Il lettino e la piazza
Salaborsa, 28 febbraio 2015
(a cura di Antonella Di Ceglie)
In continuità con i temi del femminile, del maschile, e della violenza degli uomini sulle donne sviluppati nel 2014, sabato 28 Febbraio si è aperto a Bologna il secondo ciclo di incontri “Il Lettino e la Piazza”, organizzato dal Centro Psicoanalitico Bolognese in collaborazione con Sala Borsa, istituzione culturale della città e sua vera e propria “piazza coperta”.
La riflessione di quest’anno è dedicata al concetto di limite, inteso nel duplice significato di confine in grado di arginare l’illusione di onnipotenza e di funzione costitutiva di uno spazio personale, e tematizzato in particolare in relazione alla crescita e al rapporto tra genitori e figli.
In una sala affollata da un pubblico attento e composito, con Mario Vittorangeli garbato e puntuale moderatore, in questo primo incontro Paola Golinelli e Chiara Saraceno hanno intrecciato itinerari di pensiero sulla maternità.
In un crescendo di suggestioni intessute in una trama densa e coinvolgente di riferimenti – letterari, cinematografici, iconografici ed anche ‘pop’ -, Golinelli ha presentato una relazione intitolata “La maternità tra creatività e limite”. Una immediata apertura sull’inconscio, attraverso il sogno di una donna in gravidanza, ha introdotto il pubblico a questo momento “epico” della psiche, mostrando che al di là delle distorsioni idealizzanti e celebrative che tendono a enfatizzarne soltanto gli aspetti di beata fusionalità, esso ospita un lato oscuro, attraversato da potenti ambivalenze e conflittualità che necessitano di essere riconosciute ed elaborate. Il continuum gravidanza-maternità è un processo che attiva fantasmi inconsci “perché la terribile responsabilità e il potere di donare la vita risvegliano l’onnipotenza infantile, dando agli affetti un peso inquietante” (Golinelli). Il corpo che, incontrollabile, irrompe drammaticamente sulla scena, costringe la donna a contattare una inconsueta e spaesante dimensione “naturale” e a riconfrontarsi, da subito, con il tema della separazione e della perdita: con la nostalgia primaria e l’angoscia di separazione dalla propria madre, ma anche con la perdita dell’aspettativa di essere la madre “perfetta” di un bambino “perfetto”.
Il discorso di Golinelli ha permesso al pubblico di avvicinare il pensiero inconscio coglibile nelle rappresentazioni del materno che attraversa le generazioni. La gravidanza è un luogo mentale dove almeno tre generazioni di donne – nonna, madre e figlia – sono fantasmaticamente coinvolte e si stratificano l’una sull’altra. Le tre generazioni sembrano fondersi tra loro nella magnifica rappresentazione che ne ha offerto Leonardo nel cartone di Sant’Anna: tre figure, ciascuna in braccio all’altra, si configurano contemporaneamente quali contenitori e contenuti, come elementi di una matrioska. In un itinerario iconografico che sembra alludere ad una crescente mobilità, si è proseguito con l’Annunciazione di Lorenzo Lotto in cui una vergine dall’aria umile e timorosa e un angelo che sembra “palestrato” appaiono quali ironiche e polarizzate rappresentazioni del maschile e del femminile. In questa cornice di ortodossia tendenzialmente statica e cristallizzata, compare, molto vicino al punto focale del quadro, una inusuale figura “terza”: un piccolo gatto, che traccia, attraversandolo, uno spazio intermedio e mobile tra uomo e donna. Con una espressione che sembra evocare timore, ma anche curiosità e desiderio, il gatto diviene simbolo della sorpresa e del turbamento che prende ogni donna quando si accorge che la sua fanciullezza è finita, e che l’aspetta una rivoluzione, anche sessuale. Allo stesso tempo esso sembra rappresentare un aspetto erotico e pulsionale, storicamente scisso dalle rappresentazioni della figura femminile, ma che pare trovare la possibilità di una reintegrazione, ed anche la sua occorrenza. L’erotico e il pulsionale ritrovano una strada per essere pensati come aspetti del femminile.
Se il discorso psicoanalitico di Golinelli ha messo in luce le rappresentazioni interne della maternità e del femminile, Saraceno rivolge le sue riflessioni alla rappresentazione sociale del materno, evidenziando come, a tutt’oggi, l’immaginario sulla madre appaia imbrigliato in una logica contrappositiva : o, nel solco di una retorica maternalista, una madre rappresentata come priva di ogni altro interesse che non sia quello di accudire ad oltranza i figli (“maschi, soprattutto”), e perciò “soffocante” e responsabile della loro incapacità a guadagnare l’autonomia; oppure la madre “distratta” dalla carriera e conseguentemente “senza cuore”, “trascurante” e “narcisista”. Una madre in ogni caso onnipotente, unica responsabile del bene o del male dei figli. Significativamente, questa tensione dicotomica, così ravvisabile nel senso comune, riaffiora in riflessioni apparentemente più sofisticate, che guadagnano molto spazio ed esercitano un peso nel discorso pubblico e nei media.
Saraceno ha proposto alcune evidenze critiche di questo fenomeno a partire da un articolo di Recalcati dedicato alle madri, per singolare coincidenza pubblicato su Repubblica lo stesso giorno dell’incontro bolognese. L’assunto di partenza dell’articolo, che racconta di madri sospese tra tentazioni fagocitanti da coccodrillo e narcisistici distacchi, contiene un errore storico: quello per cui nella cultura patriarcale la madre sarebbe stata totalmente dedita alla cura dei suoi figli. In realtà questa idea nasce soltanto nell’ottocento, limitatamente all’occidente e alle classi più abbienti. Fino ad allora la donna era corpo riproduttivo e il suo dovere esclusivamente procreativo. Credo che uno sguardo psicoanalitico potrebbe interrogarsi sul senso dell’“errore”, sulla possibilità che esso origini da una prospettiva nostalgica, che tende a scambiare per dati esterni e oggettivi i bisogni più profondi del bambino. D’altra parte, mi pare che lo stesso discorso psicoanalitico non sia del tutto esente da questi aspetti: se l’aggressività “costituisce il sostrato di ogni relazione tenera e amorosa tra esseri umani, con l’unica eccezione, forse, di quella tra la madre e il figlio maschio” (Freud S., Il disagio della civiltà, 1929, vol. X., p.601), non è poi così difficile cadere nell’idealizzazione della oblatività materna.
Nel percorso tracciato da Saraceno lo stesso accudimento ha rappresentato una conquista per le donne, che solo faticosamente hanno cominciato a vedersi accreditare di un respiro creativo e ad essere riconosciute quali soggetti realmente generativi. La rappresentazione della maternità è oggi profondamente diversa da quella imposta dalla cultura patriarcale, ma ugualmente è attraversata dal pregiudizio che vuole le donne rifiutare il prezzo del sacrificio per dedicarsi alla carriera, oppure votarsi totalmente alla cura dei figli, misconoscendo il proprio diritto ad una passione capace di oltrepassare una idea di accudimento ancora inteso come dedizione totalizzante; in questo dilemma si dibatterebbero le madri di oggi, colpevoli di non avere interiorizzato la cura degli altri come un destino naturale. Fatalmente destinate a scivolare lungo il crinale del troppo o del troppo poco, le madri così rappresentate non vincono mai, incapaci di trovare un equilibrio nel gioco degli investimenti tra sé e l’altro, tra consacrazione assoluta all’accudimento ed egoistica rinuncia ad esso.
Ma la passione ha uno stretto legame con la generatività. A fronte della consolidata e asfittica logica aut aut, Saraceno intende la maternità come ciò che va oltre la dimensione della sola cura dell’altro, pur necessaria ed essenziale, e non rinuncia al rapporto col mondo perché sa che c’è altro là fuori, per sé e per il proprio figlio. La libertà di affermare la propria individualità, non sacrificando alcuna parte di sé e i propri progetti, permette di mettere al mondo anche altro, insieme al figlio. La capacità generativa della madre non può ridursi alla sua funzione accudente, perché anche le madri possono avere rispetto ai figli quel tipo di generatività tradizionalmente riconosciuta ai padri e che ha a che fare col mondo e con la trasmissione di significati.
Generatività materna e creatività vengono così ad accostarsi in un orizzonte di più largo respiro che mi sembra contenere ampie consonanze con il discorso filosofico di Francesca Rigotti (Partorire con il corpo e con la mente, Bollati Boringhieri, 2010), che associa l’esperienza della generatività materna alla pratica del pensiero e ripensa “la maternità alla luce della filosofia e la filosofia alla luce della maternità” nel loro profondo nesso con la creatività. La rigida separazione competenziale che riserva all’uomo la testa e alla donna-madre il cuore, sottesa dalla prospettiva epistemica che vuole l’uomo creativo e la donna procreativa, ha comportato una svalorizzazione del procreativo, percepito come limite alla creatività. Le pratiche quotidiane nelle quali le madri sono impegnate, rileva invece Rigotti, attivano un sensorio estetico-morale e sollecitano facoltà che danno luogo ad un particolare stile di “pensiero materno”, in grado di trarre beneficio dalle continue contaminazioni tra i diversi piani di esperienza, assegnando alla donna un prezioso vantaggio speculativo: in termini creativi, la possibilità di coniugare “cuore di mamma” e “mente di mamma” rappresenta un’opportunità per tutti, anche per gli uomini.
Nel dialogo fra Golinelli e Saraceno il riconoscimento della capacità generativa, e del suo valore non limitato alla letteralità, ha ricomposto le polarizzazioni ideologiche sul materno e proposto che a porre un limite alle derive onnipotenti della madre non sia la passione rivolta a nient’altro che ai figli, come vorrebbe una certa ideologia del desiderio, quanto invece la consapevolezza della responsabilità che ogni madre ha sul mondo, oltre che su se stessa. “Il desiderio non può essere affermato come bene totale ma, specie se inteso all’interno dei rapporti tra uomo e donna, esso va giocato nella complessità, modulato, condiviso o corretto; la donna deve essere nel mondo e, se non si può cambiare il mondo, è importante cominciare a cambiare la trasmissione da madre a figlia e da madre a figlio”, osserva Golinelli. “Generatività è fare la mamma avendo anche un progetto su di sé, un progetto per il mondo, piccolo o grande che sia”, raccoglie Saraceno.
È possibile così ravvisare l’ampio e appassionato respiro di libertà che percorre il dialogo intenso tra madre e figlia riportato nel libro di Mariella Gramaglia e Maddalena Vianello, (Tra te e me, et al./edizioni, 2013) segnalato da Saraceno. Un dialogo che si fa metafora più ampia di quello fra generazioni, in cui la figlia rimprovera alla madre, nota protagonista nella scena culturale e politica italiana, non un insufficiente accudimento, ma di non essere riuscita a cambiare il mondo; dove il proprio progetto di mondo può anche fallire, ma non fallisce il messaggio che c’è qualcosa da fare in questo mondo; perché quello che conta è averci provato, esserci ed esserci state.
È il senso anche di questo incontro, dell’importanza di non ridurre la complessità del desiderio ad una ideologia, di una riflessione sul limite avviata in questo dialogo pubblico e che ha chiamato la psicoanalisi e la sociologia a confrontarsi in una piazza che ospiterà nei prossimi mesi altri confronti ed altri spazi di parola.
Marzo 2015