Padova 11 Giugno 2016 Psicoanalisi dei comportamenti violenti CVP
Centro Veneto di Psicoanalisi
Report a cura di Cristina Marogna
Per quelli cui non basta trovare il “corpo” del reato
La mia esperienza mi ha portato
a constatare che il modo migliore
per ottenere giustizia è trattare
gli altri con giustizia.
– Gandhi-
Sono arrivata al seminario dell’11 giugno al Centro Veneto di Psicoanalisi con una domanda: “Chissà a chi interessa questo tema?” e ho trovato l’aula magna piena di gente, alcuni conosciuti habitué del centro e molti sconosciuti … Il tema interessa!
Dopo i saluti e una breve introduzione da parte del presidente del centro Veneto, la professoressa Maria Vittoria Costantini, ha preso la parola, il dottor De Mari che ci ha accompagnati per mano nei meandri del dolore psichico che si respira in carcere già all’accoglienza da parte delle guardie all’ingresso.
Le due sessioni del seminario si sono sviluppate in una prima parte d’introduzione teorica a cui ha fatto seguito la presentazione di un caso clinico, al fine di creare delle connessioni che rendessero comprensibile come il pensiero psicoanalitico può trovare spazio di espressione in una istituzione totale quale è il carcere.
E la porta d’ingresso al carcere si apre su due questioni che vengono subito proposte:
1) In che modo la teoria psicoanalitica, con gli adattamenti necessari del metodo, può essere utilizzata con questo tipo di pazienti ?
2) Possiamo chiamare ancora psicoanalisi ciò che stiamo utilizzando o non è qualcos’altro che con la psicoanalisi classica non ha più niente a che fare?
Dalla teoria alla clinica
Il centro della prima riflessione teorica ruota intorno alle persone che si rendono responsabili di comportamenti violenti che, salvo casi particolari, presentano aspetti di personalità appartenenti a due tipologie: la psicopatia e la devianza o disturbo antisociale; è opinione comune che quando si parla di psicopatia e devianza si faccia riferimento a patologie mentali, mentre è importante sottolineare che si tratta di aspetti di personalità che possiamo ritrovare in diversi quadri sindromici psicopatologici, come anche nelle persone “sane”. Nello specifico la riflessione si è addentrata sul come, nelle tipologie di personalità oggetto di questo seminario, troviamo un’inibizione del linguaggio e un’ideazione coartata condizionata da una sofferenza psichica profonda, un’angoscia che diventa tollerabile solo grazie all’utilizzo di meccanismi di difesa altrettanto forti che vanno dalla rimozione, alla scissione, al diniego, all’identificazione proiettiva da cui poi ne derivano sintomi come l’ideazione ossessiva, l’allucinazione o il delirio. Questi pazienti hanno, dunque, una visione della realtà alterata e una modalità patologica di stare nelle relazioni. La diagnosi di questi disturbi è resa complessa da un’apparente normalità di comportamento e da un alto livello cognitivo e intellettivo, spesso superiore alla norma, a fronte di una visione distorta della relazione da un punto di vista morale e soprattutto affettivo. La terapia può dunque far poco conto sull’apporto della psicofarmacologia in quanto, molto spesso, non viene riscontrato alcun sintomo: sono persone che riferiscono il benessere ed evitano il più possibile il confronto con gli operatori “psi”. Come può dunque trovare spazio, in questo territorio psichico, una terapia che si basa sulla parola?
La prima teoria criminologica in ambito psicodinamico di una certa rilevanza è da attribuire a Sigmund Freud che, nel 1916, scrive un lavoro dal titolo: “Delinquenti per senso di colpa”, in cui descrive come, nel corso del trattamento psicoanalitico, alcune persone diventate in gran parte rispettabili, gli confidarono di aver compiuto, nel periodo precedente la pubertà, azioni criminali quali furti, truffe e persino incendi dolosi. Secondo Freud questi individui, attraverso l’atto delittuoso, ricercherebbero una punizione, come sollievo a un forte senso di colpa che provano nel profondo, derivante da un irrisolto conflitto edipico. Un Super Io arcaico ed eccessivamente rigido determinerebbe secondo autori come la Klein (1932, 1957) e Williams (1983) quelle irruzioni improvvise ed esasperate dell’inconscio nella realtà, caratteristiche dell’acting-out, una delle questioni più difficili da affrontare e spiegare nella relazione terapeutica. Come scrive Claude Balier (1996): “Il passaggio all’atto “cortocircuita” la mentalizzazione e priva lo psicoanalista della possibilità di lavorare sulle rappresentazioni. E’ evidente che la cura psicoanalitica classica non può essere utilizzata con questi pazienti. Ciò solleva la questione fondamentale della relazione tra il livello di funzionamento economico e il regime delle rappresentazioni; essa ci mette di fronte anche l’essenza della pulsione aggressiva”.
Un altro concetto importante, come nella cura dei pazienti gravi, lo ritroviamo nella dinamica dell’odio e nella gestione dell’aggressività, e più nello specifico nell’identificazione proiettiva, concetto kleiniano necessario per descrivere un processo in stretta relazione con la posizione schizo-paranoide. Esso consiste nella proiezione fantasmatica di parti scisse della persona del soggetto all’interno del corpo materno in modo da ledere e controllare la madre dall’interno. W. Bion (1957, 1962) sarà il primo ad introdurre una distinzione tra una forma di Identificazione Proiettiva “normale”, ed una “patologica”, mettendo in luce, accanto alla primitiva funzione evacuativa descritta inizialmente da M. Klein, la dimensione interpersonale e comunicativa, che l’identificazione proiettiva contiene. Questo concetto può essere compreso, dal punto di vista clinico, nelle parole di De Masi (2012) quando afferma: “Spesso chi agisce la violenza è legato alla sua vittima tramite un circuito sadomasochistico. L’odio, che derivi da una ferita narcisistica o da un’ingiustizia subita, è sempre un sentimento spiacevole difficilmente tollerabile. La recriminazione e il rancore eccitano la violenza fino al punto da renderla incontenibile. Uccidendo, l’assassino scioglie il legame negativo che lo lega al suo oggetto. La violenza si compie per ragioni interne, per espellere uno stato intollerabile della mente, e il sollievo deriva dall’essersi sbarazzato non tanto del nemico quanto dello stato mentale intollerabile”. Il tentativo non facile, quando s’intraprende un lavoro terapeutico con il paziente in carcere, sarà quello di capire, insieme a lui/lei, in quale passaggio, delle complesse dinamiche psichiche, si situi quel punto di non ritorno che, by-passando la capacità di mentalizzazione, ha condotto al comportamento violento.
L’excursus teorico, presentato dal dottor De Mari, è stato fondamentale per poter comprendere le dinamiche transferali e controtransferali descritte nel caso portato dalla dott.ssa Carine Minne nella prima parte del seminario e dal dottor Samrat Sengupta nel pomeriggio.
Dalla clinica alla teoria: il pendolo
Il primo caso clinico è stato introdotto dalla dottoressa Minne così: “Oggi vi parlerò di stati mentali disturbati e quindi disturbanti”.
Il caso tratta di una donna curata per 9 anni con una psicoterapia psicoanalitica a due sedute la settimana, la cui condanna era avvenuta a seguito di un infanticidio. Nella prospettiva psicoanalitica questa uccisione può essere intesa come un caso di matricidio e di suicidio; come emerge nel caso la paziente appartiene a una famiglia numerosa e altamente disfunzionale, in cui i rapporti incestuosi trans-generazionali hanno reso i membri insicuri rispetto a questioni identitarie. Nella famiglia allargata la violenza tra le diverse coppie di genitori, la madre con il padre, e la madre con i patrigni, era normale. Non vi era esperienza coerente di maternità ‘sufficientemente buona’ e ciò ha portato la donna a sviluppare attaccamenti e identificazioni patologici che si precisano anche nelle dinamiche transferali e controtransferali.
Nel considerare il caso, gli usuali modelli psicoanalitici teorici non sono sempre applicabili anche se certi concetti possono essere utili: se durante l’infanzia, un eccesso di ostilità e la conseguente ansia paranoica si manifestano nei confronti dell’oggetto primario (come con molta probabilità è accaduto per questa paziente) maggiore è la fissazione e più profonda sarà la divisione tra un oggetto cattivo e uno molto idealizzato. Le difficoltà che si riscontrano nel trattare questo genere di pazienti è dovuta al potente controtransfert del terapeuta che continuamente rischia il break down del trattamento (Bion 1957 O ‘Shaughnessy 1992).
Secondo la teoria di Glasser – core complex theory (Glasser 1979), la paziente essendo già psichicamente sofferente, si sentiva mentalmente minacciata dal contatto con la sua bambina, che suscitava paure primordiali e ansie fusionali fino all’annientamento. Questa dinamica può aver favorito un bisogno di creare una distanza di sicurezza, lasciando però la paziente con un senso d’isolamento e di abbandono e col desiderio di ritornare verso l’oggetto. L’intenzione non era di uccidere ‘tutto’ il bambino, ma soltanto la parte pericolosa con cui s’identificava e che minacciava il suo equilibrio psichico.
Se si considera l’infanticidio commesso dalla paziente come una fantasia suicida e matricida in atto, si capisce come la minaccia psichica possa aver trovato sollievo temporaneo nell’uccisione, proprio nel momento in cui l’oggetto cattivo viene ucciso e, contemporaneamente, la parte scissa del sé sopravvissuta può sopravvivere in uno stato di beatitudine e senza minacce.
La struttura mentale della paziente non sembra sufficientemente integrata per mantenere una configurazione patologica e i momenti intollerabili di sanità mentale si manifestano quando si trova a metà strada tra questi due tentativi di frenare i viraggi psichici. In diverse occasioni, i momenti di sanità mentale e il contatto con la realtà potevano durare giorni o mesi, in altre occasioni, una manciata di secondi, ovvero la velocità dell’oscillazione del pendolo del viraggio psichico dalla psicosi al disturbo di personalità può variare da pochi secondi a mesi. Poste queste premesse si potrebbe ipotizzare che a ogni oscillazione del pendolo, un set diverso di ansie che non riescono ad essere contenute dal viraggio fallito e che pertanto fallisce come difesa, precipita nella necessità di uccidere l’oggetto considerato come fonte di tali ansie. Ciò allevierebbe le ansie temporaneamente e consentirebbe un momento sano prima che le ansie associate alla realtà inneschino nuovamente il pendolo.
Con la stessa metafora del pendolo possiamo vedere come la terapia della paziente progrediva e regrediva e come un’apparente duplice diagnosi può in realtà essere considerata come unica diagnosi, in uno spettro lungo il quale lo stato mentale della paziente oscilla ripetutamente avanti ed indietro: da manifestamente psicotico a un disturbo di personalità, entrambi stati mentali disturbati. Le due posizioni agli estremi dello spettro possono provocare reazioni molto diverse negli altri, in quanto stati mentali disturbanti.
Un ulteriore obiettivo della trasmissione dell’input psicoanalitico è consentire ai membri del team clinico di essere consapevoli e fare uso del loro contro-transfert. Gravi disturbi mentali come quello in esame sono ‘contagiosi’ e pertanto l’input psicoanalitico può fungere da vaccinazione. I due obiettivi (il trattamento della paziente e la consulenza con il team di medici) possono essere raggiunti solo se il terapeuta effettua supervisioni regolari.
Quale contenitore per quale contenuto: l’isomorfismo nell’istituzione carceraria
In questa seconda parte del seminario il dottor De Mari ha orientato l’attenzione sul carcere, quale istituzione totale, e sulle dinamiche di gruppo che in esso prendono vita.
Dal punto di vista sanitario il carcere è stato integrato all’interno del Servizio Sanitario Nazionale di cui segue gli standard di trattamento, prevenzione e terapia, con medici specialisti h.24, che si occupano di tutte le patologie più a rischio. Dal 2008 l’area sanitaria è passata sotto l’organizzazione delle ULSS e quindi oggi fa parte delle unità operative dell’azienda ospedaliera e si chiama appunto Unità Operativa Semplice Sanità Penitenziaria, dove gli agenti di custodia sono oggi agenti di polizia, selezionati con gli stessi criteri e inquadrati allo stesso livello economico; il carcere pullula di operatori di ogni tipo: insegnanti, educatori, psicologi, con diverse funzioni.
Quando analizziamo il funzionamento di un’istituzione, possiamo osservare dinamiche legate all’isomorfismo (Kaes, 1976), in altre parole quando si genera un campo particolarmente potente indotto dall’utente che si trasmette alla totalità del gruppo dei curanti secondo modalità non riconosciute. Possiamo osservare che è in atto una modalità ossessiva di trasferimento del campo, per cui il singolo curante è inglobato in una atmosfera indistinta indotta dal paziente che avvolge contemporaneamente il curante, il paziente e il gruppo istituzionale nella sua totalità. In molti casi si assiste a un’ossessivizzazione dell’incontro e alla comparsa in misura crescente di spunti depressivi legati a un senso di piattezza, d’inutilità, di vuoto invadente e pervasivo, d’impossibilità di accesso ad aspetti nuovi e meno sperimentati. Sempre in termini d’isomorfismo può accadere che un membro del gruppo abbia sovrapposto il suo apparato mentale a quello del gruppo, o meglio ha imposto a quest’ultimo un elemento o un insieme di elementi mentali e affettivi tali che il gruppo ha perso la sua distinzione rispetto al membro portatore. Si è determinata così un’assunzione indiscriminata da parte del gruppo di alcune note caratteristiche del membro in questione per cui gruppo e individuo sono diventati indistinguibili, si sono come saldati. Il fenomeno più stupefacente è che talvolta il gruppo dei curanti si accorge di essere stato per mesi e talvolta per anni incapace di reagire a questa sorta di effetto ipnotico, di non essere riuscito a scrollarsi di dosso questa massiccia induzione e di non aver messo in opera attività, azioni, funzioni che normalmente mette in opera come acquisizioni sicure, come basi ovvie e consolidate. L’aspetto più perturbante dell’isomorfismo non è dato soltanto dall’induzione massiccia di aspetti che creano una sorta d’indistinzione, di accollamento tra gruppo e individuo: esso è dato forse ancora di più dal fatto che gli aspetti indotti producono, oltre al blocco e alla paralisi, una specie di zona muta, silenziosa, nella mente degli operatori. Questa zona muta si manifesta principalmente sotto forma di un’impossibilità a pensare agli eventi da angolature nuove e inoltre per la sensazione, rassicurante ma sterile, che di quel certo paziente si sappia già tutto, che tutto il dicibile sia già stato detto, che non esistono elementi nuovi che possano emergere. Da questi vissuti d’ineluttabile inefficacia prendono forma le espressioni più massicce di burnout, in cui l’unico modo per cambiare la situazione sembra sia rinunciare a tutto e andarsene e questo spiega il fenomeno del costante turnover degli operatori.
La sala degli specchi: rispecchiamento patologico e coazione a ripetere
Il caso presentato dal dottor Sengupta ci ha portato all’interno di una dinamica di identificazioni patologiche che si perpetuano in una dimensione transgenerazionale, talmente coriacea da non sapere più di chi è l’immagine e l’identità che il paziente ci presenta.
Il paziente, originario dell’Africa, aveva subito sin dalla prima infanzia abusi emotivi e fisici da parte degli zii materni, a scuola era spesso rimproverato e punito e a volte sospeso; nei ricordi racconta di aver pianto a dirotto e per ore chiuso in una stanza. Queste esperienze politraumatiche vissute in una famiglia patologica e psicotizzante si ripropongono anche nella nuova famiglia costituita dal padre dopo la morte della madre del paziente.
All’età di 10 anni il paziente vedeva gli spiriti (jins) e cominciò a parlare altre lingue; gli spiriti sembravano spaventosi e pericolosi, erano fantasmi e mostri che minacciavano di attaccarlo.
I sintomi sono stati prima interpretati dal punto di vista culturale come visioni di spiriti (jins) e diverse volte il paziente è stato portato da guaritori locali che gli avevano diagnosticato di essere posseduto e lo avevano sottoposto ad esorcismi. Anche se il suo disagio diminuiva temporaneamente e i sintomi regredivano, potevano riapparire a causa di eventi stressanti nel corso dei quali continuava a vedere gli spiriti e restava chiuso nella sua stanza e parlava tra sé e sé; ogni tanto aveva scatti d’ira e di angoscia.
Il gioco di significati: Geni come spiriti e Corredo Genetico di patologia familiare viene proposto dal dottor Sengupta per delineare come ci fosse, intorno a questo paziente, un’aurea di predestinazione alla malattia mentale che non ha permesso l’accesso ad una cura, prima che la sofferenza da nevrotica divenisse francamente psicotica.
Siamo all’interno del dramma dell’incomunicabilità della sofferenza psichica e la stessa aria che si respira nella storia del paziente la ritroviamo nell’opera “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello che Sengupta propone come analogia.
Nell’articolo “Processi psicotici in Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello”, Domenico e Rita Di Ceglie (2000) delineano le connessioni fra relazioni diadiche e triadiche. Utilizzando la commedia di Pirandello, l’articolo esplora il lavoro di Bion sugli stati psicotici della mente, sottolineando l’importanza della relazione diadica e triadica nell’ interazione paziente-terapeuta. I sei personaggi sono fantasmi che vogliono raccontare la loro storia e il regista, come l’analista, vorrebbe metterli in scena per dare un ordine, un setting, loro rifiutano qualsiasi interpretazione e il regista li lascia fare; i personaggi mettono in scena la loro personale tragedia e ognuno delira nella propria follia. Come accade anche nella tragedia di Amleto c’è un tempo in cui il dolore della perdita fa fisiologicamente allucinare la persona amata, ma se non interviene un contenimento affettivo che permette di dare parola alla sofferenza allora si può scivolare inesorabilmente in una realtà psicotica.
Gli spiriti come i fantasmi sono creature crepuscolari che non possono abitare nella luce, nascondono quei segreti terrificanti che hanno bloccato il paziente in una condizione di isolamento psichico e paralisi del pensiero.
In conclusione alle presentazioni ci sono state molte domande, commenti ai casi e richieste di chiarimento rispetto ad alcuni passaggi teorici e clinici così sintetizzabili:
– Come il sintomo iniziale dissociazione (versante isterico) diventa scissione (versante psicotico);
– Quanto gli aspetti transgenerazionali e familiari patologici nella storia dei pazienti potevano essere rilevati e curati prima che l’esordio fosse psicotico;
– L’importanza degli interventi di prevenzione che si possono fare nell’infanzia/adolescenza
– Le caratteristiche del setting e le difficoltà della cura psicoanalitica in una Istituzione Totale.
Bibliografia
Balier C. (1996) Psicoanalisi dei comportamenti sessuali violenti. Centro Scientifico Editore.
Balier C. (1996) Psicoanalisi dei comportamenti sessuali violenti. Centro Scientifico Editore.
Bion, W. R. (1957) Differentiation of the psychotic from the non-psychotic personalitie. International Journal of Psychoanalysis, 38: 266-75.
Bion, W. R. (1962) Learning from Experience. London: Tavistock.
De Ceglie, D and R (2000) Psychotic Processes in Six Characters in Search of an Author by Pirandello; British Journal of Psychotherapy; Vol 16(3), 303-310.
De Masi F. (2012) Lavorare con i pazienti difficili, Bollati Boringhieri, Torino.
Freud S. (1916) Delinquenti per senso di colpa. OSF8, Boringhieri, Torino.
Glasser, M. (1979) Some Aspects of the Role of Aggression in the Perversions. In I. Rosen (Ed.).
Kaes R. (1976) L’apparato pluripsichico: costruzioni del gruppo, Armando Editore, Roma.
Klein M. (1932) La psicoanalisi dei bambini. Giunti Editore, Firenze.
Klein M. (1957) Invidia e gratitudine. Giunti Editore, Firenze.
O’ Shaughnessy, E. (1992) Enclaves and Excursions. International Journal of Psychoanalysis 73: 603-611
Williams A. (1983). Nevrosi e delinquenza, Borla Editore, Roma.
Vedi anche:
In Dossier:
Identikit del Terrore – Strategie di Pace – Marzo 2015
- La giustizia è giusta se è un problema, non è più giusta se vuole essere una soluzione di Riccardo Romano
Maternità Surrogate – Marzo 2016