Vivere/Sopravvivere
Centro di Psicoanalisi Romano
Centro Psicoanalitico di Roma
Roma, 13-14 dicembre 2014
Conversazione tra Maria Giovanna Argese e Adriana D’Arezzo
Adriana: Maria Giovanna che ne pensi del convegno Vivere e Sopravvivere?
Maria Giovanna: L’intento mi sembra sia stato pienamente raggiunto, attraverso lo sviluppo del tema da molteplici punti di vista, clinico, storico, antropologico, filosofico, seppur la ricchezza dei vertici di osservazione abbia molto impegnato l’ascoltatore nel cercare di mantenere una traccia, parola significativamente molto usata durante il convegno in combinazione con quella di sopravvivenza.
Adriana: sono d’accordo, c’è stato un certo affaticamento per il numero, la varietà e i differenti livelli logici dei numerosi interventi. Le relazioni e poi gli interventi spontanei dalla sala hanno generato, a tratti, nell’uditorio l’impressione di essere sospinti in differenti direzioni, invitati a riflessioni di ordine e intensità emotive talvolta dissonanti.
Maria Giovanna: Il sopravvivere è una dimensione che può riferirsi a differenti aspetti dell’esperienza umana, come ha ben sottolineato introducendo le due giornate di lavoro, Angelo Macchia: continuare a vivere dopo la morte di altri o scampare a un grave pericolo, vivere in una condizione di stenti e di ristrettezze, continuare idealmente a vivere anche dopo la morte per esempio attraverso le proprie opere o il ricordo che viene conservato.
L’intento del convegno nelle parole di Alfredo Lombardozzi, uno dei principali promotori, è stato quello di riflettere “sulle declinazioni dell’esistenza sociale, di gruppo, individuale, che risulta al confine, a volte più netto, altre, al contrario, labile e sfuggente, tra il vivere e il sopravvivere”, secondo un filo che collega i vari significati implicati nel concetto di sopravvivenza.
Adriana: penso che il principale pregio di queste giornate sia stato proprio nel far dialogare la dimensione soggettiva del trauma, con cui noi psicoanalisti abbiamo maggiore familiarità, con riflessioni che riguardano i grandi traumi collettivi della storia, i genocidi, che continuano a interrogarci. Vicende umane legate allo sradicamento dal proprio contesto, alle perdite improvvise e ‘inspiegabili’, legate alle migrazioni ‘forzate’ indotte dalla fame o dalla guerra, cui assistiamo in questi anni, in cui i ‘sopravvissuti’ attendono di “poter trasformare traumi impensabili e irrappresentabili in drammi umani”(De Micco)
Maria Giovanna: La dimensione individuale di una condizione di sopravvivenza psichica esito di traumi, è stata affrontata da Malde Vigneri, con il toccante caso clinico presentato in apertura del convegno, che si ricongiunge idealmente con la storia raccontata in chiusura nella seconda giornata da Manuela Fraire riguardante Janine Altounian, studiosa di psicoanalisi e figlia di scampati al genocidio degli armeni. Nelle vicende raccontate dalle relatrici, un evento reale esterno, come assistere a un accadimento traumatico simile al proprio nella vicenda clinica, o ritrovare un diario del proprio genitore legato agli accadimenti storici, apre uno squarcio di verità, fino a quel momento confinata in una zona preclusa alle emozioni, la cui presenza silenziosa trasformava il senso vitale dell’esistenza in un senso piuttosto di falsità, irrealtà, normalità vuota, spenta; ma una traccia senza significato diventa memoria viva, ricordo, vissuto emotivo sperimentabile e narrabile grazie al riconoscimento che sostituisce la cancellazione.
Adriana: Virginia De Micco articola il suo intervento proprio intorno a questo elemento: la mente posta in condizioni estreme, di fronte all’imminenza della propria fine, privata di ogni abituale riferimento, per sopravvivere, si concentra in una sorta di dilatazione del presente, incorpora elementi inanimati tali da rendersi “impermeabile” al dolore, quasi altro da sé, una sorta di cancellazione della dimensione del tempo storico in cui non c’è né passato né futuro, alienando da sé la possibilità stessa del pensiero (Aulagnier). Ciò che della mente subisce tale forma di esilio, “non muore completamente”, né può pienamente vivere, resta, piuttosto, come nella esperienza psicotica, in una condizione di “incompletezza” che non le consente di fare il lutto della perdita, né procedere verso il nuovo. Come in un tempo sospeso, in attesa di trovare una possibile “traducibilità”(Altounian) e ciò avviene sia nell’esperienza della mente individuale che nella trasmissione tra le generazioni.
Maria Giovanna: Dalle relazioni di Lorena Preta e di Giovanna Goretti emerge quanto le espressioni artistiche, nei vari generi, filmico, letterario, architettonico, ma aggiungerei musicale, grafico, teatrale, rappresentino da una parte, la possibilità di “stare letteralmente nel proprio tempo” e siano dall’altra dei modi attraverso i quali l’umanità esprime la tensione verso la sopravvivenza. Preta, prendendo spunto dal film “Solo gli amanti sopravvivono” di Jim Jarmush, analizza il significato simbolico della figura del vampiro, così presente anche nella cultura adolescenziale attraverso la fortunata serie di Twilight: vengono tracciate le assonanze tra le questioni che attraversano la contemporaneità e le caratteristiche del vampiro, “una specie ibridata fuori dalle leggi che governano il tempo umano, e che prolunga la propria vita al di là dei confini biologici”, ma che contemporaneamente è attraversato dalla nostalgia e dalla idealizzazione di un passato perduto, alla continua e famelica ricerca del cibo- sangue in una dipendenza mai risolta.
Goretti crea un nesso tra le cabine sul mare descritte dallo psicoanalista Bollas nel libro Il mondo dell’oggetto Evocativo, che vengono trasformate in strutture commerciali e le “cabine dell’Elba” dell’architetto Aldo Rossi che affiancano la percezione della singola cabina, dell’uno, a quella dell’insieme delle cabine, che allude all’infinito: “valorizzare il cambiamento e fare il lutto per quello che cambia nella città, ci appartiene e ci riguarda quasi quotidianamente” e in queste trasformazioni architettoniche è individuabile un processo di sopravvivenza in cui è necessario conservare, curare il passato, in una tensione verso l’infinito, i valori universali, la ricerca della felicità e contemporaneamente fare spazio al nuovo.
Adriana: Compiendo un percorso che a partire dai molteplici destini cui va incontro chi “attraversa il mare”, De Micco transita per la nozione di ‘survivals’ (Taylor) che si occupa delle ‘sopravvivenze delle culture primitive’, intreccia il pensiero di Aby Warburg per cui la nozione di ‘sopravvivenza’ è legata a quella di ‘traccia’, cioè a quegli elementi “che restano” come segno di un passaggio, e attraverso i quali sia in ambito artistico che storico, nonché psichico, possiamo risalire alla forma originaria dell’esperienza. Traccia che assume, come nell’esempio clinico riportato, appunto la forma di una lunga inconsapevole attesa.
Maria Giovanna: Alla condizione di chi sopravvive alla morte appartiene quel paradossale sentimento di felicità ai limiti della comprensibilità, che può esitare in un’ inelaborabile colpa depressiva o in un investimento narcisistico precursore del superamento della profonda offesa disumanizzante propria dell’esperienza traumatica.
Una particolare consonanza mi pare ci sia stata su questo punto con Rino Genovese che ha affrontato il tema da un punto di vista storico e filosofico nella tavola rotonda, sottolineando la cesura tra la cultura fino alla prima metà del Novecento, e quella attuale. Ripercorrendo il pensiero di Elias Canetti espresso in “Massa e potere”, Genovese indica come nella cultura dei totalitarismi, la sopravvivenza sia intrecciata con il potere: il capo scampa alla morte, sfidandola eroicamente e quindi non è tanto un sopravvissuto, ma un sopravvivente perché ha il potere di sconfiggere la morte. Nella cultura di oggi invece, è scomparso l’elemento eroico, il capo carismatico non c’è o si presenta come falso, mediatico, alimentato in maniera artificiale: dalla società di massa si è passati alla società degli individui in cui non c’è nessun sopravvivente, ma siamo tutti sopravvissuti, come il precario, il disoccupato, l’immigrante.
Adriana: La densità dei temi di questo convegno, che dal pubblico qualcuno ha definito come capace di dare avvio a diversi convegni, credo ci costringa a chiederci quale sia la forma migliore del nostro dialogare. E quali le migliori condizioni in cui l’uditorio possa fruire della ricchezza dei temi proposti?
Alfredo Lombardozzi nell’introduzione alle giornate aveva tenuto presente questa fatica, connessa al considerare il ’malessere’ attuale “come un sentimento che attraversa lo psichico immerso nella dimensione bio-socio-culturale”( R.Kaes) infatti ravvisa l’esigenza che “ognuno di noi faccia uno sforzo per uscire dal proprio campo navigando nelle acque della discontinuità per poi ritornarvi recuperando quel minimo di continuità necessario a non perdere del tutto la rotta”.
Maria Giovanna: Tornerei alle considerazioni iniziali di Lombardozzi riguardanti il malessere del mondo di oggi: alla condizione di sopravvivenza, individuabile nel senso di precarietà e disorientamento, nel venir meno dei precedenti riferimenti bio-socio-culturali che formano l’identità, nella rapidità e radicalità dei cambiamenti nel mondo della comunicazione, nella crisi del pensiero positivistico di una fiducia in un progresso illimitato che non conosce regressioni, e’ necessario contrapporre uno sforzo di indagine che possa tracciare mappe, individuare percorsi, affinché il presente possa essere anche letto nelle potenzialità future in stretto collegamento con una “rimemorazione” del passato diversa dalla commemorazione che opera piuttosto un nascondimento. Lo insegna la cultura degli aborigeni australiani che “se pure sempre al limite della perdita del senso e del rischio dell’estinzione di una particolare forma di vita, esprime un’arte che pone come centrale la dignità nel confronto con l’alterità”.
Infine segnalerei che durante la tavola rotonda si è acceso un animato dibattito attorno alle tesi sostenute da Roberto Marchesini che capovolgendo l’ottica freudiana, ha indicato un diverso modo di vedere il rapporto tra filogenesi e ontogenesi, ma il tema avrebbe richiesto un approfondimento che forse portava troppo lontano.
In conclusione, il merito del convegno mi pare possa essere riassunto dalle parole di Giovanna Goretti: “ Non parlare del vivere e sopravvivere di parte del mondo che abitiamo, può diventare un’estesa forma di diniego.”
Vedi anche in Spipedia:
Trauma/Psicoanalisi