Centro di Psicoanalisi Romano
Report a cura di Flaminia Cordeschi
Il 5 ottobre scorso si è svolta al Centro di Psicoanalisi Romano una giornata con Ira Steinman, dal significativo titolo “Intrattabili?”, dedicata alla psicoterapia psicodinamica intensiva come cura della schizofrenia e di altri disturbi gravi. L’importanza del tema trattato e la ricchezza degli interventi, in particolare della relazione di Steinman, hanno attribuito grande interesse all’appuntamento, che è stato occasione per un’ampia e approfondita verifica degli effetti derivanti da interventi di tipo psicoanalitico sui pazienti psicotici. Ira Steinman si occupa del trattamento della schizofrenia da 45 anni, si è formato con R.D. Laing e ha lavorato presso la National Academy of Sciences Drug Efficacy Study per la valutazione dei farmaci antipsicotici. È membro, tra l’altro, dell’American Psychiatric Association.
Angelo Macchia, nel presentarlo, ha anche segnalato il testo di Steinman del 2009 Treating the “Untreatable”: Healing in the Realms of Madness, Karnac Books, nel quale è descritta una serie di casi gravi trattati con successo dall’Autore. Riccardo Lombardi, promotore della giornata, ha sottolineato l’importanza del confronto con l’esperienza di Steinman, che include un ampio spettro di modifiche del setting e della tecnica psicoanalitica sulla base di specifiche motivazioni di contesto. Un lavoro rilevante sia sul piano clinico, sia su quello dell’approccio psicoanalitico in genere, spesso disconosciuto nella cura dei pazienti gravi a favore di altri tipi d’intervento.
Nel suo libro, ricorda Lombardi, Steinman espone in modo affascinante ben dodici casi di evoluzione di pazienti psicotici, il che è assai raro nella letteratura psicoanalitica, avara di descrizioni di questo tipo, come segnalava già Badaracco nel 1999. Steinman potrebbe essere considerato “non ortodosso”, ma è uno psicoterapeuta orientato psicoanaliticamente che riesce a dimostrare come, con il procedere del lavoro di psicoterapia psicoanalitica, si possa nel tempo fare a meno dei farmaci se questi sono somministrati in modo giudizioso. Anche la gestione flessibile del setting, attenta alle reali esigenze dei pazienti e che varia dalle quattro sedute settimanali fino a consultazioni sparse nel tempo, caratterizza il lavoro di Steinman. Un modo di procedere che prevede un analista non dogmatico, rivisitando la distinzione fra psicoanalisi e psicoterapia alla luce delle diverse articolazioni che la psicoanalisi può avere. Lombardi condivide questa posizione e pensa che abbia una validità generale, in contrapposizione con training radicali solo nella forma e non nel pensiero psicoanalitico.
I pazienti fortemente regrediti, che hanno difficoltà o incapacità a pensare, a relazionarsi con il mondo esterno, possono evolvere, dice Lombardi, solo se la ripresa di contatto con la realtà e la verifica dell’evoluzione del paziente è riconosciuta centrale e urgente quanto l’esplorazione e l’interpretazione del suo mondo interno. Del resto, dare spazio al principio di realtà è una preoccupazione centrale anche in Freud, come emerge in particolare nel lavoro “Precisazioni su i due principi dell’accadere psichico” (1911), preoccupazione ripresa poi da Bion in “Apprendere dall’esperienza” (1962) .
Riprendendo le parole di Owen Renik nella sua recente Sidney Pulver Conference di Philadelfia (2012), Lombardi avverte che, se la formazione e la posizione degli analisti continuerà a essere schiacciata da modalità dogmatiche nel considerare e applicare la psicoanalisi, il progetto di Freud sarà condannato a essere sviluppato da psicoterapeuti che non sono e non si considerano psicoanalisti. È un dato reale, dice Lombardi, che la psicoanalisi si confronta con un crescente rischio di sparizione a causa tanto del prevalere di una mentalità di stampo affiliativo a tendenza monopolistica, quanto delle difficoltà di un aggiornamento degli analisti efficace e tempestivo.
La relazione di Steinman, nell’indicare l’utilità della psicoterapia psicodinamica per i pazienti gravi, ha in primo luogo dato rilievo al profondo turbamento dei pazienti e al bisogno di scoprire l’origine delle loro convinzioni, poiché la maggior parte dei casi di psicosi, a suo avviso, ha un’origine traumatica reale e terribile. Al centro della cura, pertanto, va messa la necessità di cogliere nella mente del paziente l’origine di un’altra personalità, che è di solito bloccata da una serie di precedenti eventi traumatici. Le allucinazioni, i deliri e i fenomeni bizzarri, espressi in pensieri e azioni, vanno trattati come metafore o fantasie che hanno assunto una forma concreta, delle quali si può individuare il significato simbolico. È possibile, così, far rientrare gli eventi psicotici sotto il controllo del soggetto.
Steinman pensa, infatti, che negli schizofrenici non ci sia una difficoltà di simbolizzazione, ma una difficoltà a mettersi in contatto con il “cuore perduto del sé” (H. Guntrip, 1992). Per questo la somministrazione dei farmaci deve limitarsi a brevi periodi critici di scompenso acuto, nei momenti di ansia o terrore intensi, di ritiro dal mondo, cercando di innescare un meccanismo virtuoso tra miglioramenti psicoterapeutici e progressiva riduzione dei farmaci.
Queste patologie, per Steinman, non sono mai espressione di una malattia cerebrale, biologica e genetica, priva di implicazioni psicologiche e non trattabile in psicoterapia psicoanalitica. Nella relazione emerge la forte ostilità di Steinman verso l’attuale abuso dei farmaci, basata su varie motivazioni. Anzitutto, i gravi effetti collaterali che accompagnano il paziente per tutta la vita, minimizzati dalle case farmaceutiche. Inoltre, ai farmaci si associano spesso interventi – quali il day hospital o i ricoveri ospedalieri – che lasciano per lo più i pazienti in balia delle distorsioni psicotiche e della paura di sentirsi in mani non affidabili. Infine, l’uso costante di farmaci impedisce a paziente e terapeuta di comprendere ed elaborare le basi emotive della psicosi.
Steinman ha poi esposto tre casi di psicosi che hanno avuto degli evidenti cambiamenti positivi:
1. Amanda, con disturbo dissociativo, ospedalizzata dopo un tentativo di suicidio e considerata psicotica paranoica;
2. Alfred, con una precedente diagnosi di schizofrenia paranoide dovuta in realtà all’assunzione di marijuana;
3. Luise, considerata schizofrenica paranoica cronicizzata e più volte ospedalizzata durante un lasso di tempo di circa sette anni e mezzo.
Amanda, 40 anni, dopo una vita adulta normale, si sottopone nei sei mesi precedenti al ricovero a una terapia corporea di tipo energetico, divenendo però sempre più agitata, spaventata e paranoica, riuscendo a dormire solo un’ora per notte e registrando un forte deterioramento psichico. Una dose eccessiva di farmaci la porta infine in ospedale. Durante il ricovero Amanda manifesta disturbi paranoici, denunciando il rischio di aggressioni sessuali da parte di altri pazienti e del personale dell’ospedale e, in occasione del primo colloquio con Steinman, racconta che la madre aveva cercato di strangolarla appena nata. Steinman in un primo momento tratta questa comunicazione come una possibile immagine metaforica del rapporto di Amanda con la madre, ma la piena convinzione della paziente di aver avuto un’infanzia felice orienta Steinman nel considerare il fatto realmente accaduto e dissociato nella mente della paziente.
Nella seduta successiva, esplorando l’origine della comunicazione sullo strangolamento da parte della madre, emerge che Amanda è in contatto con un terapeuta morto al quale era fortemente legata, tanto da aver tentato il suicidio sostenuta dall’idea di volersi riunire a lui. Amanda riceve dal terapeuta morto una lettera contenente indicazioni relative a traumi da lei subiti nell’infanzia e dissociati, abusi sessualiripetuti per tre anni, dai tredici ai quindici anni, con la complicità della madre e, precedentemente, violenze sessuali di tipo anale in età infantile.
I gravi traumi legati anche ad abusi sessuali sono dissociati, registrati solo attraverso ricordi inscritti nelle reazioni del suo corpo e mascherati dalla convinzione di aver avuto un’infanzia felice. Diversamente dai precedenti terapeuti, concentrati sulle crisi in corso, Steinman riesce a ricostruire il significato del delirio legato a questi ricordi. Il delirio di Amanda diventa la prima apparizione della personalità nascosta che è rimasta in contatto con la realtà e con il passato. Nella cura, il ruolo centrale è assunto proprio dal processo che porta la paziente a comprendere che i suoi deliri e le sue paranoie non provengono da fuori, ma trovano origine in lei stessa e fondamento in traumi dell’infanzia e dell’adolescenza.
Nel caso di Alfred, con una precedente diagnosi di schizofrenia paranoica non condivisa da Steinman, la convinzione di una cospirazione da parte di centinaia di persone che lo sorvegliano costantemente è inizialmente immodificabile, anche se sottoposta a una verifica di realtà. Nel tempo tale convinzione diventa osservabile dallo stesso paziente che riesce a capire che le sue conclusioni sono basate sulle paure scaturite dalle interazioni infantili con il padre autoritario. La possibilità di riflettere su alcune delle distorsioni del pensiero psicotico e l’interruzione dell’uso di marijuana permettono ad Alfred di recuperare il rapporto con la realtà.
Luise, deteriorata dai troppi farmaci antipsicotici e dalle ripetute ospedalizzazioni, era convinta che ci fossero tre topi che le stavano mangiando il corpo. Steinman interviene interpretando che i tre topi sono come i tre figli dei quali non si era potuta occupare per via dei ricoveri, ma per i quali sentiva un affetto “divorante”. La paziente ha un immediato miglioramento e riesce a mettersi in contatto con il vero primo momento di scompenso psicotico, che era avvenuto a undici anni in occasione della morte del padre. Da allora Luise si è convinta che il padre fosse sempre accanto a lei. Il lavoro psicoterapeutico più difficile è stato quello di dover affrontare il doppio lutto del padre reale e di quello immaginario che l’aveva accompagnata per tutto questo tempo. Solo in questa fase del lavoro, Steinman ricorre anche a una blanda terapia farmacologica. Quando la fase dell’elaborazione del lutto viene superata, Luise inizia a “vedere” i suoi figli sempre vicino a lei, ma Steinman non patologizza il delirio ma lo interpreta semplicemente come desiderio di ricostruzione della famiglia.
I due anni di psicoterapia di Luise con Steinman sono riusciti a produrre trentacinque anni di effetti positivi, poiché la paziente è riuscita a non essere più ospedalizzata, a ricostruire la sua famiglia, a sopravvivere alla morte del marito e a risposarsi, mantenendo saltuari rapporti con Steinman, il quale ha potuto verificare così la stabilità dei progressi raggiunti. Tutti e tre i pazienti sono stati in grado di interrompere il trattamento farmacologico e sono riusciti a comprendere il significato simbolico delle proprie distorsioni mentali, rinunciando al consolidato sistema di pensiero delirante. Il lavoro di Ira Steinman è stato discusso da Giuseppe Martini e Luigi Rinaldi. Martini, considera particolarmente importante una diagnosi accurata, dalla quale dipendono interventi terapeutici integrati che devono essere mirati sulla specifica psicosi. Propone a tal fine di distinguere le schizofrenie dalle altre psicosi soprattutto in base a criteri psicopatologici, oltre che attraverso un criterio basato su un parametro temporale che rimanda ad almeno sei mesi di durata dei sintomi.
Per Martini le differenze tra schizofrenia, psicosi dissociativa (isterica) e disturbo delirante sono rilevanti sul piano della simbolizzazione e quindi della psicoterapia e della somministrazione dei farmaci. L’evento traumatico è presente soprattutto in patologie sul versante borderline o dissociativo. L’episodio psicotico acuto reagisce bene sia ai farmaci, sia alla psicoterapia, mentre la schizofrenia reagisce meno ad ambedue: da qui la necessità di un intervento integrato.
Nell’esperienza di Martini, infatti, lo stesso decorso naturale della schizofrenia, ancor più se con ospedalizzazioni e trattamento farmacologico, può prevedere il riconoscimento da parte del paziente dell’invenzione delirante e la possibilità di sentire la realtà meno persecutoria, come riportato nei casi di K. Conrad (1958). Abbandonato il delirio, però, rimane il senso di vuoto, di perdita dell’ovvietà delle cose, l’incapacità radicale di accedere a una rappresentazione investita affettivamente di sé e degli altri. È a questo punto che dovrebbe entrare in gioco la psicoterapia psicoanalitica. Per la psicosi, Martini segnala che, comunque, tra il delirio e il trauma c’è la barriera dell’irrappresentabile in termini non di contenuto ma di “meccanismo”, cioè di alterazione dell’apparato per pensare e produrre simboli (Bion, 1970). È quindi difficile, dice Martini, che la cura possa coincidere con l’insight e il “semplice” conferimento ai deliri del valore di metafore.
Trasformare il delirio in metafora, come propone Steinman, può tuttavia avere il senso di potenziare la capacità del paziente di tollerare l’incomprensibile, ovvero di acquisire la capacità negativa. Infatti, l’incomprensibile che c’è in ogni relazione si assolutizza e scardina lo schizofrenico dall’evidenza delle cose e dal senso comune, dimensione fondamentale per stare al mondo che il paziente non riesce a tenere insieme a quella simbolica, altrettanto essenziale.
I farmaci, ad avviso di Martini, hanno una loro utilità sinergica con la psicoterapia poiché i fattori psicologici, biologici e genetici si sviluppano su linee parallele. La trasformazione neurochimica al livello dei circuiti neuronali incide anch’essa sul circuito non rappresentabile e rappresentabile e favorisce le potenzialità trasformative dello psichico che, solo attraverso il lavoro psicoanalitico, possono ricevere una successiva modulazione di tipo simbolico.
Per Rinaldi, Steinman si inserisce nella tradizione della psichiatria psicodinamica statunitense che, a partire da Arieti e passando per Sullivan, vuole dimostrare come la psicoterapia psicoanalitica sia utile, efficace e il più delle volte indispensabile nella comprensione e nella cura delle psicosi, limitando ai periodi di acuzie l’uso, ridotto allo stretto necessario, degli psicofarmaci. Chi crede esclusivamente a un’origine genetica e biologica della malattia mentale, come non è raro tra gli psichiatri e gli operatori della salute mentale, può trarre particolare beneficio da un approccio come quello di Steinman, che per Rinaldi è abbastanza classico, volto a capire il significato psicologico dei deliri e delle allucinazioni attraverso l’analisi dei fenomeni di transfert e controtransfert e la riconsiderazione della storia passata e presente del paziente.
Per Rinaldi lo stesso paziente, “non importa quanto inconsapevolmente, ha una parte attiva nello sviluppo e nel tenace mantenimento della malattia, e solo entrando in contatto con questa energia assertiva presente in lui si può aiutarlo a stare meglio” (Searles, 1979). I casi presentati da Steinman sembrano giustificare la teoria traumatica, ma non è detto che quanto raccontato dai pazienti sia in tutto credibile. Rinaldi ha esaminato con particolare attenzione il caso di Amanda, revocando in dubbio il racconto dei molteplici traumi subiti dalla paziente fin dalla nascita, che potrebbero essere già essi stessi dei deliri e avere il senso di sollevarla da una piena responsabilità per gli ulteriori sviluppi della sua storia.
È opinione di Rinaldi che se pure, come avviene nella maggioranza delle psicosi, l’eziologia non è tanto macroscopicamente traumatica quanto può apparire, abbiamo comunque a che fare con un deficit dell’accudimento primario, di quel rispecchiamento materno che promuove la fiducia nelle capacità del bambino di poter rappresentare e dare un nome alle sue angosce primarie. Il deficit rappresentativo e simbolico che ne risulta può essere colmato, allora, da quel potente apparato di simbolizzazione rappresentato dal setting classico. Per questo motivo le inevitabili modifiche del setting alle quali può essere utile ricorrere devono comunque essere improntate alla ricerca delle condizioni minime che rendono simbolizzabile l’esperienza.
La discussione ha coinvolto ampiamente il pubblico presente e l’incontro ha nel complesso permesso un interessante confronto tra approcci terapeutici diversi, uniti però dalla consapevolezza della necessità di un loro continuo riadattamento nell’osservazione del paziente, senza che ci si possa accontentare di parametri standardizzati d’analisi e di cura. La stessa diagnosi può essere un modo per coltivare dei pregiudizi, per imboccare una strada dove è centrale il ricorso ai farmaci, strada più comoda e comune verso la quale portano immancabilmente le teorie organiciste.
La prospettiva di Steinman mette in gioco la stessa capacità negativa dell’analista, che deve tollerare l’angoscia di un lavoro anche per lui complesso e non semplificabile attraverso diagnosi “senza speranza” e conseguenti trattamenti prevalentemente farmacologici, deve coltivare il dubbio e accettare la confusione tra delirio e realtà cercando di coglierne le possibili linee di confine. Dare spazio alla realtà vuol dire anche porsi allo stesso livello del paziente, da rispettare fino in fondo come persona evitando di indurre regressioni per valorizzare invece la sua parte sana; riconosciuta e aiutata, questa può tornare a espandersi. Al termine della giornata si è dunque rafforzata la convinzione, pur con i distinguo riferiti, che la psicoanalisi può avere un ruolo essenziale anche nella difficile cura dei pazienti psicotici, i quali in definitiva “intrattabili” non sono.