide che rischiano di favorire la scissione tra psiche e soma e il ripetersi delle crisi angoscianti.
Un esempio mirabile è stato portato da Federico Rocca e Paolo Chiari con una storia clinica famosa, quella di Alessandro Manzoni e della sua agorafobia, mettendo in rilievo come la prima crisi sia stata mobilitata dall’insorgere di emozioni subitanee e sconosciute per la perdita improvvisa delle relazioni di riferimento, divenuta poi prototipo del ripetersi delle crisi successive, e come lo scrivere sia diventato per lo scrittore un modo per riempire e ‘rappresentare’ questo vuoto e le angosce relative, per trovare vie momentanee di arginamento dell’angoscia, immaginando che i vari personaggi ed eventi della storia possano costituirsi in un insieme che fa ritrovare l’interezza dell’esperienza, come peraltro avviene nell’esperienza psicoanalitica. Le figure della storia, i bravi, i vari personaggi, e le vicende che attraversano, non sono altro che modi di rappresentazione degli stati interni e della loro dialettica, vie spontanee che l’Autore, come spesso succede, ha trovato per aiutarsi a superare l’angoscia di cui sono espressione con le loro complesse storie. Si tratta di vicende che noi tutti conosciamo dalla clinica, anche se non tutti i pazienti arrivano, come Manzoni, ad una via sublimativa così efficace, ma che la psicoanalisi può aiutare a ritrovare.
Altri autori hanno arricchito l’argomentazione da diversi vertici: Fabrizio Pavone e Anna Giroletti hanno portato l’esperienza di psicoanalisti/psichiatri inseriti nelle realtà sanitarie, rilevando l’entità di queste manifestazioni nella nostra società (10,4 %); è importante comprendere il ‘linguaggio corporeo’, dice Pavone da medico, se si vogliono evitare effetti iatrogeni, che tutti peraltro purtroppo conosciamo; la ‘complessità’ del disagio va compresa fin da subito, per ottenere “l’integrazione o reintegrazione di pezzi dell’esperienza”; a questo intento si ispirano i lavori più recenti che portano a una revisione degli strumenti diagnostici (come il PDM), anche se la strada è ancora lunga. Anna Giroletti ha messo a confronto l’approccio psichiatrico e quello psicodinamico con un esempio clinico esemplare, illustrandone con chiarezza la differenza, ma anche la necessaria complementarietà.
Sul piano teorico-metodologico, Tiziana Bastianini si è addentrata nel tema delle origini dell’angoscia e ha ritrovato nel costrutto dell’alessitimia – mancanza di capacità di dare parola ai vissuti e al disagio – un modo per spiegare quelle manifestazioni ansiose che si esprimono per via somatica, in pazienti quindi mancanti di ‘capacità rappresentativa’ (d’altra parte già Spitz riportava alla ‘crisi dell’estraneo’ dell’ottavo mese l’insorgere della modalità somatica per esprimere i vissuti, spesso destinati a non evolvere: età d’insorgenza della parola), documentando il suo discorso attraverso un caso clinico, in cui rende evidente l’impossibilità di riconoscere i propri vissuti e storicizzarli in un giovane cresciuto a falso sé, non in grado di formare quella ‘capacità rappresentativa’, di cui parla J. Sandler, che permette al paziente di sentirsi ‘soggetto’ degli affetti, capace di conoscerli e quindi di regolarne la presenza e l’espressione; Bastianini descrive ‘l’angoscia’ della trasformazione, nel momento in cui il paziente ha potuto finalmente dare nome ai vissuti, diventando ‘soggetto degli affetti’, e avviarsi ad integrare le scissioni, superando la via somatica di espressione; qui la relazione terapeutica assume un ruolo fondamentale.

Come dire, insomma, che abbiamo la teoria relativa all’ansia e alle sue matrici, sia nelle manifestazioni attuali che relativamente alle sue origini; abbiamo gli strumenti per affrontarla in maniera risolutiva; quello che manca, è un maggiore nostro riconoscimento nella realtà sanitaria, come indispensabile integrazione dell’intervento psichiatrico, come ben indicato da Giroletti, ad evitare quei meccanismi scissionali, esemplificati dall’installazione ipermoderna di Kounellis nell’atrio della Clinica: tante teste sospese prive di corpo. Si tratta di meccanismi impliciti nella malattia, che vengono però favoriti anziché risolti dall’intervento psichiatrico sul sintomo, non integrato nella storia del paziente, come ricordato da molti, come anche dall’intervento cognitivo-comportamentale, sempre mirato al sintomo, come ricordato da Lucio Sarno intervenuto dalla sala.
Difficile riferire del denso dibattito che si è sviluppato su questi temi, entrando nel merito di aspetti particolari che qui non si possono integralmente percorrere, indicando una maturità nell’approccio psicodinamico e un terreno fertile per la sua applicazione estensiva, che va incontro a difficoltà di realizzazione, ma che realmente permetterebbe un livello molto maggiore di prevenzione rispetto a ricadute e aggravamenti, rischio sempre presente quando le cause di un disagio non vengono riconosciute ed elaborate. Sono emerse proposte chiare che potrebbero essere usate per una revisione dell’attività del Pronto Soccorso, al pari di quanto realizzato da Luigi Solano a Roma nell’ambito della medicina di base, e per una nuova psichiatria sotto il segno della psicodinamica, dove anche l’intervento farmacologico si inserisca in un tutto dotato di senso (non posso che ricordare un antecedente storico preciso, la ‘teoria dell’integrazione funzionale’, elaborata anni fa da Zapparoli anticipando molti futuri sviluppi).

Vorrei infine ricordare che la data del Convegno non è stata casuale, come ricordato da Anna Ferruta nell’introdurre la Giornata di Studio, collocandosi a ridosso di quel 7 giugno in cui cadevano i novant’anni dalla prima fondazione a Teramo della Società di Psicoanalisi ad opera di Levi Bianchini, cui subentrò Weiss che la trasferì a Roma, sospesa poi a causa delle leggi razziali e dell’ostracismo da parte di Padre Gemelli, e riaperta solo dopo la conclusione della seconda Guerra Mondiale da Musatti, Perrotti e Servadio. Ad indicare, se ce ne fosse bisogno, la fatica che la psicoanalisi ha dovuto affrontare per affermarsi, tra pregiudizi e difficoltà del tempo, e direi a ricollocare la testa sul corpo ed in combinazione con esso. Anna Ferruta ricorda come sia stata rivoluzionaria la prospettiva psicoanalitica nell’affrontare le forme cliniche dell’ansia e del panico, aree privilegiate di studio da parte di Freud, mettendo l’accento sull’importanza di riconoscere le emozioni in gioco in chi soffre la crisi. Se la caratteristica delle crisi d’ansia nelle loro manifestazioni acute sono il senso di urgenza, il bisogno di fuga, che conducono al Pronto Soccorso e inducono a una serie di risposte mediche altrettanto urgenti quanto poco contestualizzate, la risposta dello psicoanalista è invece l’offerta della condivisione, del capire, del rendere il paziente in grado di avere strumenti più adeguati, per recuperare uno psiche-soma dialettico e funzionante.

Si spera che, come si è rivelata negli ultimi anni l’attività del Centro, questa sia solo l’apertura di molte altre giornate, che facciano meglio comprendere la specificità clinica della psicoanalisi, integrativa della prospettiva psichiatrica, in quanto capace di valorizzare le componenti attive del paziente, rendendolo padrone di se stesso e non relegandolo in ruolo passivo, cui lo costringono il sintomo (e la risposta medica di solito avvalora) e la malattia; l’atteggiamento con cui la psicoanalisi si rivolge al paziente è infatti completamente diverso da quello della psichiatria, in quanto quest’ultima lo considera in posizione passiva, come portatore di un disagio, spesso sconosciuto, da alleviare, mentre la prospettiva psicoanalitica lo mette al centro del disagio e lo considera in modo attivo, per renderlo in grado di capire cosa sta succedendo al suo interno (per via di porre, o per via di levare, diceva Freud, 1904). In gioco sono le emozioni, che solo imparando a riconoscere il paziente può diventare in grado di regolare, e la relazione che le contiene e le fa evolvere.

Luglio 2015

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Vedi in SpiPedia:

“Ansia/Angoscia” a cura di Gabriella Giustino

“Attacco di panico “a cura di Franco De Masi

“Psicosomatica: uno spazio associativo” a cura di Claudia Peregrini

“Fobie” a cura di Laura Contran

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