Roma 14 Maggio 2016 CPdR Il Paradosso della diagnosi in psicoanalisi
Centro Psicoanalitico di Roma
Report a cura di Antonio Buonanno
Il 14 maggio in via Panama a Roma si è parlato de Il paradosso della diagnosi in psicoanalisi. La giornata, organizzata dal CPdR e introdotta e coordinata dal suo Segretario Scientifico Andrea Baldassarro, è stata caratterizzata dai lavori di Ezio Maria Izzo (AFT della Società e promotore dell’iniziativa), Sergio Benvenuto (Direttore dell’European Journal of Psychoanalysis) e Mario Rossi Monti (Spi) e dalla discussione con relatori e sala rilanciata da Angelique Costis (Spi), cui era affidato il controcanto rispetto alla melodia principale, modulata dai partecipanti nei propri dialetti analitici, intonati sulla rivalutazione della diagnosi per la direzione della cura.
Baldassarro ha contestualizzato il tema (richiamando le peculiarità epistemologiche della psicoanalisi, nuovo paradigma) nell’ambito dei tentativi di mettere ordine tra le diverse manifestazioni della sofferenza mentale da parte della psichiatria, influenzata dal modello medico e dallo sforzo di trovare corrispondenza tra causalità ed eziopatogenesi. In questo affresco non ha nascosto una critica radicale a tale schema, segnalando il sostanziale fallimento anche dei più recenti manuali diagnostici, per poi palesare con le sue stesse affermazioni il paradosso cui faceva riferimento il titolo. Dopo la perentoria affermazione “non si può non fare diagnosi”, si è, infatti, interrogato sulla reale possibilità di individuare psicoanaliticamente, “al di là della volatilità dei comportamenti”, possibili “invarianze strutturali” capaci di orientarci nella trattamento. E pur affermando che non possiamo pensarci come sola “atmosfera di emozioni”, si è però mostrato scettico sul peso della diagnosi rispetto allo sviluppo di un percorso analitico, poggiando la cura sulla singolarità della coppia e sulla qualità della relazione, che poco hanno a che fare con la presunta universalità dei quadri diagnostici.
La relazione di Izzo (in parte tratta dal libro Pulsione ed esistenza, in uscita, e intitolata Dall’ossessione della diagnosi alla violenza della diagnosi) partiva domandandosi se alla psicoanalisi serva un orientamento diagnostico della psiche. L’interrogativo, nel suo empirismo, mi è sembrato suggerire un possibile diverso approccio epistemologico, che più che guardare alla struttura delle rivoluzioni scientifiche di Kuhn potrebbe rifarsi a Lakatos ed alla metodologia dei programmi di ricerca (per cui una buona diagnosi potrebbe essere paragonata ad un programma progressivo che, necessariamente, deve portare a nuove scoperte o altrimenti essere modificato). Anche Izzo ha evidenziato la natura paradossale della diagnosi psicoanalitica che, nella pretesa di classificare allo scopo di rendere la realtà osservata più facilmente assimilabile, è costretta a utilizzare una metodica oggettivante per un oggetto che oggettivabile non è, la psiche. Tornando alla fenomenologia e a Husserl, ha riproposto l’antica contrapposizione tra empirismo e innatismo e il tentativo di sanarla del Freud di Pulsioni e loro destini, per cui ci sarebbe una reciprocità tra le idee innate e l’esperienza, in cui all’apparenza le prime sembrano ricavate da questa ma è in realtà l’esperienza ad essere subordinata alle nostre “idee astratte”.
Dopo la svolta nella nosografia psichiatrica capitanata da Freud e Jaspers, la diagnosi non sarebbe più lo scopo principale del colloquio, affermandosi l’interesse verso il modo singolare in cui il soggetto esprime, tratta e abita la patologia. Così la diagnosi sembrerebbe cessare di essere violenta, pur potendo ancora esserlo l’uso che se ne fa o chi la utilizza. Ha quindi ricordato il valore della diagnosi rintracciato da Petrella nell’etimo della parola: un conoscere attraverso e insieme. A questo punto il relatore si è dichiarato distante sia dalla ossessione di far diagnosi, caratteristica della psichiatria tedesca classica, “sia dalla inutilità o addirittura dalla violenza della diagnosi sulla quale si è in prevalenza collocata la psicoanalisi”, invitandoci a un ritorno a Freud e a una nosografia psicoanalitica fondata sulla teoria della libido e sulla clinica. In un excursus su possibili riferimenti nosografici in ambito psicoanalitico, Izzo è partito da Freud per passare a Fenichel (il Kraepelin della psicoanalisi) e Winnicott (la diagnosi come anomalia ambientale) fino ad arrivare a Pichon-Rivière (valore della qualità del legame). Rispetto al contributo freudiano si è soffermato soprattutto su Tipi libidici, che individuava tre tipi principali “puri”: l’erotico, il narcisistico e l’ossessivo, ai quali Izzo aggiungerebbe una tipologia che definisce “anaclitica”, il cui eventuale sviluppo patologico darebbe inizio alla condizione depressiva. Sono queste le organizzazioni predepressive (o “astrutturazioni”), oggetto di un articolo dello stesso autore sulla Rivista (Izzo, E.M., 2004. Le organizzazioni borderline come difese predepressive. Rivista di Psicoanal, 50:689-714).
Izzo ha concluso con una personale proposta di classificazione nella quale alle categorie psicopatologiche corrispondono concetti psicoanalitici che le sosterrebbero e due moniti. Il primo è di tenere a mente come in queste categorie sia compresa prima la persona dell’analista, poi quella del paziente; il secondo, parafrasando Freud che definiva la normalità uno “scherzo”, l’invito a considerare le classificazioni della personalità e le relative patologie uno scherzo cui l’analista però “non può rinunciare per organizzare la conoscenza e comunicarla”.
Dopo questo intervento c’è stato un primo vivace giro d’opinioni, facilitato da Costis che ha lasciato trasparire un parziale disaccordo dalle posizioni di Izzo, contestando prima l’aggettivo sano (ripreso dal Winnicott de Il concetto d’individuo sano, per cui i soggetti che “non sono stati lasciati cadere” da bambini avrebbero il gusto della vita), cui preferisce equilibrato, poi chiedendosi se invece non siamo stati tutti “lasciati cadere”, anche da parte di madri sufficientemente buone e, infine, riflettendo sulla violenza (presente anche nell’ossessivo, a dispetto dei suoi sforzi per celarla) e distinguendo una violenza necessaria che, seguendo l’insegnamento della Aulagnier, è quella che “permette all’informe di iscriversi nell’umano”. La discussant ha criticato il rilievo dato al testo freudiano Tipi libidici, enfatizzando invece il salto epistemologico di Winnicott con l’introduzione dell’importanza dell’ambiente reale (a me pare già rivalutato da Ferenczi). In particolare, nel binomio diagnosi e setting, per Costis gli attuali sforzi di oggettivazione nosografica mostrerebbero massimamente i propri limiti se applicati all’età evolutiva. Ritornando poi sull’etimologia, ha evidenziato quanto il tra abbia sia valore statico che dinamico, “ponte ma anche passaggio del soggetto nell’oggetto”. Infine ha rivisitato la metafora freudiana sulla strutturazione psichica, spostando l’accento dalla sicurezza che quando il cristallo si romperà lo farà sempre nello stesso modo, all’assenza di certezza circa il fatto che si rompa e, quindi, eventualmente sul come ciò accadrà, per ribadire il primato dell’altro, prevalenza necessaria alla psicoanalisi costantemente tesa alla scoperta dell’ignoto.
Dopo interventi dalla sala e le prime repliche dei relatori (tra cui una riflessione sul cambiamento di focus della psicoanalisi per la questione borderline e l’attenzione posta sul tipo misto, divenuto puro), è stato il turno di Benvenuto che ha parlato de Il tramonto del DSM.
La presentazione (anch’essa parzialmente ripresa da un libro in uscita) muoveva dal confronto tra nosografia psichiatrica e astrologia classica, con questa in vantaggio in quanto a credibilità scientifica. Benvenuto ha sottolineato le divergenze esistenti tra psicopatologia psichiatrica e psicoanalitica rimarcando però quanto siano dovute proprio all’operazione DSM che dal III in poi (sotto l’impulso di Spitzer) ha cercato di creare una nosografia Freud-free, nonostante lui ritenga la psicoanalisi molto più vicina in quest’ambito al modello medico di quanto lo sia la psichiatria. Tra le critiche mosse al DSM, mi soffermerò su due che ne illustrano i limiti: la natura USA centrica e la sua non scientificità. Il DSM 5 è un prodotto completamente americano, non certo in ragione di una schiacciante superiorità del sapere psichiatrico, quanto per la posizione di predominio generale (tecnologico, economico e culturale) che ne fa il “Paese supposto sapere”. Ciò ha contribuito, assieme all’offrirsi alla digitalizzazione, al successo dell’impresa, a detrimento di un confronto che l’avrebbe arricchita. Riguardo alla non scientificità, Benvenuto è stato tranchant: la psichiatria è all’età della pietra! Aggiungendo che, sempre dal punto di vista scientifico, la psicoanalisi non sta però avanti, pur disponendo di una buona teoria. La prima faglia del DSM è nelle sue fondamenta, nella pretesa di compiere un’operazione ateorica. Che ingenuità (Kant: “Occhio innocente è cieco e la mente vergine è vuota”) rispetto alla raffinatezza epistemologica di Freud! Questi aveva anche provato ad individuare criteri diagnostici monotetici (come nel legame tra paranoia ed omosessualità), alla maniera della medicina, laddove il DSM è invece un sistema politetico (in un certo senso coerentemente con l’idea di democrazia americana), per cui nessun sintomo o segno prevale sugli altri. Tutto questo, nella tagliente definizione del relatore, fa del DSM una sorta di “manuale Cencelli” della psichiatria americana.
Conseguenze di ciò sarebbero la moltiplicazione delle diagnosi e la medicalizzazione della popolazione (che realizzano l’aforisma di Huxley: “la medicina ha fatto così tanti progressi che ormai più nessuno è sano”). Gli esiti sono tali da essere stati oggetto di feroci critiche, anche da parte di due dei principali artefici dell’operazione (Frances e lo stesso Spitzer), che hanno decretato, a parere di Benvenuto, il tramonto del DSM, aprendo la strada ad una controrivoluzione culturale in cui la psicoanalisi potrebbe giocare un ruolo importante per la sensibilità alle strutture soggettive, alle “costellazioni” individuali, in cui il mutamento di un singolo elemento (come nella “struttura discontinua dei pezzi sulla scacchiera”) altera il quadro.
Rossi Monti è stato subito chiaro: alla domanda posta dalla sua relazione, E’ possibile non fare diagnosi?, ha seccamente risposto no. Eppure, continuava, la diagnosi non gode di buona fama presso gli psicoanalisti (tanto che nella Rivista la parola compare una sola volta nel titolo di un articolo e l’autore è lui stesso: Monti, M.R. (2008). Diagnosi: una brutta parola? Rivista di Psicoanal., 54:795-803). Le ragioni più frequentemente addotte sarebbero l’atteggiamento riduttivo e che rappresenterebbe un ostacolo al processo cognitivo. Ma la si può davvero considerare un’arida esercitazione da entomologi? E, qualora si decidesse di farla, quando? Alla fine del percorso psicoanalitico (una diagnosi posticipata, come suggeriva Freud nella “prova della strega”, in contrapposizione a quella praecox, che spesso contraddistingue gli psichiatri)?
Soffermandosi allora su questa “ripugnanza”, ha evidenziato alcune possibili motivazioni: non fare diagnosi in accordo con il DSM; non farla esplicitamente; non farla implicitamente (con, forse, la domanda sottointesa se tali ragioni siano valide,) distinguendo anche tra “pratiche pubbliche e private”. Rossi Monti ha poi posto l’accento sulla valenza “conoscitiva in senso allargato” di tale processo, rivelando la doppia faccia della diagnosi quale indagine e prodotto, con un significato statico e uno dinamico (“conoscere attraverso, muoversi nell’oggetto”), affermando che se, a suo parere, si può fare a meno del nome, sarebbe un errore rinunciare alla procedura. Ritiene, infatti, il processo del diagnosticare una tendenza umana a mettere assieme i fenomeni in forma significativa, declinandoli in storie, e citando Taleb, ha ricordato la nostra attitudine a interpretare (fornire spiegazioni che tengano insieme i fatti, per memorizzarli e renderli più sensati) e raccontare (“La narratività deriva da un bisogno biologico radicato di ridurre la dimensionalità”). Possiamo resistere alla tentazione di far collegamenti? Con riferimento all’amata Fenomenologia (l’Epoché husserliana), il relatore lo ritiene possibile ma a costo di sentirci “spossati e impoveriti”. Prendendo in esame due posizioni opposte ma entrambe necessarie (Bion di senza memoria e desiderio e Nissim Momigliano con il valore contenitivo dell’esser riconosciuti in seduta), ha suggerito l’opportunità di sviluppare uno “stato oscillatorio della mente” trai vari modi di guardare alla persona e attraverso questa ai sintomi, tenendo così “viva la figurabilità”.
Ma se la diagnosi “è inevitabile ma anche necessaria”, per Rossi Monti converrebbe alla psicoanalisi sfidare il DSM (al tramonto), come tentano di fare il PDM (giunto alla II edizione), che valorizza l’esperienza soggettiva, o Lemma, con l’individuazione di un focus nello stile relazionale, a patto, concludeva con Jaspers, che ogni diagnosi rimanga sempre un tormento per il clinico.
E con un ultimo acceso scambio di pareri si è conclusa questa intensa giornata.
Giugno 2016
Vedi anche:
in Eventi:
Psicoanalisi e Psichiatria, CPGE, febbraio 2015
in Neuroscienze/Autori:
Avere in mente il cervello, le ricadute sulla clinica sulle ricerche delle neuroscienze, di Maria Ponsi.
in SpiPedia:
Adolescenza/diagnosi, a cura di Giovanna Montinari
Interviste a Paolo Migone e a Franco Del Corno: Sul rapporto fra clinica e ricerca in psicoterapia, Milano 2013.
Migone P. (2013). Intervista sul rapporto fra clinica e ricerca in psicoterapia
Del Corno F. (2013). Intervista sul rapporto fra clinica e ricerca in psicoterapia
in Rassegna stampa:
Guerre di terapia: la rivincita di Freud, The Guardian, 7 gennaio 2016