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26 gennaio 2014 Giornata della Memoria, Morire per sopravvivere

24/01/14

“ vorrei morire senza aver aggiunto

neppure una goccia all’odio del mondo”

(Simone Weil)

 

“L’ebreo è per la gioia e la gioia è per l’ebreo” scrive Freud alla fidanzata Martha ( Freude in tedesco significa “gioia”).

E’ significativo che questo termine risuoni più volte nelle lettere che Ilse Weber, ebrea residente in Cecoslovacchia e appartenente alla minoranza di lingua tedesca,  invia in Inghilterra, all’amica Lilian. (Ilse Weber, Quando finirà la sofferenza ? Lettere e poesie da Theresienstadt, Lindau, Torino 2013). Nulla di strano se non fosse che la corrispondenza si svolge dal 1933 al 1944, interrompendosi quando Ilse, con il secondogenito Tommy e altri bambini da lei accuditi con inesausta dedizione nel campo di concentramento di Theresien,   viene avviata al terribile lager di  Auschwitz , dove morirà poco dopo. Le persecuzioni degli Ebrei cechi erano iniziate nel 1938, dopo l’invasione tedesca della Cecoslovacchia, e continueranno  in un crescente angoscioso, di cui la corrispondenza di Ilse dà precisa  testimonianza,  sino al termine  della guerra. La sua  resistenza psichica  di fronte a una persecuzione tanto insensata quanto feroce,  è al tempo stesso ammirevole e sconcertante perché, almeno nella pluriennale  corrispondenza con Lilian,  lei cerca in ogni modo di controllare  ogni emozione negativa,  di non cedere per nessuna ragione alla paura, all’ odio e alla disperazione. Eppure, editti  sempre più restrittivi  privano lei e la sua famiglia del lavoro, della casa, della libertà di movimento ( a Praga il coprifuoco scatta alle otto di sera, molte strade e negozi sono vietati ).  Le sono interdette le amicizie , i libri, i  giornali,  la musica, le collaborazioni con la stampa e la radio. La povertà obbliga lei e il marito  a lavorare a cottimo sino allo sfinimento. Nell’ultima abitazione, dove sono accampati un’unica  stanza, fredda e buia, Tommy può fruire di uno spazio di venti centimetri e  gli è consentito  giocare solo entro il recinto dell’angusto e tetro  cimitero ebraico.

Dal 1942 , imprigionata col marito e il figlio, nella cupa fortezza di  Theresien,  Ilse  vede ridurre  progressivamente il  cibo, l’aria, lo spazio vitale, ma mai  e poi mai riusciranno a sottrarle l’esercizio della spiritualità intellettuale e l’impegno dell’agire morale. Da dove deriva un atteggiamento in cui una luminosa vita  interiore convive con una  rassegnazione esteriore talora incomprensibile, come quando rifiuta la somma di denaro che le consentirebbe di salvarsi emigrando con i suoi in Palestina? Oppure, in occasione di una ispezione della Croce Rossa sulle condizioni di vita a Theresien (quando i nazisti organizzarono una “colossale e perversa finzione” per presentarla come una città modello)  suppongo che Ilse, poetessa, musicista, compositrice  e sceneggiatrice,  avrà partecipato all’allestimento  del  bellissimo dramma  musicale, Brundibar, recitato e cantato da un coro  di bambini, che celebra il  trionfo del Bene sul Male, esito quanto mai incerto fuori dal palcoscenico.

Perché, in gravi condizioni di pericolo, questa donna non ha paura per sé, per il figlio, per il marito ?  Perché non fugge, non si  ribella ma si limita a resistere?

Mi viene in mente, a questo punto un ricordo di famiglia, riportato da  Freud nell’Interpretazione dei sogni. Anni prima, mentre il  padre  passeggiava per le vie di un piccolo paese della Galizia, fu avvicinato da un cristiano che gli gettò il rituale  cappello di pelliccia nel fango. “ E tu cosa facesti?” gli domandò il figlio. “Andai in mezzo alla via e lo raccolsi” fu la sua pacata risposta.

Secondo Harold Bloom, l’etica dell’ebreo chassidico risiede nel riconoscersi diverso e altrove.

Un altrove che si situa nell’interiorità e che si esprime nelle forme della cultura. Un dispositivo psichico in cui Habermas riconosce “ l’urbanizzazione delle passioni”.

Tornando a Ilse, prima dell’internamento dovette affrontare un crescendo di ingiunzioni persecutorie, tra le quali l’ obbligo per  gli Ebrei  di ostentare un simbolo di riconoscimento che li additasse come tali  alla pubblica opinione. Scrivendone  all’amica il suo commento fu  : “da ieri (Tommy) va a scuola con un distintivo: una stella gialla che viene cucita sulla  giacca o su un soprabito. Tommy è orgoglioso della sua stella, all’incirca come lo è un generale delle sue medaglie. Noi tutti portiamo la stessa stella, e lo facciamo con gioia”.

Possibile che a una persona sensibile, colta e responsabile  sfugga l’aspetto  persecutorio del provvedimento?  Ne è certamente consapevole a livello razionale ma la connotazione  emotiva è stata rimossa da un meccanismo di difesa inconscio in cui possiamo riconoscere l’effetto della negazione: non c’è offesa, non c’è danno. Anzi il diniego  si spinge sino ad invertire la carica affettiva del provvedimento. L’orgoglio viene allora a coprire, tramite un meccanismo di rovesciamento, l’umiliazione provocata dall’arbitraria imposizione di un’ identità che altri hanno trasformato in imputazione: io sono orgogliosa proprio di ciò di cui, secondo voi, mi dovrei vergognare. In tal modo la vittima conferma la  propria  soggettività e preserva l’identità personale evitando il rischio dell’ identificazione con l’aggressore, sempre presente quando il potere è distribuito  in modo così dissimmetrico. In Ilse non c’è alcuna collusione con la violenza esterna e interna perché le pulsioni aggressive subiscono un processo di sublimazione. Inizialmente interiorizzate e  riversate sull’Io, vengono poi  investite nella ricerca intellettuale , nella  creatività artistica e in generale nelle  attività cui la società attribuisce grande valore, che per Freud sono:  governare, curare ed educare. Alle ultime due, come illustreranno le relazioni successive, saranno rivolte tutte le energie di Ilse. Soprattutto nei confronti dei bambini, che dichiara essere la sua “passione”.

Freud, adottando un punto di vista storico, considera la sublimazione il motore stesso dell’incivilimento. Di conseguenza il lavoro psichico  con cui Ilse Weber  ha affrontato l’immane tragedia che ha travolto lei, la sua famiglia, la  comunità cui appartiene e , al limite,  il mondo,    è al tempo stesso individuale e collettivo, è una reazione che ha radici lunghe, che affondano nella storia d’Europa, e non solo.  Che cosa  ha consentito a un popolo, che stava per essere annientato,  di salvarsi moralmente  preservando la dignità e l’orgoglio ? In particolare, che cosa   induce Ilse ad accettare di morire fisicamente pur di sopravvivere spiritualmente?  Innanzitutto l’impossibilità di comprendere, proprio nel senso etimologico di “prendere dentro di sé”, di far proprio, un odio, quello nazista, che proviene da un soggetto storico, i tedeschi, amato e ammirato, espressione  di una  comunità ideale alla quale , per due  secoli,  gli ebrei dell’Est  avevano   cercato di appartenere attraverso difficili   processi d’ integrazione. Si tratta, paradossalmente, di un apprezzamento condiviso, visto che i nazisti, mentre eseguivano il genocidio degli Ebrei, stavano organizzando un  grande museo della cultura ebraica. Da un punto di vista intrapsichico, l’assimilazione della  cultura tedesca è stata tale da rappresentare , per gli ebrei , l’ ideale dell’Io. Contradditorio allora, forse impossibile, senz’altro paralizzante ammettere che quell’istanza è diventata persecutoria sino a colpire l’Io  con il più profondo disprezzo. Ammetterlo vorrebbe dire aprire un micidiale conflitto interiore, incrinare la propria identità, appiattire  l’autobiografia, uscire dal corso della storia. Proprio quello che si ripromettevano i nazisti quando negavano  ai giudei ( e non solo) l’appartenenza alla  “razza umana” . Per Ilse la lingua madre è il tedesco, il referente filosofico è Lessing ( ebreo tedesco), l’arte per eccellenza è la musica, la contrapposizione tra spiritualità  e vitalità  è quella espressa dalla cultura romantica tedesca, da Goethe e Mann. E’ significativo che dalle sue lettere, così attente a descrivere la quotidianità   familiare, raramente  trapelino legami  extradomestici , non c’è un “noi” con cui condividere il dramma che sta vivendo. I rapporti di amicizia, di vicinanza, di lavoro, di solidarietà, di comunità, forse per evitare i controlli della censura, raramente  figurano tra gli argomenti affrontati.  Ilse è sola ( il marito è una figura marginale , il secondogenito un bambino da accudire con  gli altri), sola con se stessa e con il primogenito Hanus, fisicamente lontano perché rifugiato in Svezia ma affettivamente vicino,  che costituisce il vero interlocutore delle sue lettere.

Vista dal di fuori, con lo sguardo retroattivo del secolo successivo, la situazione  che ci viene descritta è disperata e lo sterminio incombente ma la speranza domina la  mente  di questa donna coraggiosa e regge la sua inesausta  donazione di amore, conforto, cura e creatività ai bambini di Therezin che accompagnerà, tenendoli per mano e confortandoli, al forno crematorio di Auschwitz.

Sino all’ultimo Ilse vivrà come se ci fosse un futuro possibile, anche se nessuna promessa lo illumina, nessuna anticipazione lo rende desiderabile. Nonostante tutto intorno a lei stia crollando, non esita a dichiarare un’intangibile fiducia nell’umanità e nel futuro, rappresentato dai bambini.  Non a caso l’ebraismo è la religione dell’attesa e forse la fede, che Ilse ammette, quasi di sfuggita, di aver ritrovato, costituisce la radice segreta della sua forza. Mai nelle sue lettere trapela un sentimento di odio verso i portatori di morte che stanno annientando il mondo.  Soltanto alla fine, nelle poesie sublimate dall’arte, si concede, di fronte alla cruda realtà dello sterminio, di esprimere emozioni e sentimenti negativi. Invettive che evocano il Dio guerriero dell’Antico Testamento animano  la poesia I sette  (giovani uomini uccisi dalle SS), dove lo sdegno e la collera irrompono tra le esortazioni all’amore, alla bellezza, alla compassione e alla fede:  “ Signore stermina la marmaglia/di questa ripugnante cova./ Quando ci redimerai, o Signore,/dal peso malvagio del tempo,/quando vendicherai il sangue innocente?”

Come dice Freud, sulla via della verità i poeti ci procedono sempre.

Quella giovane donna, vissuta nel segno dell’amore e morta sotto il peso dell’odio, libera nella vita interiore anche quando la realtà l’imprigiona , rappresenta una  figura tragica della  modernità. In un momento di crisi globale, quando l’orizzonte appare cupo e lontano, la sua figura ci interroga e ci aiuta a non disperare con la promessa implicita che,  anche dopo la notte più lunga, viene sempre il mattino. 

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