IL LETTINO E LA PIAZZA, SALABORSA 21 MARZO 2015
(Report a cura di Daniela Federici)
Sullo sfondo di una Bologna invasa dai giovani manifestanti e dalle bandiere di Libera, si è tenuto il secondo appuntamento con le conferenze “Il lettino e la piazza” sul tema del limite.
In una Sala Borsa gremita, Gino Zucchini, abile tessitore, apre i lavori dipingendo il limite come orizzonte irraggiungibile, che lo sguardo coglie e il camminare sospinge innanzi, garantendoci quella curiosità che è apparentata con la cura, richiamando del limite il compito di distinguere senza scindere e collegare senza confondere.
Simona Argentieri gioca sulla doppia accezione del titolo del suo intervento: “Si può fare?” per riflettere sulla differenza nel delimitare ciò che è vietato e ciò che è impossibile, e sulla perniciosa confusione che a volte ne viene fatta. Se è necessario alla crescita uno spazio di illusione iniziale a sostenere l’investimento narcisistico del Sé cimentato dall’esistere, sappiamo altrettanto strutturanti per una personalità matura le progressive disillusioni. Dall’ormai ventennale studio sull’emergente sociale del padre materno (Il padre materno, Einaudi 2014), Argentieri trae spunto per discutere di come la trasformazione della paternità nelle ultime generazioni, divenuta più libera di vivere coi figli la sensualità primitiva e i livelli simbiotici senza conflitto, non ha però accresciuto la disponibilità – di entrambi i genitori – ad assumere quella “funzione paterna” con la quale siamo soliti indicare il compito adulto e adultizzante della crescita, funzione separante e normativa che incarna le differenze e introduce appunto il limite, costringendo a fare i conti con la realtà. In difetto di strutture superegoiche di marca edipica, gli individui si ritrovano con un Io fragile, esposto senza strumenti contenitivi e modulanti all’urto degli impulsi e delle angosce più primitive.
Condizionati dall’equivoco che l’amore coincida con la gratificazione perenne ai figli, proiezioni di un proprio Sé onnipotente, i genitori vivono con sempre maggiore difficoltà il timore di frustrare e di non essere amati, rischiando di disattendere così il fondamentale compito educativo di sostenere le conflittualità di quell’agone edipico che insegna la differenza fra ciò che è vietato e ciò che è impossibile. Forse il dissolversi di questa differenza, che fa così spesso coincidere il desiderio con il diritto, si tramanda ormai tra le generazioni? Come si può pervenire adeguatamente al crocevia edipico se chi dovrebbe impartire il limite si esime dagli oneri di questa responsabilità? Se la stessa società fa della negazione del limite una sua bandiera promuovendo l’indifferenziato e la promessa di libertà sconfinate?
Jean Paul Hernandez, gesuita, esplora il tema del limite nella tradizione biblica, dove coincide con l’idea di creazione: Dio crea limitando e il limite in questo modo diviene condizione per la relazione. Nel primo versetto della Genesi: “In principio Dio creò il cielo e la terra”, Barà, verbo della creazione, è il verbo dello scalpellino, dello scultore che leva il marmo per far emergere la statua. Limitare è dunque il primo verbo della Bibbia, Dio è visto come un artista che nel caos primordiale inizia a distinguere e lo fa parlando: il linguaggio definisce e delimita. La Creazione è quindi il grande discorso di Dio che inizia con la prima distinzione fra sé e quel che sta creando: Dio deve limitare la sua identità per far emergere ciò che non è Dio, prima forma di passione che rinuncia a essere tutto. Vengono poi divisi il giorno e la notte, le acque di sopra e le acque di sotto, bagnato e asciutto, ogni essere creato distinto ciascuno secondo la propria specie, separazioni creatrici di uno spazio vitale in cui l’uomo possa vivere, uomo creato a immagine di Dio e fatto uomo e donna come consapevolezza del limite e massima espressione di relazione.
Il limite per eccellenza è rappresentato dall’albero della conoscenza, emblema dell’onniscienza e del divieto di valicare l’illimitato: al centro del giardino-Sé l’uomo ha un mistero che lo confronta con il limite e può scegliere se interpretarlo come una benedizione – l’opportunità di scoprire che al proprio interno è l’altro – o come una maledizione insopportabile, che gli farà cancellare tutto ciò che gli ricorda di non essere tutto, prima di tutto l’altro. Cedendo alla tentazione del serpente l’uomo perde se stesso nello smarrire il proprio confine.
Padre Hernandez riprende poi la frase d’apertura del moderatore rilevando che distinzione senza scissione e relazione senza confusione è la definizione cristologica del Concilio di Calcedonia del 451. Zucchini echeggia le sorprendenti risonanze nel dialogo, richiamando la metafora freudiana dello scultore che procede per via di levare e dell’analista che dal peso delle angosce lavora per dar forma al senso. La Creazione che si dà nella poiesis del linguaggio evoca il lavoro della raffigurabilità dell’interpretazione, che contemporaneamente definisce e delimita una struttura intellegibile.
L’impressione di una curiosa sintonia fra i relatori prosegue con l’intervento del regista Andrea Segre che esordisce commentando come, da artista, difficilmente decide il significato prima di creare, ma per lo più lo scopre incontrando pezzi di realtà che diventano storie, come nel film “La prima neve”, che ha come protagonista un padre migrante scultore, scelta che gli si illumina improvvisamente di nuove sfumature di senso.
Dal momento che ogni storia raccontata è sempre anche un intreccio di aspetti di sé, descrive in prima persona il suo percorso artistico. Da giovane viaggiatore all’interno dello spazio di libertà che per alcuni sancisce la coincidenza fra il desiderio e il diritto di muoversi e conoscere altri luoghi, incontra chi, fuori da quello spazio di diritto – che è un privilegio senza merito se non quello di essere nati dalla parte giusta dei muri -, rifiuta il limite della fortezza Europa e ne varca i confini. Interrogandosi sul diritto al proprio desiderio, diviene documentarista, iniziando a percorrere in direzione contraria il Mare chiuso per dar voce a quella spinta umana così catalizzante le paure e i suoi correlati delle demagogie xenofobe e delle retoriche pietiste. L’amico albanese che gli parla dei gommoni come del suo Erasmus, lo aiuta a scardinare i limiti di comprensione che custodiscono le vite protette nei confini. A telecamere spente e fuori dai giochi di ruolo appresi in secoli di colonialismo, di domande e risposte centrate sui moventi della disperazione, scopre l’animarsi anche del diritto al desiderio. Non saper ascoltare quel segno più, non comprendere quelle speranze e quanto siano una messa in discussione del nostro limite, non solo geopolitico ma cognitivo e di relazione con questi movimenti, è motivo di responsabilità non solo per gli errori politici e per le direzioni strategiche, ma per le migliaia di vite annientate di cui la storia ci chiederà conto. La discussione rilancia ulteriori vertici nei discorsi. Argentieri richiama l’adagio freudiano dell’odio che viene prima dell’amore, scaturendo direttamente dall’incontro con l’alterità che spodesta il nostro narcisismo onnipotente e su quella disillusione edifica il processo niente affatto scontato di riconoscimento della propria e altrui soggettività. A esemplificazione di quella fatica trasformativa dall’odio a una diversa possibilità di rapporto, cita il personaggio di un altro film di Segre: “Io sono Li”, di cui il regista racconta l’ispirazione. Tornando a Chioggia, entra nell’osteria che conosce fin da bambino e trova una donna cinese a fare l’ostessa. Gli risulta subito chiara la tensione e la difficoltà dei pescatori: l’osteria è un luogo domestico dove tradizionalmente l’unica donna è dietro il bancone e ha un ruolo fondamentale nella loro vita. Una donna che è ancora donna ma non è della stessa cultura, non parla la lingua – il dialetto – e non sa i bisogni che i pescatori hanno rispetto al suo ruolo, è qualcosa che porta inevitabilmente a una prima reazione d’odio. Ma se questo non viene arruolato strumentalmente dai politici per farne paure collettive, diventa l’occasione per ridefinire chi si è all’interno di un contesto che va trasformandosi profondamente, così l’arrivo di Shun Li non fa che slatentizzare la crisi d’identità dei pescatori.
Padre Hernandez segnala i continui riferimenti biblici al tema delle differenze che suscitano odio, a partire da Caino e Abele, e di come all’ingiustizia del sangue dell’innocente che grida vendetta, Dio risponda attraverso il capovolgimento delle idee di potere rappresentato dalla corona di spine: la vendetta di Dio per la vita sprecata (Abel significa spreco) sta nel divenire Abele del Cristo in croce.
Un limite che si connota come premessa e spazio per la relazione e come confine della conoscenza, conduce inevitabilmente il dialogo al tema della trasgressione, che ingaggia i relatori in un rimpallo di considerazioni sulla valenza positiva dell’andare al di là del già noto (in conformità alla radice etimologica latina transgredior, che non ha in origine nessun connotato morale), sul valore di poter superare i propri limiti e contestare quelli che si ritengono ingiusti.
Argentieri sottolinea come la trasgressione richieda una struttura solida e un limite ben stabilito fra bene e male, così come la capacità di distinguere senza fare scissioni.
Hernandez riprende la figura dello straniero come colui che nella tradizione biblica ha il compito di rompere gli spazi chiusi rivelando la problematicità del limite e costringendo a una rielaborazione della memoria.
Segre ricava dalla sua esperienza con i migranti l’idea che non esprimano la volontà di costruire un’azione politica ma che la valenza rivoluzionaria che questi movimenti rappresentano stia nel sovvertire un ordine non rispettandolo e nell’interrogare le nostre negazioni – perché l’altro rigettato fuori le mura è sempre garante narcisistico di tutto ciò con cui fatichiamo a fare i conti.
Viene alla mente un lavoro di Gaburri (Riv. Psicoanal., 1982) che mette a confronto gli assunti di base (e tutto ciò che attraverso il sociale, dall’adattamento conformistico alla sottomissione alle ideologie, promuove il non-pensiero) con la funzione germinativa della rêverie. La trasgressione è vista come fattore primario della nascita del pensiero e specifico del lavoro analitico, che si occupa di far emergere i pensieri traendoli fuori dal mare dell’indifferenziato (metafora che impiega la curiosa concordanza semantica che in termini geologici si intende per area trasgressiva lo spazio fra mare e continente). La trasformazione metaforica del processo analitico è in effetti l’effrazione di una referenza abituale per andare oltre ciò che è noto e verso il non ancora espresso e il limite vi si connota come zona di elaborazione psichica tra distinzione e integrazione.
La piacevolezza che si è respirata nell’ascolto di questo dialogo è stata senz’altro dovuta non solo allo spessore personale dei relatori ma alla loro generosa capacità di offrirsi come testimoni vivi della ricerca di una migliore verità senza infingimenti.
“… una ‘terra promessa’, non più come qualcosa che dolorosamente sfugge in continuità,
bensì come raggiunta fiducia di ognuno di potere andare al di là del contingente,
senza perdersi, ma anche senza avere presuntuosamente già tutto in mano,
tutto afferrato e espugnato”.
A. Racalbuto
Marzo 2015
Vedi anche :
Dibattito sulla funzione paterna ieri ed oggi