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Due parole su come è nata questa iniziativa.
Lo spettacolo è stato segnalato prima delle vacanze estive al Centro Milanese di psicoanalisi dal direttore della Casa della Cultura, Ferruccio Capelli. Come referente del gruppo che studia gli aspetti psicoanalitici dei traumi e delle tragedie storiche collettive, ho preso contatto con gli autori Susanne Barta e Manfredo Bertazzoni.
Il 30 luglio 2013, in occasione del Congresso della International Psychoanalytic Association a Praga ho potuto visitare, con alcuni colleghi di diversi paesi, la fortezza lager di Terezin, che è poco distante da Praga.
Al visitatore appena arrivato Terezin si presenta come uno spazio vasto e spoglio, costeggiato da una spianata di tombe con una grande croce e una stella di Davide. (DIA A,B,C ).
Lo spazio è limitato da due fortezze coeve, la Grande e la piccola Fortezza, costruite su pianta a stella alla fine Settecento. La Grande Fortezza, una cittadina fortificata, divenne il Ghetto di Terezin. Tra gli edifici in cui furono ammassati i prigionieri c’è la scuola, che è oggi diventata il museo del Ghetto.
Vale la pena di ricordare che la Grande Fortezza fu lo scenario di una colossale e perversa finzione dei nazisti. Infatti nel 1944, mentre a scaglioni deportavano i prigionieri dal ghetto ai campi di sterminio, i nazisti presentarono Terezin come la città modello “donata dal Fuhrer agli ebrei”. Fu così girato un film in cui tutti apparivano lieti, ben vestiti e sorridenti. Per mostrare al mondo come i profughi fossero ben trattati il finto ghetto fu aperto agli ispettori della Croce Rossa nel giugno 1944. Nel corso della breve visita gli ispettori videro o vollero vedere, solo il ghetto modello.
La Piccola Fortezza, già carcere duro durante l’impero, dal 1940 passò sotto il controllo della Gestapo. L’ho visitata e cerco di raccontarvi questa esperienza. Superato un ingresso minaccioso ecco gli enormi campi, gli spalti, gli stanzoni dove si ammassavano i deportati. Con l’infermeria, le celle per la tortura e quelle di detenzione per i condannati a morte. A sorvegliare le baracche una casa linda di stile tirolese: lo chalet delle guardie. E poi gli spiazzi per le esecuzioni e i vasconi dove venivano gettati i cadaveri.
E poi le celle, dei buchi, che erano destinate ai condannati a morte o al carcere perpetuo al tempo dell’impero austro-ungarico, prima di diventare celle per i prigionieri massacrati dalla Gestapo. Mentre passiamo nel corridoio arriva in volo, velocissima, una rondine: che si posa sulla porta di una cella. Ha nidificato lì. Dietro quella porta, dopo quattro anni di carcere duro, sempre al buio, dice la guida, è morto di tubercolosi Gavrilo Prinzip. In una di quelle celle dopo quattro anni di carcere duro, passati al buio, dice la guida, è morto di tubercolosi Gavrilo Prinzip. Proprio lui, quello studente serbo di diciassette anni che sparò all’Arciduca Francesco Ferdinando nell’attentato che fu il detonatore della Prima Guerra Mondiale. Un nome. Quella cella era stata la cella di un ragazzo, con un nome. Una figura esce dall’anonimato e noi visitatori usciamo dallo stato di obnubilamento e ci rendiamo conto in modo più lucido che quel vuoto, che sembrava risucchiarci, è abitato, è affollato da presenze mute, che erano persone, singoli individui. Non più una massa, dove le individualità si perdono, ma volti, nomi, storie.
Per ricordare bisogna far emergere gli individui dalla massa anonima. E’ difficile e forse ingiusto testimoniare della massa, non si può rielaborare quel che è accaduto alla massa, o lo si può fare in modo molto parziale. Noi che ascoltiamo il racconto del lager, noi visitatori davanti alle lapidi con i numeri degli ebrei deportati ci chiediamo: quanti morti? quanti morti a Terezin? quanti ad Auschwitz? Ma finché non sappiamo chi erano ci troviamo di fronte all’impensabile. La massa deve ridiventare gli individui: uomini, donne, bambini. A Terezin, soprattutto bambini. L’anonimato della massa non è che una delle violenze inflitte dalla Shoah che continua anche dopo la Shoah.
Dopo esser stata a Terezin i miei sonni sono stati abitati da incubi confusi per un mese: dovevo scappare, mi inseguivano, ero in un pericolo mortale. Mi svegliavo con una sensazione di vuoto e di non riuscire ad afferrare le immagini. Questo non avrebbe nessun rilievo se non fosse un effetto comune. Essere esposti, “vedere” i luoghi dei traumi collettivi inflitti dalla crudeltà umana provoca, più che un disagio, una forma di disorientamento, e incubi. E’ cosa conosciuta e studiata psicoanaliticamente. Per dirla con parole schematiche, forse è un tentativo faticoso, tutt’altro che immediato, dell’organizzazione psichica di trasformare sensazioni, percezioni ed emozioni confuse, ammassate, ed eccessive, in qualche cosa di pensabile: parole, immagini. Qualche cosa che può essere comunicato e condiviso. E’ un’ embrionale elaborazione di un trauma, che proviene dal racconto e dall’esposizione al trauma stesso. E’, forse, un’embrionale forma di “riparazione”.
La psicoanalisi con Melanie Klein e i suoi seguaci ha coniato il concetto di “riparazione”. Con questo intende l’elaborazione dell’aggressività, il suo riconoscimento e trasformazione e possibile superamento a partire da sé. Si tratta di riparare, con il pensiero e la parola che dà luogo a simboli condivisi a ciò che nella fantasia, prima che nella realtà, è stato attaccato e distrutto. Ma il compito riparativo non finisce lì: è il compito difficile, non garantito, e precario che ognuno può/deve assumere per restaurare ciò che è stato distrutto: da noi o dagli altri. Individualmente e in gruppo. Per tentare di riparare ciò che unisce gli esseri umani tra loro. E per sentimento di responsabilità verso i più deboli.
Questa è la ragione per cui è necessario sempre di più, in tempi di negazione e di indifferenza, ridare volto, nome e una storia a coloro che i nazisti e i loro complici hanno cercato di cancellare dalla faccia della terra. Per questo nel museo del Ghetto di Terezin sono stati raccolti i disegni, le lettere, le poesie, dei bambini e dei ragazzi che là furono imprigionati. E i loro nomi. Si trovano gruppi interi di fratelli e sorelle. Mi ricorderò, ci ricorderemo dei fratelli Katz, che erano cinque, il più piccolo aveva 3 anni, il più grande 12. Tutti deportati e uccisi ad Auschwitz.
Tra poco sentiremo queste storie, e la storia di Ilse Weber che ha cercato con tutte le sue forze di riparare alla distruzione di quanto vi è di umano, di conservare e rinsaldare il legame con i più piccoli e deboli, in tempi disumani.
Ilse è la nostra rondine. Speriamo tutti nella rondine