Il pensiero Psicoanalitico di Luciana Bon De Matte
Interventi di Baldacci, Bonanome, Busato Barbaglio, Cataldi, Ciocca, Chiarelli, Finelli, Ginzburg, Macchia, Mangione, Mazzoncini, Procaccio, Vassallo, Zavattini.
Fare lo psicoanalista, essere psicoanalista: questa è una distinzione significativa che Luciana Bon De Matte propone in una delle sue conversazioni e che sembra condensare molto del suo pensiero – più che mai attuale – sulla tecnica analitica. Un pensiero che è riuscito a emergere in maniera vivida ed emozionante durante la giornata di studio in suo ricordo. Ascoltando i numerosi contributi, cospicui quelli provenienti dalla sala, si è chiaramente percepita la gratitudine di coloro che hanno potuto conoscerla e lavorare con lei. Analista dalla grande capacità emotiva e umana che nel lavoro clinico di supervisione soleva chiedere ai suoi allievi “Dove pensi di poterlo incontrare il paziente?”: ciascuno ha raccontato di essersi sentito compreso e raggiunto per la persona che era e per dove stava in quel momento. Una spiccata peculiarità di fare sentire l’altro unico, di alimentare e sostenere il piacere dello stare insieme e della relazione. Donna di grande cultura, appassionata di musica e capace di lasciare un segno in chi la frequentava.
Molti hanno raccontato che incontri cominciati come supervisioni sono proseguiti negli anni come rapporti interpersonali profondi: con lei ci si tratteneva perché ci si sentiva apprezzati e ben voluti.
Ha lavorato molto per la Società Psicoanalitica sia al Centro Di Psicoanalisi Romano, dove è stata Segretario Scientifico dall’82 all’86, sia a livello nazionale partecipando a varie commissioni. La contraddistingueva la passione autentica per la psicoanalisi nelle sue varie declinazioni: i pazienti, l’insegnamento, le supervisioni. La cosa che più colpiva, ricorda nel suo intervento Carla Busato Barbaglio, era il suo andare sempre in modo originale al cuore del problema. Puntuale, mai scontata. In profondo ascolto emozionale e intuitivo, libera da paludamenti teorici vincolanti pur avendo una solida fondazione. Tutto era studiato, pensato, teorizzato e ripensato nuovamente divenendo così un gesto. La sua fonte permanente di studio e riflessione era la vita.
Dall’intervista molto bella che si può trovare nel sito del Centro di Psicoanalisi Romano (intervista alla dr.ssa Bon De Matte) si può leggere: “Direi che la cosa fondamentale è avere una cultura multipla nella quale possano essere compresenti, per valutare e vedere, più punti di vista. Avere un unico criterio impoverisce e non dà apertura a esperienze nuove che ogni paziente propone. Se uno ha un criterio unico rischia di regolare tutto con quello e non si apre all’esperienza. Ogni paziente apre ad un mondo che se si è in grado di ascoltare arricchisce. L’ascolto vero del paziente obbliga a mettere in discussione lo strumento che si usa”.
Ciocca e Mazzoncini sottolineano l’importanza di assumere il punto di vista del paziente e la necessità di partire nel lavoro analitico dalle emozioni positive, rispettando le difese, dialogando con la parte funzionante della persona.
Dall’ introduzione del libro che Bon De Matte stava scrivendo, Busato Barbaglio riporta alcuni passi:
“Mi sono trovata così, gradualmente, al di là delle teorie, a fare sempre più attenzione a quella determinata situazione portata dal paziente, in quella condizione e in quella giornata.
Sempre più mi accorgevo dell’importanza dell’essere guidata dalle reazioni degli stessi pazienti e dall’attenzione che portavo a loro pur mantenendo la consapevolezza del mio ruolo di analista, del mio dover proporre, elaborare o andare a superare momenti di stagno o situazioni ripetitive.
Rispetto all’impulso di morte la mia esperienza mi ha evidenziato che tutto ciò che funziona ha che vedere con una mossa vitale. La vita si muove per la vita e noi viviamo per vivere. La difesa non intende mai fare una cosa negativa anche i gesti più negativi contengono una motivazione vitale magari folle e crudele, ma che ha per chi la realizza un senso di sopravvivenza”.
Procaccio presenta con il suo intervento una analista capace di essere guida autorevole e saggia molto attenta a preservare e valorizzare lo strumento analitico: “Non si illuda. Quando un paziente bussa alla porta in linea di massima non ha nessuna intenzione di cambiare. Desidera solo qualcuno che gli tolga gli effetti collaterali dell’essere quello che è. Nel primo colloquio viene a capire se Lei sarà in grado di svolgere questo compito. Si ricordi di stare molto attento perché ogni paziente ha la possibilità di far fallire l’analisi e poi alla fine sostiene ‘per me non c’è proprio niente da fare. Ho fatto anche l’analisi ma anche quella non è servita a niente’. Lei questo non lo deve consentire ma non per il suo desiderio di essere un bravo analista e nemmeno per il bene del paziente. E’ lo strumento che deve essere protetto!”
Ad ancora: “Stia attento a non commentare al negativo le comunicazioni dei suoi pazienti, a non rimanerne deluso. Non usi mai la parola “no”, non esordisca mai con un “ma” e anche quando rileva che il paziente è caduto ancora una volta nei suoi errori, Lei incominci a parlare facendo sempre vedere quel pezzettino di cambiamento della seduta precedente o della settimana prima.
“Si ricordi di concludere tutte le sedute con una bella ricapitolazione di quanto siete andati capendo nella seduta stessa -la Bon De Matte amava questi gerundi-. E’ una operazione che tranquillizza il paziente ed è un buon modo di salutarsi”.
Ginzburg ricorda come per la Bon De Matte fare lo psicoanalista significa impostare tutto il lavoro su una concezione (non a caso chiamata totale) del transfert dove ogni evento che si produce fuori o dentro la stanza di analisi viene inevitabilmente attribuito al significato o agli effetti della relazione analitica. Il passato viene utilizzato per comprendere il presente ed il transfert viene vissuto intensamente dall’analista e non interpretato. La funzione analitica si esprime nell’accompagnamento della persona verso la comprensione progressiva del proprio funzionamento mentale ed il compito specifico dell’analista si rivela quello di sottolineare di volta in volta le conquiste dell’analizzato ben più che i conflitti che intervengono di fronte alla paura inevitabile del cambiamento. Non si tratta di un atteggiamento supportivo o genericamente empatico, ma di uno sguardo che individua tutti gli spunti di evoluzione e di crescita nell’esperienza passata e presente del paziente. L’analizzato è visto perciò in tutta la sua totalità, tanto con gli aspetti riusciti nei diversi ambiti che con quelli rimasti inesplorati o abbandonati che vanno portati alla luce perché costituiscono il vero scopo dell’esperienza analitica: aprire un dialogo all’interno di sé fra i diversi settori e ambiti di esperienza. L’attività clinica con il paziente si svolge con lo scopo di sollecitarne sempre di più le capacità e le risorse attraverso la valorizzazione di una corporeità fatta di sensazioni e di emozioni prima ancora che di pensieri.
Baldacci sottolinea come Luciana Bon Me Matte propone con il suo pensiero un vivace ripensamento personale dell’impianto psicoanalitico, lungo la direttiva Freud, Klein, Bion, alla luce della propria vasta esperienza clinica e della propria sensibilità personale, con una costante apertura al nuovo e una profonda fedeltà agli stimoli, ai dati, alle intuizioni e alle riflessioni via via emergenti dal contatto con pazienti, allievi, colleghi. I frutti di questa elaborazione si sono riversati in intuizioni originali e stimolanti nel campo della tecnica con bambini, adolescenti e adulti.
Il passaggio da una tecnica basata su una teoria del conflitto, che prevedeva un osservatore il più possibile neutrale, a una pratica di valorizzazione delle esperienze vissute dalla coppia analitica ha comportato un ampliamento degli orizzonti clinici in tutte le direzioni. La personalità è pensata come complessa e a livelli multipli, compresenti e simultaneamente funzionanti e più o meno integrati tra loro. Sono quindi preminenti gli eventi e le modalità che hanno luogo in seduta (Zavattini).
Cataldi e Ciocca ricordano l’espressione “Non si metta in mezzo!” usata dalla Bon De Matte come monito ai suoi allievi. Sottolineano quanto per l’autrice il punto fondamentale era l’attenzione alla centralità del paziente nel lavoro analitico insieme a una concezione della relazione analitica come prodotto della coppia analitica al lavoro ma con ruoli, compiti e responsabilità diverse che non possono essere confuse tra loro. Il ruolo dell’analista non è quello di mettersi in mezzo ma quello di stare accanto al paziente, in contatto con lui, conservandolo dentro di sé, senza precederlo né perderlo.
“Lo faccia dire con le sue parole” è un altro commento significativo che ripeteva spesso nel lavoro di supervisione per sottolineare che quando il lavoro di comprensione di una certa situazione emotiva era stato fatto, il passo successivo era lasciare che il paziente lo esprimesse con le sue parole in modo che potesse così assumersene la responsabilità. L’interpretazione dell’analista, sosteneva, ottiene al contrario di facilitare le difese del paziente, che pure aveva fatto il lavoro di comprensione della situazione analitica di cui si stava parlando e diventa inoltre un modo di prendersi per sé il premio, disconoscendo il percorso fatto dall’analizzato. Inoltre, nel momento in cui il paziente si serve delle sue parole utilizza il pensiero verbale e riassume così il lavoro che prima ha compiuto a un livello più profondo. E’ lui che fa un riassunto del suo percorso e mentre si ascolta fa anche l’esperienza di sé che può parlarsi. Si tratta qui di un vissuto fondamentale per i momenti in cui l’analista è assente o quando non c’è più perché è finita la terapia. E’ il nucleo principale del portare con sé lo strumento analitico: avere fatto l’esperienza non solo di registrare e di avere spazio per le proprie emozioni, ma anche di essere in grado di dirsele continuando così a potersi accompagnare.
Chiarelli ha parlato di un’ analista con una autentica passione per la comunicazione che non si nasconde dietro le teorie e che in supervisione parla anche di sé e della sua vita. Le teorie devono essere decostruite altrimenti c’è il rischio ci si possa aggrappare alla teoria della psicoanalisi rendendola statica e con ciò saltando velocemente alle conclusioni senza aver visto cosa accade al paziente, che cosa ha vissuto, quali reazioni lo hanno caratterizzato, quali potenzialità possiede.
Bonanome sottolinea l’importanza della qualità dell’ascolto nella relazione psicoanalitica e della necessità rimarcata dalla Bon De Matte di operare con ritmi che il paziente è disposto a darsi lavorando nel transfert senza interpretarlo cercando di collegarsi emozionalmente con l’analizzando salvaguardando le parti che funzionano senza aggravare ulteriormente la persona che già soffre.
Concludo con una riflessione attivata dalla partecipazione alla giornata. Come ci dice Gadamer, il medico deve pensarsi nel suo aspetto di paziente, ponendosi in aperto dialogo con l’altro. In caso contrario, non è possibile porre in guarigione il paziente perché si creerebbe un freddo bipolarismo: da un lato, il medico sano, dall’altro, il debole paziente malato. E’ necessario un atteggiamento di totale apertura, tramite il dialogo, intenzionati ad ascoltare l’altro, mettendo in dubbio le proprie convinzioni, verso il raggiungimento di un risultato che sia frutto di fusione dei rispettivi orizzonti. Non indifferente passa il profondo proponimento di Gadamer che implica tenere presente che siamo tutti uniti in un unico mondo della vita che ci sostiene rapportandoci reciprocamente l’un l’altro. Il compito di ciascuno di noi e del medico, in special modo, così come di qualsiasi altro scienziato, è di tenere uniti, da un lato, “la competenza altamente specializzata”, dall’altro, il proprio “far parte del mondo della vita”.
Un compito complesso che Luciana Bon de Matte ha dimostrato possibile.
Giugno 2013