Centro Napoletano di Psicoanalisi
Report a cura di Maria Stanzione
Cos’è il velo islamico, l’hijab? Esso divide ciò che si vede da ciò che non si vede, si riferisce a una separazione visuale e spaziale, è una sorta di confine. E il confine (cum-finis) è ciò che separa e unisce, è ciò che ho in comune con l’altro, lo straniero: l’identità dell’altro è un continuo rinvio alla propria. Ma il confine è anche ciò che accosta la psicoanalisi alla geografia. Entrambe hanno per oggetto ciò che conosciamo parzialmente e di cui dobbiamo darci una rappresentazione. Esse ci consentono di ordinare gli spazi in cui viviamo, evitando di prendere alla lettera la funzione connettiva e metaforica della rappresentazione per non correre il rischio di ridurre a un insieme chiuso e fisso di cose, e di relazioni necessarie tra esse, il mondo ricco e aperto della vita.
L’incontro che si è svolto tra psicoanalisti del Gruppo di Ricerca di Geografie della Psicoanalisi e studiosi di altre discipline e culture, scegliendo per oggetto “il volto e il velo”, mira proprio a evitare di ridurre la viva complessità dei fenomeni culturali e psicologici dei territori geografici interni ed esterni, mentre si muove nella peculiare soglia tra ciò che è proprio e ciò che traccia l’estraneità, quando ciascun termine contiene l’altro al proprio interno.
Un volto, un volto sul velo del grande schermo del grande Bergman, dà origine alla colta, serrata, immaginifica relazione della psicoanalista Virginia De Micco che mette al servizio del tema, sin da subito, l’inafferrabilità del volto della madre, l’insostenibile immagine del femminile e l’enigmaticità di entrambi. Si tratta del ‘volto della madre’ della scena finale del film Persona guardato da un bambino. Il volto è, per Bergman, il primo piano di un’immagine, la proiezione di un desiderio irrealizzabile, guardare è essere guardati: un volto guarda la cinepresa che si fa specchio e l’intero film è velamento e svelamento del singolo. De Micco parte da queste suggestioni per riflettere sul significato del “volto velato della donna nella tradizione coranica e nei paesi di origine islamica” ora che l’Islam è diventato “vicinanza sconosciuta” e figura di quell’Unheimlichkeit atto a svelare qualcosa del familiare. Ci invita poi, con Ernesto de Martino, a guardare il proprio attraverso lo straniero, che per noi psicoanalisti “è una versione dello straniero interno”. Con Freud ci mostra come il volto femminile, materno, velato, ci conduca all’orrore della castrazione, alla testa di Medusa che non può essere guardata bensì ancora proiettata su una superficie che la rifletta rappresentandola. Ma tale orrore è anche quello “della morte, della madre terra”, l’orrore per quella “fessura” spalancata nell’insondabile profondità del corpo della donna. Tollerare però l’enigma del volto e del corpo materno, e dunque della fessurazione del pensiero, è necessario alla sua stessa strutturazione. De Micco ci mostra poi come “la necessità di controllare i modi di manifestazione del corpo femminile” attraverso gli “editti religiosi sull’appropriatezza dell’abito femminile” o le ordinanze comunali, ci parlino della “violenza simbolica” (Bordieu) che, a livello sociale – collettivo, esprime quella violenza primaria (Aulagnier) necessaria perché l’io possa avvenire per poi giungere a “quel piccolo margine di libertà individuale”, quel velo “dal quale possiamo pensare il mondo”.
La nascita, la morte e la differenza tra i sessi, sono i luoghi più lavorati da ogni cultura e devono “essere inaugurati simbolicamente per essere riconosciuti psichicamente”. Ciò avviene attraverso i diversi apparati mitico rituali di ciascuna cultura, ma per ognuna di esse il proprio ordine di spiegazione delle origini del mondo e dei propri enigmi diviene indistinguibile dal mondo stesso e ne costituisce una specifica immagine: “tutto ciò che cade al di fuori di quella visione non può essere riconosciuto” e rientra in un reale intraducibile in una realtà simbolicamente inaugurata. Così ogni strumento ordinatore ci salva dal caos della psicosi escludendo ciò che non può essere digerito, visto o riconosciuto e che pertanto dobbiamo rigettare. Ma se ogni cultura conferma la propria unica, necessaria visione del mondo, svela però “il rimosso dell’altra”. Dunque il lavoro della cultura tradisce quell’elemento inconscio che sfugge all’operazione di trasformazione simbolizzante mentre lo svela a chi non adopera gli stessi arbitrari occhiali culturali. Il modo in cui ciascuna cultura costruisce il femminile ne rappresenta “la pietra angolare” sulla quale non si può cedere pena il crollo dell’intera struttura simbolica di quel gruppo sociale e della sua stessa pensabilità ed esistenza. Eccoci alla necessità e al rischio del confronto tra culture diverse nel poter rinvenire nell’altro “quanto del proprio resta inattingibile”, ciò che abbiamo dovuto scacciare dalla forma data al nostro volto è visibile all’altro, quell’altro che, per Lacan, è l’inconscio. Ecco che il velo, in tutte le sue forme culturali, serve a proteggere dalla visione di quell’orrore con diverse conseguenze per i due sessi. La bambina lo vede e capisce “in un colpo d’occhio” e, pur avendone più orrore rispetto al bambino, ne tenta il pensiero” ponendosi nel luogo vertiginoso della “fessura”. Cita Benslama, un passo dove il velo e il femminile manifestano un sapere su dio (svelamento) cui l’uomo può accedere solo attraverso la mediazione della donna, qui il velo permette di distinguere tra vero e falso, tra bene e male e la donna velata diviene elemento di organizzazione psichica.
La psicoanalista Lorena Preta riprende il rapporto di co-definizione di individuo e cultura attraverso il processo di simbolizzazione/soggettivazione che non è mai compiuto definitivamente. Ma non è solo a questa processualità ‘imperfetta’, che va attribuito quel qualcosa di irriducibile dell’uno rispetto all’altra: vi sono “parti di irriducibilità che ci appartengono e che non possiamo trasformare ma solo ‘ospitare’ come nostri elementi costitutivi”. Ciò equivale a dire che “il proprio contiene l’alieno al suo interno”. Mutuando dalla biologia il concetto di chimera, che vede la coesistenza nello stesso individuo di cellule geneticamente distinte, Preta ci dice come talvolta un’irriducibile alterità possa assumere forme mostruose oppure di ibrida convivenza interna. Un lavoro psichico in analogia con le operazioni ‘immunitarie’ può garantire nuove forme di sopravvivenza identitaria o produrre alternative drammatiche. Talvolta, infatti, l’estraneo ritorna inquietante da un traumatico e violento passato assumendo mostruose forme ibridate come nel fenomeno del terrorismo. Una “identità islamica pura” è affermata con il sacrificio della vita da parte di giovani di ‘seconda generazione’ che rifiutano l’assimilazione della cultura occidentale già operata dalle precedenti generazioni, in nome di una presunta cultura musulmana totalmente estranea e non assorbibile dal contesto ospitante. Il “super-musulmano” (Benslama) crea una nuova identità nel contatto diretto con Allah, attraverso il martirio del corpo. Passato, presente e futuro perdono la loro sequenzialità disarticolandosi in un’allucinata temporalità e in un impensabile altrove. Molte società attuali sono caratterizzate da una “tendenza ad agire l’inconscio”, sfuggendo a una distinzione tra mondo interno e mondo esterno, mentre frammenti identitari sono evacuati con le modalità del pensiero psicotico. Oggi “la soggettività appare dislocata in un luogo fisico esteso che comprende il dentro e il fuori senza soluzioni di continuità. Un tutto presente orizzontale e simultaneo”. Preta si chiede se il “velo”, possa essere sentito dalle islamiche alternativamente come proprio, naturale, conflittuale, ostentato, un innesto o “in una maniera oscillante” tra queste possibilità. Attraverso una propria esperienza personale a Teheran in cui ha indossato il velo, ci dice di come abbia dovuto svolgere un ‘proprio’ percorso interno per accedere al senso che il velo aveva per ‘l’altro’: tra usanze e culture diverse non può che compiersi “un’oscillazione tra la percezione del proprio e quella dell’altro”. Si chiede infine se il velo, così come lo chador nella cultura iraniana, possano ancora essere considerati simboli densi di significati o se, in un’epoca di “crisi della capacità di simbolizzare”, non rischino di diventare pure “concretizzazioni”.
Il Professor Gianni Piccinelli, islamista, ci mostra la complessità del mondo islamico nel suo stesso interno: non è una realtà monolitica né dal punto di vista religioso, né giuridico, né politico, né linguistico, né culturale. Vi è un Islam virtuale e ideologico, storicamente non validabile, un Islam storico su cui si è innestato un processo di modernizzazione con diversi Islam all’interno e poi una presenza dell’Islam al di fuori del mondo islamico che entra a far parte della nostra esperienza quotidiana. Si tratta di definire percorsi culturali, etici e spirituali, con forti elementi ideologici che, nel corso del tempo dalle basi rivelate dal Corano, l’Islam ha fatto. Per il musulmano ogni atto della propria vita deve conformarsi alla volontà divina. Le regole giuridiche nascono da una base etico-religiosa contenuta nella Parola di Dio che vincola i credenti in ogni singolo comportamento (shari’a). Non è però una Rivelazione con elementi giuridici stringenti: il velo (hijab) che non riguarda mai il volto, non è un problema coranico. Il testo si presta a diversi livelli d’interpretazione: vi sono passi fortemente misogini e altri che mostrano “un alito di femminismo”. Quando Maria madre di Gesù “si allontanò dalla sua gente, prese un velo per proteggersi da loro” e questo è un velo simbolico rispetto a chi non ha ancora accolto la Rivelazione. Il termine hijab, solo qui e per la prima volta ha il significato di un capo di abbigliamento, negli altri casi ha il valore simbolico di “separazione” tra l’uomo e il peccato o il mistero divino, o tra spazio pubblico e privato, sempre, però, esprimendo la necessità di proteggere le donne dagli occhi estranei attraverso una regola di educazione e rispetto. Non c’è mai un velo simbolo di soggezione della donna all’uomo, né alcun obbligo normativo di coprirsi il volto. Ma, in un momento di profonda crisi politica del mondo islamico e di frantumazione della umma, ci si chiese cosa fosse successo rispetto ai tempi d’oro dell’Islam che aveva conquistato il Mediterraneo. L’idea è che ci si è allontanati dalla volontà di Dio e allora bisogna riportare indietro la storia e riprendere la strada verso la luce. Il Salafismo propugna il ritorno a un Islam puro che è però assolutamente reinventato. Anche le tradizioni preislamiche (Sunna del Profeta), non mostrano altro che la necessità di un uso attento dell’abbigliamento come testimonianza di semplicità, moderazione e castità. Il dibattito sul velo nel mondo islamico si apre nel 20° secolo, a contatto con una cultura coloniale occidentale che tende a imporre modi di vita differenti. Se usciamo da una visione punitiva che il diritto occidentale ha nei confronti del velo, dobbiamo immaginarci un percorso su cui quella forza di imitazione che produce la moda ha innestato negli ultimi anni l’idea che una donna velata è musulmana mentre una più velata o interamente velata è super-musulmana, fino all’annullamento della persona e della storia che produce il nulla. L’idea che oggi hanno i movimenti come l’Isis è un’evoluzione del salafismo e cioè che nell’annullamento della storia non c’è il nulla ma un nuovo principio. L’impossibilità di tornare indietro con la storia fa si che si distrugga la storia, pensiamo alla distruzione del patrimonio culturale in Medio Oriente. Piccinelli sposta poi il tema dalla dimensione etico-giuridica a quella etico-estetica, mostrandoci quanto la moda e i miliardi d’investimenti su aziende che producono islamic fashion, trasformino il velo da elemento di nascondimento a uno di esaltazione del volto: non è più un elemento di separazione ma pone nuovamente la donna al centro dell’attenzione.
Se l’islamista ci illustra la complessità all’interno del testo e l’ “autenticità” della tradizione (il velo non è musulmano), l’antropologa, Simona Tersigni, che insegna all’Università di Parigi e ha lì lavorato su questi temi, ci porta nella realtà delle relazioni sociali e delle relazioni interetniche, su cui bisogna trovare uno spazio di pensiero perché forte è il rischio che il fraintendimento interculturale si traduca in conflitto. L’intervento ha come titolo “Quando il velo diventa musulmano”, secondo il concetto di Hobawm del velo come “invenzione della tradizione”. Parla delle politiche dello svelamento e del rivelamento che hanno riguardato le aree islamiche prima della migrazione e che sono indisgiungibili dalla questione coloniale. Possiamo pensare alle dinamiche della migrazione attuale in Europa come a una situazione postcoloniale. Viene messa in discussione la retorica occidentale sullo svelamento e sulla liberazione femminile su cui a lungo il colonialismo e il post colonialismo hanno costruito la loro legittimità. Il suo lavoro è incentrato sul fatto che la realtà dei paesi di religione islamica e del nostro occidente contaminato, ibridato con l’Islam, è straordinariamente variegata e mutevole. Esiste una corrente femminista musulmana che da un lato cerca di trovare una via islamica alla liberazione femminile e dall’altro è in forte polemica con il femminismo occidentale e con il discorso dell’occidente sulla liberazione femminista: gli stessi soggetti che vogliono essere liberati attraverso questo svelamento invece lo rivendicano non solo in termini identitari ma proprio di alternativa sul piano politico, contestando che i discorsi sull’uguaglianza in ambito occidentale siano reali fino in fondo e che non ci sia surrettiziamente un’altra mentalità di dominio. C’è poi un’argomentazione sulla tensione tra il corpo legittimo (quello della legge) e il corpo pio, cioè su modalità antagoniste che di fatto hanno lo stesso fine: quello legittimo che vuole sfuggire al dettato religioso non sarebbe un corpo libero ma un corpo assoggettato ad un’altra legittimità.
Lo psichiatra Antonio d’Angiò, gruppo-analista transculturale, che ha tradotto e curato il testo di Benslama (La Psicoanalisi alla prova dell’Islam) ci dice, attraverso Kant, come il punto di partenza per raggiungere l’unità della conoscenza coincida con uno “svelamento”. Dopo una ricca introduzione a un panorama geo-psicoanalitico, che utilizza come scenario la nostra città, ci mostra come alla base di una civiltà vi siano prescrizioni smisurate e l’imposizione del velo alle donne nell’Islam è una di queste. Il velo è un “dispositivo di accecamento del corpo femminile”. La donna “distoglie gli uomini dal loro dio turbando la loro fede nei suoi segni”, essa rompe il rapporto tra l’uomo e il testo coranico. Ciò che è osceno deve essere accecato e, poiché la donna è essa stessa un occhio sessuale irradiante, bisogna accecarla. Inoltre l’occhio della donna avrebbe una certa virilità che penetra l’uomo e lo soggioga e poi lei sarebbe più dell’uomo rispetto alla trascendenza: può vedere Dio senza morire. D’Angiò ci narra poi la scena in cui il velo, nella tradizione islamica, interviene per la prima volta, e mostra come l’uomo (Muhammad), per credere in Dio, debba passare attraverso la fede in una donna (Kadigia), e come questa disponga di un sapere sulla verità che precede il sapere stesso del fondatore. Ci mostra infine come l’imposizione del velo si riveli un potente sistema di strutturazione del corpo di godimento nello spazio, nel tempo e nei rapporti tra le persone.
Termino il report sulla giornata con le parole di Adonis, poeta siriano, autore peraltro di una delle più belle poesie su Napoli (“Concerto per il Cristo velato”): “Il velo sulle donne è un simbolo: il velo sulle donne è un velo sulla ragione, le rende un’astrazione, un mero luogo di piacere”.
Novembre, 2016