Centro Psicoanalitico di Bologna
3° Dialogo Internazionale. Sviluppo del senso di sé nel processo psicoanalitico: questioni di tecnica.
Il Report delle giornate a cura di Roberto Verlato
La terza edizione del Dialogo Internazionale, evento biennale organizzato dal Centro Psicoanalitico di Bologna, ha avuto luogo il 9 e 10 febbraio scorso nella consueta cornice del convento di S. Domenico.
Titolo e tema di quest’anno “Lo sviluppo del Senso di Sè nel processo psicoanalitico: questioni di tecnica” . Due gli aspetti centrali della discussione: il Senso di Sè e la tecnica.
Un costrutto, quello di Sè, tanto fondamentale ed irrinunciabile, quanto di non facile ed univoca definizione, di cui è stato comunque sempre evidenziato il dato esperienziale, soggettivo, individuale. Tanti gli autori citati da Winnicott a Kohut, da Gaddini a Stern, Bolognini e Bollas per nominarne solo alcuni. Nella sua introduzione Nicolino Rossi ha sottolineato, sul versante della tecnica, l’importanza del ruolo del setting, del riconoscimento dei movimenti transferali e controtransferali, dei limiti, almeno in certe fasi del lavoro analitico, dello strumento interpretativo e la valorizzazione delle molteplici funzioni terapeutiche che l’analista sperimenta ed ha bisogno di svolgere per il paziente. Bella la sua metafora sulla differenza tra la “chimica psicoanalitica” e la “fisica psicoanalitica”. Se la chimica si occupa essenzialmente di molecole, ovvero di interazioni tra elementi dotati di una certa stabilità ed in grado di unirsi con legami tenaci ma reversibili la fisica si occupa di strutture subatomiche, tenute insieme da legami potentissimi, i processi di fissione e di fusione, la cui realizzazione richiede condizioni particolari in termini di calore e pressione, ed il cui verificarsi genera fenomeni catastrofici.
“I problemi degli individui legati a severe compromissioni del sé”, ha detto Rossi,” nel senso di frammentazione o di fusione, realizzata attraverso forze tenaci che si oppongono al loro scioglimento o alla loro integrazione, pongono particolari difficoltà che si avvicinano, sul piano metaforico, a quelle legate ai processi della fisica subatomica.”
I lavori della mattinata, che ha avuto come chair Irene Ruggiero, si sono incentrati sulle due relazioni di Ted Jacobs e Stefano Bolognini.
Jacobs, psicoanalista americano molto noto per aver coniato il termine di Enactment dando un forte impulso allo sforzo di approfondire e dare senso all’agire in analisi, nella sua presentazione ha affrontato molto apertamente e direttamente il nodo tra tecnica e sviluppo del senso di Sè. E lo ha fatto invitando gli analisti a riflettere sulla propria esperienza personale come pazienti. “Quanto”, si è chiesto, “ le nostre esperienze come pazienti nella nostra analisi di training hanno influenzato il nostro senso di noi stessi e, se così è stato, in quale modo? “ Domanda che egli, ci confida, ha realmente posto alcuni anni fa a diversi (15) colleghi analisti di Training del New York Institute, ricavandone risposte per certi versi sorprendenti ed in sintonia con l’osservazione di una poetessa afroamericana (Maya Angelou): “Potremmo non ricordare i dettagli di un incontro con un’altra persona… ma non dimentichiamo mai come quella persona ci abbia fatto sentire “.
In linea con la sua lunga riflessione teorica sull’ Enactment Jacobs sottolinea come ciò che alcuni colleghi ricordavano vividamente, e in alcuni casi con molta emozione, erano stati proprio piccoli gesti, azioni dei loro analisti che, da un punto di vista tecnico, non rientravano nei consueti interventi analitici ma che erano stati estremamente significativi; piccoli atti di gentilezza e di considerazione, che avvenivano nel contesto di un approccio analitico altamente disciplinato, altrimenti tradizionale. Un approccio, tuttavia, che era stato anche caratterizzato dalla deliberata creazione di un’atmosfera di calore e sollecitudine. Tutto ciò, afferma Jacobs, non mette in discussione l’importanza degli altri strumenti, in primis quello interpretativo. Non vi è dubbio che le interpretazioni efficaci, anche se non ricordate, possano essere integrate e diventare una parte operativa del Sé, una parte del sistema di memoria implicita non-conscia, la memoria procedurale. Ma ciò che lo impressionò fu la stretta correlazione tra l’atmosfera percepita da questi colleghi nei loro trattamenti e la loro valutazione dell’effetto che le loro analisi avevano avuto sul loro senso di Sé. E l’ulteriore corrispondenza tra l’orientamento tecnico non usuale per l’epoca dei loro analisti e l‘attenzione che essi avevano dedicato alla relazione personale e non solo alla funzione di rendere conscio l’inconscio attraverso le interpretazioni di transfert. Jacobs ha quindi ripercorso le trasformazioni del ruolo attribuito alla persona dell’analista nel trattamento a partire da Loewald (l’analista come nuovo oggetto per il paziente), passando per Kohut e l’importanza da lui attribuita alla funzione di rispecchiamento dell’analista come oggetto-Sè per il paziente, all’empatia ed al ruolo dell’idealizzazione per consentire lo sviluppo di nuove identificazioni (internalizzazioni trasmutanti).
Tutto ciò, ha affermato Jacobs, richiede una rivalutazione di alcuni concetti tecnici, in particolare l’astinenza e la neutralità, che non possono essere più intesi con la stessa rigidità di quando il modello prevalente era quello topografico. “La stretta osservanza della neutralità”, afferma Jacobs,” è spesso non clinicamente utile… rischia di creare un ambiente innaturale e sterile, che non riesce a creare, e spesso va contro la creazione di quel tipo di atmosfera sicura e sollecita di cui i pazienti hanno bisogno per poter esporre le parti più profonde e più vulnerabili di loro stessi.”
Jacobs ha ben rappresentato attraverso l’illustrazione di due casi clinici come il suo modo di lavorare integri questa diversa visione della relazione con il paziente e le ricadute che essa ha dal punto di vista tecnico.
La successiva presentazione di Bolognini si è aperta con un excursus storico sulla concettualizzazione del Sè a partire dal Selbstgefuhl freudiano fino alla polifonia degli stati del Sè di Bromberg, sottolineando l’ interesse per il passaggio concettuale dalla ” Rappresentazione del Sè” al “Senso di Sè”, che permette di collegarne gli aspetti soggettivi più evoluti a quelli presoggettivi, riferibili alle esperienze fusionali precoci o a quelle che si verificano in situazioni di regressione fisiologica, come accade in analisi o in certi momenti della quotidianità.
Il contatto con il senso di Sè del paziente consente di sapere come il paziente sta.
Un sapere che ha la stessa radice di sapore, fortemente intriso di e radicato nell’ esperienza sensoriale/emotiva e nei suoi equivalenti metaforici se non vuole essere un sapere “insipido” e quindi ininfluente negli scambi. Un sapere, osserva ancora Bolognini, che, nascendo da un processo di mentalizzazione condivisa iniziale, interpsichico, viene introiettato “dando forma, sapore, colore e calore allo stile intrapsichico e a quello relazionale”.
L’esperienza di “con-sensualità”, condivisione sensoriale emotiva dell’esperienza è, sottolinea ancora Bolognini, una delle condizioni di base per la costituzione di un patrimonio narcisistico sano, necessario al Sé per consistere. Altrettanto necessaria è l’esperienza di “conferma” (“cum-firmare”), che stabilizza il senso di sé, conferendogli coesione. Anche qui l’accento è sull’ azione interpsichica congiunta (“CUM-“).
Molteplici sono, al riguardo, gli interventi tecnici che consentono all’analista di svolgere una funzione di consolidamento e validazione del pensiero del paziente e della coppia analitica.
In definitiva, afferma Bolognini, per riuscire a “sentirsi” bisogna essere stati ”sentiti”, possibilmente a vari livelli ed in diverse situazioni nel corso della vita. L’analisi è una tra queste.
Bolognini ha poi mostrato, attraverso il caso clinico di una lunga analisi, come nel transfert l’analista si trovi ad essere investito di ruoli diversi e molteplici, identificato con diverse figure, oggetti che nella realtà profonda sono spesso alternati o confusamente condensati; differenti presenze oggettuali nel mondo interno del paziente che possono assolvere, una volta che siano state percepite, distinte ed elaborate, funzioni diverse in relazione allo sviluppo del senso di Sè del paziente.
Le relazioni del pomeriggio (chair Roberto Verlato) hanno avuto come filo rosso comune il tema della discontinuità dei confini del Sè, nella sua forma patologica (le “identificazioni inconsce patologiche” che prendono in ostaggio il Sè) di cui ha parlato Massimo Vigna Taglianti e nella forma normale di una sana dialettica tra fusionalità e separatezza, oggetto invece della relazione di Paolo Fonda.
Nel suo lavoro Vigna Taglianti afferma che nella pratica clinica attuale accade sempre più spesso di osservare organizzazioni patologiche caratterizzate da una pervasiva assenza di vitalità (“insufficienza vitale”), risultato di una precaria e deficitaria strutturazione del Sè, che appare profondamente danneggiato perchè ostaggio di aspetti mortiferi e mortificanti, collegati ad identificazioni inconsce patologiche. E’ con esse e con il gioco sado-masochistico (intra-psichico ed interpersonale) che esse inducono a mettere in atto che la coppia analitica dovrà fare i conti. Lo sviluppo della capacità onirica, capacità cioè di sognare la propria esperienza emotiva, viene assunto dall’autore come “ indicatore delle trasformazioni intra ed inter-psichiche in atto sullo scenario analitico, alla ricerca di segnali onirici che testimonino che si sta finalmente approdando a territori affettivi caratterizzati da identificazioni più sane.” Una prospettiva di lavoro che si collega idealmente alla funzione traumatolitica del sogno teorizzata da Ferenczi.
Nel corso della sua relazione Vigna Taglianti ha illustrato con ricco materiale clinico questo modo di lavorare nella stanza d’analisi e le molteplici funzioni e ruoli che l’analista si trova a svolgere ed interpretare per avvicinare il paziente a quella che egli chiama “insostenibile leggerezza della vulnerabilità, della precarietà, della scommessa sulle proprie e altrui risorse – in una parola alla vita.”
Riprendendo alcune delle tesi da lui sostenute nel suo articolo del 2000 Fonda ha dato particolare risalto al carattere fisiologico dell’oscillazione, anche nella vita adulta e matura come pure all’interno della relazione analitica, tra momenti di fusionalità e separatezza. Ha così delineato un’immagine dei confini del Sè come una trama a maglie più o meno larghe, dotata di maggiore o minore permeabilità secondo diversi coefficienti di separatezza. All’oscillazione tra questi due poli (separatezza e fusione) corrisponderebbe a suo avviso quella tra pensiero simbolico e qualità sensoriale, concreta, della comunicazione; entrambi aspetti necessari all’interno della relazione analitica.
Ha poi utilizzato questo vertice di osservazione per indagare la matrice madre-bambino, da cui traggono origine abbozzi di individuazione e separatezza, la gruppalità e lo psichismo di gruppo, i fenomeni transgeneraziona Fonda ha infine ripreso il concetto blegeriano di Meta-Io, che si costituisce nell’incontro-embricazione tra interno ed esterno. Il Meta-Io rappresenta una sorta di ponte tra mondo interno-corpo e realtà esterna ed è affine al concetto di deposito, utilizzato da Bleger per indicare come una parte di sè, che lui definisce psicotica ma che altri autori considerano una componente “sana” dello psichismo umano, venga depositata in un’area indifferenziata, difficilmente definibile rispetto alla sua collocazione come esterna o interna. Concetto ambiguo ma al tempo stesso affascinante, da cui ha tratto una suggestiva immagine conclusiva:
“Essendo anfibi , perlomeno fino alle ginocchia, nell’acqua restiamo immersi tutta la vita. Questo però non è una iattura da cui doverci liberare, bensì un dono della natura, che ci consente, non solo di sopravvivere, ma anche di vivere più pienamente. Il compito di noi analisti è anche quello di aiutare i nostri pazienti ad imparare ad immergersi meglio o di più, quando non ne sono capaci.”
La discussione che ha fatto seguito è stata brevemente ma efficacemente introdotta da Luisa Masina, segretaria scientifica del CPB, che ha utilizzato una vignetta clinica per riprendere molti dei punti toccati dai diversi relatori a partire da un’ azione (enactment) in seduta e proporre alcuni quesiti, che sono stati di stimolo alla discussione che ne è seguita.
La giornata si è conclusa con una breve ma intensa e partecipata cerimonia in cui è stato consegnato un premio alla carriera ad Alberto Spadoni, decano degli analisti bolognesi, di cui è stata più volte ricordata, citando Bolognini, la grande capacità di “lavorare analiticamente con il Sè”.
La tavola rotonda di domenica mattina, condotta come chair da Chiara Rosso, è stata arricchita dai contributi di diversi presentatori, ciascuno con un proprio vertice osservativo.
Paola Golinelli ha parlato della Solitudine del Sè, nella forma ”rabbiosa e angosciata, di chi ha attraversato eventi traumatici, o dolori intollerabili, e ha perduto la capacità di essere in contatto con gli altri e con se stesso” per approdare quindi come un naufrago sul lettino analitico. E’ nell’interruzione del dialogo interno tra Io e Me che va ricercata la causa di quella solitudine così sofferta. Ed è allora che entra in gioco l’analista, con la sua capacità di ascolto, di lasciarsi “impressionare” come una lastra fotografica e di riavviare, grazie allo strumento psicoanalitico, una comunicazione interrotta e ritrovare un contatto interno con il vero Sè, che garantisce il sentimento di esistere.
Anche lei, come già prima Vigna Taglianti, individua nella leggerezza un valore aggiunto del lavoro analitico; lo fa citando il Calvino delle Lezioni Americane, che opera per sottrazione. Così per il paziente leggerezza significa liberarsi dalla dimensione coatta e ripetitiva del negativo per lasciar emergere finalmente una parte del suo Sè.
Nel ripercorre in modo sintetico ma accurato lo sviluppo del concetto di Sentimento di Sè all’interno della teoria psicoanalitica, a partire da Freud , Filippo Marinelli arriva a sottolineare la complessità degli elementi di cui si compone la capacità del terapeuta di costruire e mantenere una funzione di holding contenitiva, che consenta lo sviluppo di un Sè maggiormente integrato del paziente. Tra essi la fiducia (non scontata) dell’analista nel metodo e nel suo potere trasformativo. Elementi che, come la consapevolezza dell’unicità del Sè, non possono essere dati per acquisiti una volta per tutte.
Paola Marion ha sottolineato come alla base di un sano narcisismo primario vi sia l’esperienza di soddisfazione e piacere condiviso legato all’incontro con un Altro come “Doppio Sè”, di cui parla Roussillon. Un oggetto contemporaneamente diverso ma anche simile, capace di investire ed essere investito libidicamente; esperienza spesso carente o assente in questi pazienti. E l’importanza del “gesto psichico” (Sapisochin) dell’analista nell’illuminare stati emotivi che non sono mai stati trasformati in pensieri verbali. Un caso clinico ha rappresentato la possibile realizzazione di questo incontro.
Anche Marco Monari, parlando di pazienti “diversamente borderline”, espressione della cosiddetta patologia del presente, ha evidenziato l’importanza di una riflessione sull’azione che, nelle sue varie forme (acting, acting out, enactment), spesso caratterizza il trattamento. L’incontro analitico con questi pazienti, tra i suoi molti paradossi, contiene in sè anche quello di muoversi costantemente tra speranza e terrore, sentimenti che, in vario grado, caratterizzano l’esperienza sia del paziente che dell’analista.
Maria Ponsi nel suo bel contributo dal titolo “Neuro-identità/Neuro-diversità”, ha posto molto lucidamente alcuni interrogativi a proposito della tendenza sempre più diffusa a definire la propria identità ed il proprio Sè sulla base di una dotazione neurocerebrale specifica, non più riconosciuta come una semplice disabilità (ha citato come esempio il caso di pazienti con dislessia, sindrome di Asperger o disturbo bipolare) ma piuttosto come una forma specifica di soggettivazione. Il discorso neuroscientifico sulla neuro-diversità finisce così con l’influenzare sia la teoria che la clinica psicoanalitica . Alcuni pazienti, infatti, sempre più interrogano se stessi e gli analisti su quale contributo essi possano ricevere per affrontare questa loro condizione di neuro-diversi.
Il vertice da cui, infine, Mario Vittorangeli ha sviluppato il tema del Dialogo è stato quello economico dell’investimento libidico del sè e quindi della valorizzazione di sè. Ha sottolineato la delicatezza ed il tatto necessari per contattare le aree ferite e difese del paziente, fonte dei maggiori problemi controtransferali ma anche via obbligata di un percorso imprescindibile per consentire la maturazione di un sufficiente senso di sé attraverso un continuo lavoro di destrutturazione e ristrutturazione, orientato a disinnescare le componenti narcisistiche grandiose distruttive che non tollerano la dipendenza a favore di quelle sane e inibite che riconoscono il bisogno.
Al termine di una discussione caratterizzata, soprattutto nella giornata conclusiva, da numerosi e vivaci interventi dalla sala Nicolino Rossi, nella sue conclusioni, ha voluto sottolineare come l’accento sulla Relazione sia stato il filo conduttore non solo di questa ma di tutte e tre le edizioni del Dialogo Internazionale. Un tema, quello della Relazione, che a suo avviso segna una sorta di spartiacque nella psicoanalisi degli ultimi decenni, una trasformazione che ha reso la rappresentazione del soggetto più concreta ed umana, con un diverso spessore rispetto ad un tempo. All’interno di questo spessore c’è tutta la ricchezza e la complessità che il pensiero psicoanalitico ha saputo mettere in campo nel corso di tutto il suo sviluppo.
Vedi anche:
CdPR – Fusionalità. Storia del concetto e sviluppi attuali. Roma, 23 e 24 marzo 2019
CPB – 3° Dialogo Internazionale. Bologna, 9 e 10 febbraio 2019