“ vorrei morire senza aver aggiunto
neppure una goccia all’odio del mondo”
(Simone Weil)
“L’ebreo è per la gioia e la gioia è per l’ebreo” scrive Freud alla fidanzata Martha ( Freude in tedesco significa “gioia”).
E’ significativo che questo termine risuoni più volte nelle lettere che Ilse Weber, ebrea residente in Cecoslovacchia e appartenente alla minoranza di lingua tedesca, invia in Inghilterra, all’amica Lilian. (Ilse Weber, Quando finirà la sofferenza ? Lettere e poesie da Theresienstadt, Lindau, Torino 2013). Nulla di strano se non fosse che la corrispondenza si svolge dal 1933 al 1944, interrompendosi quando Ilse, con il secondogenito Tommy e altri bambini da lei accuditi con inesausta dedizione nel campo di concentramento di Theresien, viene avviata al terribile lager di Auschwitz , dove morirà poco dopo. Le persecuzioni degli Ebrei cechi erano iniziate nel 1938, dopo l’invasione tedesca della Cecoslovacchia, e continueranno in un crescente angoscioso, di cui la corrispondenza di Ilse dà precisa testimonianza, sino al termine della guerra. La sua resistenza psichica di fronte a una persecuzione tanto insensata quanto feroce, è al tempo stesso ammirevole e sconcertante perché, almeno nella pluriennale corrispondenza con Lilian, lei cerca in ogni modo di controllare ogni emozione negativa, di non cedere per nessuna ragione alla paura, all’ odio e alla disperazione. Eppure, editti sempre più restrittivi privano lei e la sua famiglia del lavoro, della casa, della libertà di movimento ( a Praga il coprifuoco scatta alle otto di sera, molte strade e negozi sono vietati ). Le sono interdette le amicizie , i libri, i giornali, la musica, le collaborazioni con la stampa e la radio. La povertà obbliga lei e il marito a lavorare a cottimo sino allo sfinimento. Nell’ultima abitazione, dove sono accampati un’unica stanza, fredda e buia, Tommy può fruire di uno spazio di venti centimetri e gli è consentito giocare solo entro il recinto dell’angusto e tetro cimitero ebraico.
Dal 1942 , imprigionata col marito e il figlio, nella cupa fortezza di Theresien, Ilse vede ridurre progressivamente il cibo, l’aria, lo spazio vitale, ma mai e poi mai riusciranno a sottrarle l’esercizio della spiritualità intellettuale e l’impegno dell’agire morale. Da dove deriva un atteggiamento in cui una luminosa vita interiore convive con una rassegnazione esteriore talora incomprensibile, come quando rifiuta la somma di denaro che le consentirebbe di salvarsi emigrando con i suoi in Palestina? Oppure, in occasione di una ispezione della Croce Rossa sulle condizioni di vita a Theresien (quando i nazisti organizzarono una “colossale e perversa finzione” per presentarla come una città modello) suppongo che Ilse, poetessa, musicista, compositrice e sceneggiatrice, avrà partecipato all’allestimento del bellissimo dramma musicale, Brundibar, recitato e cantato da un coro di bambini, che celebra il trionfo del Bene sul Male, esito quanto mai incerto fuori dal palcoscenico.
Perché, in gravi condizioni di pericolo, questa donna non ha paura per sé, per il figlio, per il marito ? Perché non fugge, non si ribella ma si limita a resistere?
Mi viene in mente, a questo punto un ricordo di famiglia, riportato da Freud nell’Interpretazione dei sogni. Anni prima, mentre il padre passeggiava per le vie di un piccolo paese della Galizia, fu avvicinato da un cristiano che gli gettò il rituale cappello di pelliccia nel fango. “ E tu cosa facesti?” gli domandò il figlio. “Andai in mezzo alla via e lo raccolsi” fu la sua pacata risposta.
Secondo Harold Bloom, l’etica dell’ebreo chassidico risiede nel riconoscersi diverso e altrove.
Un altrove che si situa nell’interiorità e che si esprime nelle forme della cultura. Un dispositivo psichico in cui Habermas riconosce “ l’urbanizzazione delle passioni”.
Tornando a Ilse, prima dell’internamento dovette affrontare un crescendo di ingiunzioni persecutorie, tra le quali l’ obbligo per gli Ebrei di ostentare un simbolo di riconoscimento che li additasse come tali alla pubblica opinione. Scrivendone all’amica il suo commento fu : “da ieri (Tommy) va a scuola con un distintivo: una stella gialla che viene cucita sulla giacca o su un soprabito. Tommy è orgoglioso della sua stella, all’incirca come lo è un generale delle sue medaglie. Noi tutti portiamo la stessa stella, e lo facciamo con gioia”.
Possibile che a una persona sensibile, colta e responsabile sfugga l’aspetto persecutorio del provvedimento? Ne è certamente consapevole a livello razionale ma la connotazione emotiva è stata rimossa da un meccanismo di difesa inconscio in cui possiamo riconoscere l’effetto della negazione: non c’è offesa, non c’è danno. Anzi il diniego si spinge sino ad invertire la carica affettiva del provvedimento. L’orgoglio viene allora a coprire, tramite un meccanismo di rovesciamento, l’umiliazione provocata dall’arbitraria imposizione di un’ identità che altri hanno trasformato in imputazione: io sono orgogliosa proprio di ciò di cui, secondo voi, mi dovrei vergognare. In tal modo la vittima conferma la propria soggettività e preserva l’identità personale evitando il rischio dell’ identificazione con l’aggressore, sempre presente quando il potere è distribuito in modo così dissimmetrico. In Ilse non c’è alcuna collusione con la violenza esterna e interna perché le pulsioni aggressive subiscono un processo di sublimazione. Inizialmente interiorizzate e riversate sull’Io, vengono poi investite nella ricerca intellettuale , nella creatività artistica e in generale nelle attività cui la società attribuisce grande valore, che per Freud sono: governare, curare ed educare. Alle ultime due, come illustreranno le relazioni successive, saranno rivolte tutte le energie di Ilse. Soprattutto nei confronti dei bambini, che dichiara essere la sua “passione”.
Freud, adottando un punto di vista storico, considera la sublimazione il motore stesso dell’incivilimento. Di conseguenza il lavoro psichico con cui Ilse Weber ha affrontato l’immane tragedia che ha travolto lei, la sua famiglia, la comunità cui appartiene e , al limite, il mondo, è al tempo stesso individuale e collettivo, è una reazione che ha radici lunghe, che affondano nella storia d’Europa, e non solo. Che cosa ha consentito a un popolo, che stava per essere annientato, di salvarsi moralmente preservando la dignità e l’orgoglio ? In particolare, che cosa induce Ilse ad accettare di morire fisicamente pur di sopravvivere spiritualmente? Innanzitutto l’impossibilità di comprendere, proprio nel senso etimologico di “prendere dentro di sé”, di far proprio, un odio, quello nazista, che proviene da un soggetto storico, i tedeschi, amato e ammirato, espressione di una comunità ideale alla quale , per due secoli, gli ebrei dell’Est avevano cercato di appartenere attraverso difficili processi d’ integrazione. Si tratta, paradossalmente, di un apprezzamento condiviso, visto che i nazisti, mentre eseguivano il genocidio degli Ebrei, stavano organizzando un grande museo della cultura ebraica. Da un punto di vista intrapsichico, l’assimilazione della cultura tedesca è stata tale da rappresentare , per gli ebrei , l’ ideale dell’Io. Contradditorio allora, forse impossibile, senz’altro paralizzante ammettere che quell’istanza è diventata persecutoria sino a colpire l’Io con il più profondo disprezzo. Ammetterlo vorrebbe dire aprire un micidiale conflitto interiore, incrinare la propria identità, appiattire l’autobiografia, uscire dal corso della storia. Proprio quello che si ripromettevano i nazisti quando negavano ai giudei ( e non solo) l’appartenenza alla “razza umana” . Per Ilse la lingua madre è il tedesco, il referente filosofico è Lessing ( ebreo tedesco), l’arte per eccellenza è la musica, la contrapposizione tra spiritualità e vitalità è quella espressa dalla cultura romantica tedesca, da Goethe e Mann. E’ significativo che dalle sue lettere, così attente a descrivere la quotidianità familiare, raramente trapelino legami extradomestici , non c’è un “noi” con cui condividere il dramma che sta vivendo. I rapporti di amicizia, di vicinanza, di lavoro, di solidarietà, di comunità, forse per evitare i controlli della censura, raramente figurano tra gli argomenti affrontati. Ilse è sola ( il marito è una figura marginale , il secondogenito un bambino da accudire con gli altri), sola con se stessa e con il primogenito Hanus, fisicamente lontano perché rifugiato in Svezia ma affettivamente vicino, che costituisce il vero interlocutore delle sue lettere.
Vista dal di fuori, con lo sguardo retroattivo del secolo successivo, la situazione che ci viene descritta è disperata e lo sterminio incombente ma la speranza domina la mente di questa donna coraggiosa e regge la sua inesausta donazione di amore, conforto, cura e creatività ai bambini di Therezin che accompagnerà, tenendoli per mano e confortandoli, al forno crematorio di Auschwitz.
Sino all’ultimo Ilse vivrà come se ci fosse un futuro possibile, anche se nessuna promessa lo illumina, nessuna anticipazione lo rende desiderabile. Nonostante tutto intorno a lei stia crollando, non esita a dichiarare un’intangibile fiducia nell’umanità e nel futuro, rappresentato dai bambini. Non a caso l’ebraismo è la religione dell’attesa e forse la fede, che Ilse ammette, quasi di sfuggita, di aver ritrovato, costituisce la radice segreta della sua forza. Mai nelle sue lettere trapela un sentimento di odio verso i portatori di morte che stanno annientando il mondo. Soltanto alla fine, nelle poesie sublimate dall’arte, si concede, di fronte alla cruda realtà dello sterminio, di esprimere emozioni e sentimenti negativi. Invettive che evocano il Dio guerriero dell’Antico Testamento animano la poesia I sette (giovani uomini uccisi dalle SS), dove lo sdegno e la collera irrompono tra le esortazioni all’amore, alla bellezza, alla compassione e alla fede: “ Signore stermina la marmaglia/di questa ripugnante cova./ Quando ci redimerai, o Signore,/dal peso malvagio del tempo,/quando vendicherai il sangue innocente?”
Come dice Freud, sulla via della verità i poeti ci procedono sempre.
Quella giovane donna, vissuta nel segno dell’amore e morta sotto il peso dell’odio, libera nella vita interiore anche quando la realtà l’imprigiona , rappresenta una figura tragica della modernità. In un momento di crisi globale, quando l’orizzonte appare cupo e lontano, la sua figura ci interroga e ci aiuta a non disperare con la promessa implicita che, anche dopo la notte più lunga, viene sempre il mattino.