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23 novembre 2013 CPB La violenza e le sue trasformazioni

17/02/14

Centro Psicoanalitico di Bologna 

La violenza e le sue trasformazioni

Bologna 23 novembre 2013 

Report a cura di Sabrina Mosca e Stefano Tugnoli 

Il Centro Psicoanalitico di Bologna ha dedicato quest’anno il ciclo di seminari per esterni al tema della violenza.

La giornata di studio di apertura dell’intero ciclo, dal titolo La violenza e le sue trasformazioni, ha proposto all’attenzione dei numerosi partecipanti il contributo di due diversi relatori: Stefano Bolognini, psichiatra, psicoanalista SPI con funzioni di training e attuale presidente dell’IPA, che ha presentato una relazione sull’origine e sui significati psicologici della violenza, con particolare riferimento alla violenza di genere, e Giuliana Barbieri, psicologa, psicoanalista membro ordinario della SPI, che ha presentato una articolata riflessione sul tema della violenza nella relazione genitori-figli, partendo dalla sua ricca e consolidata esperienza clinica nel lavoro di consultazione psicoanalitica con bambini e adolescenti.

 

Irene Ruggiero, presidente del Centro Psicoanalitico di Bologna, ha aperto i lavori sottolineando come il discorso sulla violenza  rimandi inevitabilmente  alla “quaestio” del rapporto natura-cultura,  e inviti ad un confronto  tra  il polo pulsionale-costituzionale di ogni individuo e il ruolo dell’ambiente e delle eventuali esperienze traumatiche che l’individuo può aver vissuto.

 

Stefano Bolognini, con un intervento dal titolo Alle origini della violenza, ha passato in rassegna  le molteplici declinazioni che può assumere sul piano psicologico il concetto di violenza, distinguendo differenti aspetti delle  dinamiche intrapsichiche che ne sono all’origine.

In primo luogo, alla base della violenza si possono individuare alterazioni dei normali assetti di funzionamento mentale, quali, ad esempio, la perdita dei freni inibitori e la dominanza del principio di piacere rispetto al principio di realtà, così come “l’esondazione aggressiva” conseguente ad un accumulo pulsionale causato da eccesso di repressione, e anche gli effetti di traumi e di gravi ferite narcisistiche.

La violenza può anche essere espressione di una specifica configurazione fantasmatica che occupa pervasivamente la scena intrapsichica, collegata al trauma, e che può attivare difese molto primitive, quali la trasformazione del “passivo” in “attivo” e l’identificazione con l’aggressore, come tentativo di trasferire sull’altro l’esperienza inelaborata.

Un terzo dominio, infine, vede la violenza connessa alla perversione, nel contesto della quale la fissazione del piacere legato alla violenza orienta uno stile funzionale del soggetto – lo stile perverso – il quale sviluppa una  capacità operativa raffinata e ben strutturata all’interno di una specifica configurazione relazionale.

 

Bolognini ha precisato poi importanti distinzioni concettuali tra “aggressività”, “violenza”, “distruttività” e “crudeltà”.

Come ben noto dall’etologia l’aggressività è un elemento essenziale per diversi aspetti della vita, individuale e gruppale, e non include soltanto significati negativi. L’etimologia del termine indica che l’aggressività implica un avvicinamento all’oggetto, la violazione dei limiti di prossimità interpersonale. L’aggressività come tale richiede pertanto il mantenimento di una relazione con l’oggetto.

Nella violenza, invece, si tende a cancellare l’oggetto e si configura un fenomeno a maggiore caratura narcisistica che tende alla dissoluzione del rapporto oggettuale: la pulsione travalica i limiti che un comportamento seppur aggressivo dovrebbe rispettare, ovverosia quelli dell’integrità psichica e fisica dell’altro.

Il comportamento violento si configura come distruttività quando agisce a livello psicologico e  neutralizza l’altro dal suo “interno”, producendo un vuoto della mente tramite una pratica violenta e sistematica, come avviene, ad esempio, nel caso della tortura.

Nella crudeltà, infine, c’è un passo ulteriore con l’aggiunta della componente del piacere connesso alla perversione che erotizza la relazione tra soggetto e oggetto, relazione che viene mantenuta sotto l’egida del narcisismo patologico.

 

Passando a considerare la violenza di genere, Bolognini ne ha sottolineato la specificità a partire dal fatto che il rapporto tra i due sessi ha una sua visceralità naturale così profonda da “mobilitare con forza estrema tutta la gamma delle possibili angosce primitive e tutto il repertorio dell’aggressività che scorre nelle relazioni umane”.

Nelle dinamiche della vita sentimentale possiamo individuare un fattore specifico alla base di tante crisi che si verificano nella coppia dopo la stagione iniziale dell’innamoramento che è caratterizzata da un iperinvestimento narcisistico idealizzante. Nel momento in cui  l’oggetto d’amore si evidenzia come altro da sé e provoca  una caduta della idealizzazione (dell’altro e di sé)  si può dar luogo ad un processo di disillusione e di disconferma narcisistica troppo rapido  e traumatico, con conseguenze che possono dimostrarsi devastanti per il senso di sé. Anziché un “graduale atterraggio” de-idealizzante della coppia su livelli di funzionamento più realistici, meno narcisistici e più declinati sul legame oggettuale, si assiste ad uno “schianto traumatico” che attiva sentimenti di rabbia, umiliazione, svalutazione, bisogno di controllare e di attaccare l’oggetto idealizzato, e che può dare inizio ad una spirale di  attacchi verbali e comportamentali fino all’attuarsi di violenze concrete.

 

Bolognini ci ha ricordato anche che nella cosiddetta “violenza sessuale” attuata dall’uomo nei confronti della donna, di “sessuale” c’è ben poco: si tratta in realtà di una aggressività violenta, diretta ed esplicita, talvolta distruttiva, con la quale l’uomo trafigge la donna con il suo “fallo baionetta” e ne occupa il corpo, nel contesto di una confusione tra “codice fallico” (narcisistico) e “codice genitale” (oggettuale): la donna, in questo caso, è puro territorio da conquistare, affermando la propria indefettibile integrità narcisistica, in una guerra che in realtà è contro i maschi nemici.

A volte l’attacco violento non è così diretto e si esercita, sul piano fisico o psicologico,  con modalità più subdole, con azioni poco appariscenti ma progressive e “velenose”, capaci di attaccare e distruggere per gradi il patrimonio narcisistico dell’altro.

 

Dietro molti casi di violenza dell’uomo verso la donna si può scorgere la vendetta nei confronti della esclusione edipica, o, nei casi più regressivi,  un segno di una primitiva e mai risolta dipendenza infantile dalla madre.

Qui Bolognini ha differenziato due diverse tipologie di delitto “edipico”: i delitti passionali in cui l’uomo uccide il rivale, nel segno dell’odio edipico contro un equivalente paterno, e i casi in cui l’uomo uccide la propria donna non tollerando la separazione e non potendo accettare l’evidenza di un oggetto di base “inaffidabile” (la madre diadica). Come è ben noto questi fatti avvengono per lo più  nel contesto di crisi separative o un certo tempo dopo l’interruzione del rapporto. Sono comportamenti distruttivi nei quali la supremazia della forza fisica si presta a “rassicurare” illusoriamente l’autore del femminicidio dalle proprie angosce di totale dipendenza materna.

 

Nella drammatica attualità del problema dobbiamo riconoscere che le origini istintuali delle pulsioni mantengono la loro presa anche sull’uomo civilizzato contemporaneo: “sembra che le parti pensanti della società abbiano preceduto un po’ troppo il corpo della società”, afferma Bolognini, segnalando lo scarto che esiste tra riconoscimento condiviso a livello cosciente dei migliori principi che possono governare la convivenza civile e quanto invece ci appartiene costitutivamente su piani più profondi della nostra natura.

Sviluppando queste argomentazioni l’intervento di Bolognini si conclude con un riferimento a “Il disagio della civiltà”,  saggio di Freud del 1929 ancora oggi attualissimo per meglio comprendere gli aspetti più problematici della convivenza sociale tra gli esseri umani. Per Freud l’aggressività diviene violenza quando ciò che è stato troppo represso “tracima” esplosivamente, quando la dimensione più conflittuale della nostra natura viene denegata.

 

 

Con il suo intervento pomeridiano, dal titolo Pluto: “…e poi non è giusto che fai male a un bambino che non è neanche tuo”; microviolenze e macropacifismi,  Giuliana Barbieri si è occupata di altre forme di violenza, una violenza che può infiltrare la funzione genitoriale e che, pur non ledendo direttamente il sé fisico o psicologico dei bambini, può ostacolarne gravemente lo sviluppo affettivo e relazionale.

Si tratta di un fenomeno sempre più evidente nelle famiglie di oggi, nelle quali crescono bambini  che mostrano precoci ed evolute acquisizioni linguistiche e cognitive, nei confronti dei quali spesso i genitori si trovano in grave difficoltà nell’affermare il proprio ruolo e nel contenere e comprendere le esuberanze aggressive dei figli: sono genitori che esprimono il loro intervento educativo essenzialmente sul piano della comunicazione verbale ma che, di fatto, sono incapaci  di farsi ascoltare: questi genitori – ci dice la Barbieri –  parlano e spiegano troppo,  e sembra impossibile che non riescano a fermare un bambino di meno di tre anni che prende a calci un gattino, schiaccia una cavalletta,  e che esplode rabbiosamente ad ogni “NO dei genitori.”

Secondo la Barbieri si può ipotizzare che questi genitori stiano cercando di fronteggiare una conflittualità che si stratifica su diversi livelli: un conflitto relazionale tra la necessità di intervenire per stabilire un limite e il timore che questo mortifichi il bambino o vada a interrompere la buona relazione con il figlio; un conflitto intrapsichico che – precisa la Barbieri – include “l’immagine di sé come bravo genitore, che cerca di fare tesoro delle mancanze dei propri genitori e l’immagine del bambino che avrebbe voluto essere, pienamente soddisfatto nei propri bisogni”. Il tanto “parlare, spiegare e persuadere” sembrerebbe porsi quindi come una soluzione di compromesso che finisce però per eludere la parte normativa della funzione genitoriale.

 

Le difficoltà di efficacia comunicativa ed educativa di questi genitori hanno a che vedere anche con una specificità del funzionamento mentale infantile. Sin dalla nascita il bambino è in grado di processare le diverse esperienze sul piano implicito-procedurale, operando con “un sistema di rappresentazione e memoria procedurale,  che sedimenta contemporaneamente all’azione in atto”; se non c’è azione o comportamento, non c’è rappresentazione, intesa secondo il linguaggio delle neuroscienze come realtà di fatto di quella precisa esperienza. Il sistema simbolico-verbale  è  invece ancora debole e in via di organizzazione, non in grado  di recepire un livello  più evoluto-adulto di comunicazione. L’insistenza sul piano simbolico-verbale dell’intervento dei genitori manca il bersaglio, nel senso che  non solo non entra in contatto con i livelli affettivi e i bisogni del bambino, ma può indurre nel bambino un rifiuto difensivo “autoregolatorio” che accentua l’utilizzo del livello di funzionamento procedurale. Nei casi più gravi il bambino viene lasciato in balia di quello che sente, rischiando di non riuscire a regolare le proprie emozioni e comportamenti.

Questi “ipertesti” comunicativi dei genitori risultano inconsapevolmente violenti poiché impediscono l’esperienza del limite e della alfabetizzazione delle emozioni: questa “violenza” produce quelli che la Barbieri definisce “iperbambini”, magari sovradimensionati sul piano delle funzioni cognitive, ma deficitari nella capacità di padronanza del Sé, lasciati troppo soli alle prese con l’estemporaneità di quello che provano, a rischio di perdersi o di sbagliare strada nelle loro vicende evolutive, nell’affrontare le sfide dello sviluppo nella loro vita affettiva, nel rapporto con la scuola, con i coetanei, con gli adulti.

La Barbieri segnala due aspetti caratteristici nel funzionamento mentale e relazionale di questi “iperbambini”: la ricerca continua di eccitazione, l’impossibilità di tollerare uno stato di quiete e il bisogno permanente di ricercare nuove sensazioni e soddisfacimenti, e l’uso onnipotente della parola, fondato su una equazione interna che fa corrispondere la parola ai fatti: per questi “iperbambini” parlare equivale al far accadere qualcosa nella realtà fattuale, con il mantenimento di una scissione in base alla quale “l’utilizzo del solo sistema simbolico dovrebbe attivare automaticamente anche il sistema procedurale delle azioni”.

 

L’intervento di Giuliana Barbieri riporta una esemplificazione clinica tratta dalla propria esperienza di intervento psicoanalitico contestuale,  una modalità di consultazione che, sin dal primo incontro, veicola esplicitamente valenze terapeutiche, con particolare attenzione al “punto di urgenza”, a ciò che maggiormente in quel particolare momento mette in difficoltà i genitori e preoccupa il terapeuta: si tratta di situazioni che, se attivate tempestivamente, possono consentire importanti progressi e uscite dalla crisi. Questo approccio si avvale di alcuni fondamentali riferimenti metodologici: la imprescindibile funzione dell’assetto analitico per l’efficacia della integrazione simbolico-procedurale, per cui è il terapeuta a svolgere una funzione vicariante integrativa dei due livelli che i genitori non riescono a svolgere; l’importanza che ha per questo scopo il lavoro rielaborativo controtransferale; infine il ruolo fondamentale del setting, con riferimento soprattutto al setting interno del terapeuta, quale situazione  “transizionale” tra gli apprendimenti procedurali e quelli simbolici.

 

La giornata, che ha visto una partecipata e articolata discussione da parte dei presenti su entrambe le relazioni, è stata chiusa da Marco Monari, psichiatra e psicoanalista membro ordinario della SPI, con alcune interessanti osservazioni che rimandano all’attività clinica: l’importanza di introdurre una funzione pensante nelle situazioni in cui la violenza è tale da oscurare ogni possibilità di rappresentazione;  la capacità di andare incontro al paziente facendo uso di una aggressività positiva che si esprima in forza contenitiva, e non in intrusione violenta; il valore funzionale del rispetto del setting, aspetto sul quale Monari conclude rilevando una specificità dello psicoanalista nella prassi clinica, ovverosia la capacità di costruire dei setting terapeutici nelle più diverse situazioni di cura.

 

Sabrina Mosca  e  Stefano Tugnoli

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