Report di Roberta Patalano su “Terzo settore, psicoanalisi e gruppalità” (30 aprile 2016)
Il 30 aprile 2016 si è svolto nella sede di via Panama 48 un evento organizzato dal Centro di Psicoanalisi Romano e dal Centro Psicoanalitico di Roma dedicato al tema “Terzo settore, psicoanalisi e gruppalità”. Tema di insolita frequentazione che ha già nel titolo l’intento di trasportare la psicoanalisi fuori dal suo setting più classico per estenderne l’applicazione ad altri ambiti, sempre più rappresentati nella realtà clinica contemporanea.
La potente operazione clinica e culturale alla base di questa estensione, sostenuta dai due Centri e dai loro Segretari Scientifici, ha trovato straordinario supporto anche da parte del pubblico, numeroso, giovane e disponibile a testimoniare il proprio impegno attivo.
Un impegno che oggi trova legittimazione nella cornice istituzionale della Spi dopo anni di lavoro condotto con professionalità e passione in contesti “di mezzo”, diversi dal privato ma anche dall’ambito istituzionale e dotati di caratteristiche proprie che ne definiscono specifiche potenzialità. E’ questo il primo messaggio trasmesso da Daniele Biondo e Tito Baldini, da circa trent’anni impegnati a lavorare con la psicoanalisi nel Terzo Settore.
Il Terzo settore si colloca tra Stato e Mercato, all’interno dei servizi territoriali che gestisce attraverso la cooperazione di organizzazioni del privato sociale (cooperative sociali, associazioni di volontariato). Si tratta dunque di un settore che dialoga con le Istituzioni pubbliche, ma ha sviluppato nel tempo un proprio modello di intervento, che nasce nella forma di servizio educativo e sociale ma non di rado assume anche una funzione terapeutica.
Come sottolinea Biondo nel suo intervento, il Terzo settore costituisce una preziosa opportunità per l’estensione del metodo psicoanalitico, sia sotto il profilo dell’applicabilità a contesti inediti, sia attraverso la riflessione sul ruolo allargato e “sociale” che la psicoanalisi può svolgere incrementando la sua presenza nella società civile. Esso, d’altra parte, con la sua carica fisiologicamente innovativa, coalizza al proprio interno operatori giovani –e il pubblico in sala ne è ineludibile testimonianza- offrendo agli psicoanalisti una importante opportunità di trasmissione intergenerazionale del proprio sapere.
Nell’ambito del Terzo Settore, non tutti i servizi a “bassa soglia”, cioè di facile accesso, come i servizi educativi e socio-assistenziali non ufficialmente deputati alla cura, si sono attrezzati per svolgere una funzione terapeutica ma, sottolinea Biondo “quando ciò è avvenuto, e spesso grazie all’intervento di psicoanalisti, questi servizi hanno sperimentato un setting di cura specifico, diverso da quello che lo psicoanalista adotta nella sua stanza d’analisi, e diverso anche per molti aspetti da quello che si svolge all’interno di istituzioni di cura pubbliche”. A fronte di questo, al Terzo Settore affluisce un’utenza con disagio sempre più conclamato che le istituzioni pubbliche imbrigliate nei tagli alle risorse e in perversi meccanismi di aziendalizzazione fanno fatica a intercettare.
Dal canto suo, il Terzo Settore si configura come “istituzione debole” perché spesso guidata da operatori privi di certezze economiche e identitarie, che hanno tuttavia trovato il modo di fornire risposte forti, anche in virtù della loro natura intermedia, e per ciò stesso più aperta e creativa. Un aspetto fondante del lavoro terapeutico che si svolge nel Terzo settore è costituito dalla dimensione gruppale della cura che coinvolge non solo i pazienti ma anche gli operatori e gli analisti. Il dispositivo gruppale si rivela più adatto e più efficace rispetto ai problemi specifici di un’utenza che, pur nella sua fisiologica varietà, porta un Sé scisso e frammentato, con aspetti somatici e sensoriali tutti da recuperare per poter riagganciare il legame con la propria storia e il proprio vissuto traumatico (Biondo 2008).
Un’utenza costituita perlopiù da bambini e adolescenti “al limite”, come ci spiega Tito Baldini da trent’anni impegnato ad impostare e perfezionare “un metodo di lavoro ad orientamento psicoanalitico in comunità di tipo familiare”. Si tratta di comunità che ospitano 6/8 adolescenti ciascuna, a cui affluiscono adolescenti ribelli e non “scolarizzabili”, talora socialmente pericolosi, comunque inaccessibili ad un metodo di cura classico, in particolare per la drastica riduzione delle capacità rappresentazionali che caratterizza la loro mente.
E’ proprio al recupero della possibilità di elaborazione rappresentativa che la comunità punta, attraverso il suo modello familiare “che facilita la creazione di scenari primari concreti tendenti al metaforico ove iniziare l’adolescente al limite all’esperienza rappresentazionale”.
Il gruppo, quello concreto ma anche quello nella mente dell’operatore, si presta a diventare uno schermo su cui l’adolescente può proiettare parti scisse della propria psiche. Se le proiezioni vengono recepite a accolte da un gruppo capace d’integrarsi nel rispetto delle diversità dei suoi membri, l’adolescente al limite trova un accesso allo sviluppo di una propria capacità di integrazione, come testimonia l’elevato coefficiente di efficacia di tale approccio metodologico, sottoposto ad un’estesa e rigorosa indagine scientifica che ne attesta una riuscita intorno al 78esimo percentile (Baldini 2007).
A testimonianza del ruolo fondante svolto dal gruppo nel lavoro delle Comunità, Claudio Neri raccoglie gli stimoli delle relazioni di Biondo e Baldini e conduce il dibattito con il pubblico, che si rileva intenso e partecipato, non solo per il racconto di coinvolgenti esperienze personali nei servizi territoriali di varie regioni italiane, ma anche per la disponibilità ad interrogarsi sull’organizzazione e la struttura del lavoro nel Terzo Settore, al fine di proteggerne la vitalità e la capacità innovativa, scongiurando l’instaurarsi di quei meccanismi burocratici e aziendali che inceppano da anni il buon funzionamento delle Istituzioni pubbliche (Neri, Patalano, Salemme, 2014).
L’intensità della discussione clinica con il caso presentato da Patrizia Pontieri e la supervisione condotta da Tonia Cancrini ci restituisce in modo affettivo e denso il senso della discussione avviata nella prima parte della mattinata: Francesca, una bambina di 9 anni che già da cinque è affidata ai servizi sociali, arriva in terapia in uno stato di evidente deprivazione che si manifesta nel linguaggio confuso e a tratti incomprensibile, nonché nel suo camminare incerto e senza stabilità.
Attraverso il coinvolgimento della terapeuta pronta a riflettere su sentimenti controtrasferali “intensi e per certi versi destabilizzanti” e a farsi carico dei “momenti di sconforto e confusione” che esprime in una seduta attraverso un “profondo sospiro” intercettato dalla paziente, Francesca recupera gradualmente il contatto con la possibilità di prendersi cura dell’altro, e dunque di sé, nell’ambito di un legame attivo e non più subito con una figura genitoriale di riferimento. Poi arriva il mese di settembre e il Giudice dei Minori riaffida Francesca alla mamma. La terapia si interrompe senza quello spazio e quei tempi di elaborazione che ci sarebbero stati in un altro tipo di setting. Francesca porta via la bambola che aveva usato per giocare durante le sedute, alla terapeuta rimane la speranza che quell’anno di terapia insieme lasci un segno e supporti il percorso verso una maggiore integrazione di Sé.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Baldini T. (2007), Che fine fanno gli adolescenti difficili quando diventano giovani adulti?, AeP. Adolescenza e Psicoanalisi, II-2.
Biondo D. (2008),Fare gruppo con gli adolescenti, Franco Angeli, Milano.
Neri C., Patalano R. e Salemme P. (a cura di), Fare gruppo nelle istituzioni. Lavoro e psicoterapia di gruppo nelle istituzioni psichiatriche , Franco Angeli, Milano, 2014.