Dossier
Renata Rizzitelli . Una religione del mio tempo
12/10/17
Renata Rizzitelli – Membro ordinario SPI e IPA con qualifica bambini/adolescenti
UNA RELIGIONE DEL MIO TEMPO
“Lo so: perché in me è oramai chiuso il demone / della rabbia. Un piccolo, sordo, fosco / sentimento che m’intossica: / esaurimento, dicono, febbrile impazienza».
Pier Paolo Pasolini
«Poesie incivili», appendice al volume “La religione del mio tempo”.
Pasolini, aveva in mente di pubblicare un libro di racconti con lo stesso titolo ma non ne fece nulla, la parola “rabbia” fu citata poi in un documentario del 1963. La grande prerogativa di Pasolini è proprio la rabbia e ne ha trattato, per esempio, in “Qualcosa di scritto” (Ponte delle Grazie); è proprio questa reazione emotiva, questo stato di violenta agitazione, che identifica questo artista, poeta e scrittore rispetto a tutti gli latri. Questo non risulta essere un difetto ma un’indispensabile prerogativa.
Preambolo: qualche cenno sulla “rabbia sociale”
Cenni sulla genesi della rabbia sociale: La serpe in seno
Risulta ben noto a tutti quanto, nell’ultimo decennio, un malessere generalizzato abbia colpito un gran numero di persone: il senso di insoddisfazione e la frustrazione siano diventati per molti una sorta di amaro “pane quotidiano”.
Questo malessere, che il più delle volte appare impalpabile, ha radici di vario tipo, che possono essere riconducibili a condizioni di vita frustranti o a percorsi ed esperienze devianti.
Si tratta di persone sopraffatte da una realtà che li fa sentire inermi, in un mondo nel quale, di fatto, non trovano spazio.
Tale particolare stato di frustrazione che, ovviamente genera malessere, coesiste con un altrettanto specifico disagio esistenziale, può essere causato da una deprivazione relazionale primaria ma anche dalle condizioni di vita dell’individuo; a volte il problema è trans-generazionale, cioè derivante dalla storia emotiva ed esistenziale della famiglia di origine. Questa problematica può quindi partire da lontano, può avere le radici non solo in un reiterato e costante stato di deprivazione relazionale fra il bambino e le figure di principale riferimento affettivo, ma in un tessuto sociale dove la frustrazione e la deprivazione fanno parte del gruppo allargato, così che tale stato di abbrutimento ha radici profonde e straordinariamente forti; il malessere può “serpeggiare” indisturbato per moltissimo tempo, senza manifestarsi al di fuori dell’individuo e della sua stretta cerchia relazionale, rintanato ma con sue risorse, nutrendosi di energie che potrebbero essere vitali.
Un altro filone molto importante, che dobbiamo attentamente valutare, riguarda l’esclusione da uno stato di benessere che può essere percepito da lontano, molto presente da quando i mass-media hanno dato accesso a modelli di confronto fisico ed esistenziale, solitamente idealizzati, giacché i grandi progressi della comunicazione hanno messo in contatto ed in luce gli squilibri fra opulenza vissuta come irraggiungibile e la vita incerta e a volte misera degli individui.
Un’altra variabile concerne specificatamente gli adolescenti: la mancanza di valori di riferimento e/o di relazione “umana” che a volte, fin dalla più tenera età, hanno sperimentato per un’assenza di relazione diretta e sufficientemente nutriente con l’altro, può farli sprofondare e perdersi nel mondo virtuale, accumulando ulteriori esperienze di assenza di “umanità” che li danneggia e allontana ancor di più dal benessere e dall’equilibrio.
Il comune denominatore che riunisce queste diverse afferenze è il generare nelle persone una sottile e continua rabbia, originata anche da un’ invidia che permea la vita in maniera magari lieve ma costante, rendendo la quotidianità difficile e faticosa. Queste persone hanno a che fare costantemente con una zavorra frenante generata da senso di sconfitta, inutilità, inadeguatezza. Se tali contenuti psichici assumono maggiori proporzioni, ciò può portare a dimensioni anche molto gravi che possono indurre alla necessità di annientare l’altro; questo può avvenire con un processo di crescente disumanizzazione di sé e dei propri simili, con la perdita della capacità di empatia e identificazione con l’altro che viene percepito come qualcosa di alieno e non riconoscibile e rispettabile. L’altro non è che la proiezione del vissuto primordiale esperito direttamente su di sé, quindi profondamente svalutato e spesso disprezzabile. Nei casi più gravi, al misconoscimento dell’altro come essere umano, si associa l’autorizzazione ai comportamenti più violenti e distruttivi. L’indegnità dell’altro, incidentalmente, preserva dal senso di colpa che per questo tipo di persone è già difficile esperire.
L’arrabbiato sociale, dalla sociologia alla psicoanalisi
La rabbia sociale è direttamente ed ovviamente collegata ad una figura psicologica: “l’arrabbiato sociale”.
Si tratta di persone che, come abbiamo visto, per svariati motivi sono diventate profondamente insoddisfatte ed insofferenti, proiettando fuori da sé le motivazioni di tale malcontento: questo atteggiamento che, nel linguaggio comune potrebbe essere definito “accidioso”, viene riversato soprattutto su aspetti generalizzati della società, per esempio sulla politica. Le aspettative di questi individui nei confronti del quotidiano ma pure del loro progetto di vita, anche per questo atteggiamento negativo e distruttivo, sono andate deluse generando ulteriore frustrazione, il non poter fare riferimento ad un mondo interno solido e la mancanza di capacità di elaborazione che passa attraverso il poter pensare, così come lo si intende in psicoanalisi, può generare reazioni non equilibrate che, a loro volta, possono sfociare nella rabbia sociale agita.
“Nei Paesi occidentali, con il Well-being, la democrazia è la forma più concreta di convivenza civile. Questo è, se vogliamo, un assioma”.
Ma come possono le persone che non hanno avuto la possibilità di sperimentare direttamente e quindi introiettare un modello democratico di rispetto della propria persona durante la loro crescita ed evoluzione psicologica, o che hanno subito esperienze che hanno messo in discussione il loro assetto mentale, sentendosi esclusi dal vero ed autentico benessere psichico e fisico, accettare e dialogare una società che, direttamente e/o indirettamente, li ha maltrattati?
Come possono le persone che, per alterne vicende a causa di eventi traumatici che hanno messo in discussione gli oggetti di riferimento introiettati, hanno perso valori e sicurezza, rapportarsi correttamente con la realtà?
Si tratta di soggetti che – come abbiamo detto – per alterne vicende non hanno a disposizione principi e valori del rispetto di sé stessi e degli altri e che hanno subito o inflitto un’opera di autentica demolizione nei confronti dell’altro e dei maggiori punti di riferimento istituzionali e sociali.
La mancanza di punti di forza solidi, costruiti attraverso relazioni profonde ed appaganti, facilita l’imprigionamento in loop all’interno dei quali la superficialità è dilagante ed assume caratteristiche sempre più aggressive. Per esempio, dietro il paravento dei social network, le personalità meno strutturate e solide rischiano di restare imprigionate nel mondo virtuale: in questo modo possono dare libero sfogo alla rabbia accumulata ma repressa nella vita quotidiana, i social diventano l’unico sfogo possibile ed immediato per esprimerla ed è come se venisse vomitata. La dipendenza da questi mezzi è facilitata dalla mancanza di dialogo profondo e nutriente fra persone ma soprattutto con sé stessi. Il ricorso a mezzi meccanici, dove il contatto è effimero ed ognuno si può presentare come meglio gli aggrada senza possibilità o meglio rischio di confronto con gli altri, può esacerbare questi aspetti delle persone, mettendo in campo un movimento eccitatorio fortemente peggiorativo. In questo contesto i social, a fronte di una realtà vissuta come frustrante ed ai confini con un senso di indegnità ed umiliazione, possono rappresentare e diventare, nel vissuto dell’individuo, l’unico modo per avere l’impressione di contare qualcosa.
Per queste persone, mettersi in gioco direttamente, e quindi “incazzarsi” nel senso pieno del termine, significa metterci la faccia, rischiare e prendere le sembianze di qualcuno che c’è veramente e risponde delle proprie opinioni ed azioni, il che necessita di fare ricorso a risorse che non hanno. Pensare ed agire direttamente significa diventare un personaggio forte anche se difficile e controverso, meglio trincerarsi dietro ad un finto “sì buana” per rifugiarsi poi in un rimuginamento sterile e fine a sé stesso e/o a gruppi ed organizzazioni che proteggano dal confronto diretto. Lo stato di insoddisfazione acuito dalla sensazione di non sentirsi mai “a casa”, può rimanere permanente e senza grossi scossoni anche per tutta la vita, o può sfociare in vera e propria aggressività e violenza quando i soggetti trovano un paravento con il quale possono avere l’illusione di mettersi in gioco, di aver trovato una sorta di “famiglia” nella quale rifugiarsi, riconoscersi: una possibilità è rappresentata dal gruppo, sulla potenza del quale non dobbiamo dire né aggiungere nulla, un’altra dai social network che possono funzionare in maniera veramente comunicativa e di scambio arricchente, quando il “Sé” è sufficientemente solido e se la capacità di relazione è equipollente .
Per queste persone non è difficile, sposare una certa severità di giudizio ed una pretesa verso gli altri di perfezione irraggiungibile; perché il loro malcontento esistenziale appartiene a vicende negative riguardanti il mondo interno, esperite in maniera massiccia e che hanno messo gli individui in situazioni nelle quali non sono stati rispettati nel senso più profondo del termine, cioè non è stato loro riconosciuto il diritto di essere accuditi e curati, soprattutto psichicamente, in modo sufficientemente buono, o non hanno potuto mantenere integri e ben manutenuti gli oggetti interni introiettati.
Che le democrazie non siano perfette è un dato di fatto, ad oggi però sono il modello che più si avvicina al rispetto per tutti gli individui ma l’arrabbiato sociale tende a mettere in discussione tutto, senza poter accedere ad una dimensione nella quale la rabbia potrebbe essere impiegata per tirarsi fuori dai guai. Queste persone procedono per lo più adottando, solo superficialmente, l’atteggiamento di chinare fintamente la testa di fronte alle frustrazioni quotidiane ma in realtà indugiando in una rimuginazione continua e auto-intossicante di protesta, per lo più interna, rabbiosa e inconcludente che spesso è accompagnata da spunti ossessivi e particolaristici.
La serpe in seno
L’arrabbiato sociale ha la serpe in seno che lo avvelena ma è anche lui stesso, potenzialmente, la serpe in seno della società a cui appartiene, che da un momento all’altro può realmente avvelenare il contesto più o meno allargato nel quale vive; può esplicitare il suo veleno trincerandosi dietro gruppi o dietro la tastiera del computer: in questo modo gli è possibile tirar fuori la sua rabbia, ciò può condurre anche ad esplosioni di violenza che nessuno sospettava da parte di individui che, pur scontenti, sembravano essere capaci soltanto di dire “sì buana”.
“Incazzarsi” davvero e direttamente per queste persone non è possibile perché significa metterci la faccia, rischiare, mettersi in gioco: in altre parole, poter fare riferimento ad una struttura di base della personalità che “tiene”, che può pensare i pensieri ed elaborarli, sopportare la forza della rabbia, dentro e fuori di sé.
Per le persone più fragili, come sempre accade, in questo momento storico e sociale che pone imponenti interrogativi sul piano della sicurezza esistenziale, per la fine del lavoro sicuro, fine dei punti di arrivo, vulnerabilità che rende tutti incerti ed insicuri anche per vissuti legati all’emigrazione strettamente connessa alla paura dell’invasione ed alla paura di perdita di diritti e benefici con un appiattimento del livello di benessere, è proprio questione di poco l’impedimento di godere anche minimamente di ciò che oggi hanno.
Nell’attuale clima sociale, è facile perdere la fiducia nella legge, in chi dovrebbe garantire ordine e sicurezza, nello stato in generale, questo può condurre al farsi “giustizia da sé” come “Il giustiziere della notte” che applica una sua giustizia, ritenendo che chi dovrebbe farlo non ne sia in grado. Una persona più strutturata può essere amareggiata ma non arriva certamente al farsi giustizia da sé: l’arrabbiato sociale, che è potenzialmente un violento non criminale, sì ed è molto facile il passaggio dal fantasticare azioni violente alla messa in atto.
“The war on terror”
Abbiamo tutti paura di usare la parola “guerra” ma, il clima nel quale ci troviamo immersi, ci mette in diretto contatto con un terzo tipo di guerra, contro un nemico non staturale. Si tratta di una “war on terror” nella quale vi è un cambio di paradigmi e che mette a dura prova la nostra resistenza e capacità di reggere a questi attacchi al senso di sicurezza e di libertà. ( Nella “Trilogia del cavaliere oscuro” -2008, 2012-, Batman mostra già la capacità di leggere questo cambio di paradigma che sembra essere sfuggito alla filosofia).
Questo tipo di guerra costituisce un vero e proprio attacco violentissimo all’assetto democratico ed al pluralismo, crea confusione e destabilizzazione a livello sociale e nelle singole persone, tutto questo costituisce un elemento potenzialmente patogeno per tutte le personalità fragili.
Rabbia sociale, pluralismo e democrazia: il well being
Analogamente, gli arrabbiati sociali identificano una situazione deficitaria o destabilizzante per il loro già precario equilibrio e possono arrivare aggregandosi ad altri, a pretendere di applicare soluzioni, a prescindere dal discorso democratico, cioè dal reale riscontro che hanno nella popolazione trascurando la posizione della maggioranza che non riescono a riconoscere e soprattutto a rispettare. Sostituiscono il voto democratico con la presenza in piazza, scambiando una forte opinione minoritaria per la maggioranza che dovrebbe governare; la “manifestazione” diventa così il punto di riferimento principale ed esclusivo. In tal modo il soggetto non solo si può identificare in una dinamica simile a quella del paguro Bernardo ma può sperimentare una situazione psichica nella quale trovare un senso alla vita stessa, questo può farlo diventare iper-motivato e molto attivo.
L’arrabbiato sociale si identifica proprio dal fatto che non è in grado di riconoscere e tanto meno rispettare la maggioranza democratica e, in taluni casi, può essere facilmente cooptato da menti ed organizzazioni criminali perché queste persone possono diventare facili prede di gruppi strutturati, sovversivi e terroristici.
Il vero spirito democratico deve avere in sé il pluralismo che consente di poter pensare che vi sia verità e giustizia anche nelle altrui idee, l’arrabbiato sociale ha una percezione della realtà politica e sociale distorta perché non può riconoscere che vi possa essere qualcosa di giusto nell’altro: questo modo di interpretare la realtà si riversa molto facilmente in ambito politico, facendo degli altri avversari con i quali ritiene sia inutile comunicare e discutere. Non esiste dialogo e non esistono toni intermedi perché non può riconoscere che i dati sono diversi da quelli da lui percepiti: i numeri della piazza sono nettamente inferiori a quelli statistici del voto ma, distorcendo la realtà, ci si sente meno disadattati, ci si illude di riflettere l’opinione di tutti e purtroppo, man mano, non potendo accedere ad una dimensione di autentica comunicazione e confronto con l’esterno e con l’altro, la tendenza è quella di irrigidirsi, rafforzando sempre più le proprie convinzioni.
In questo modo, il vero e profondo senso democratico viene annullato perché la maggioranza non viene rispettata e perché la democrazia si mette in atto con il riconoscimento di ciò che emerge dalle urne e non dalle piazze o da piccoli gruppi che in realtà possono assumere preoccupanti aspetti sovversivi e rivoluzionari.
Queste persone sono destinate ad essere perennemente insoddisfatte della propria vita, sono sempre a disagio in una realtà che a loro risulta difficile da comprendere e soprattutto da accettare.
Il Well-being, cioè il vero spirito democratico, si raggiunge quando si può pensare che vi sia qualcosa di giusto nell’altro; la rabbia non consente di essere abbastanza lucidi da poter contrastare l’altro con toni accettabili e, soprattutto, non consente oggettività.
L’errore di valutazione della prospettiva umana e sociale porta al fallimento esistenziale di questi individui che facilmente si aggregano, la distruttività insita nel loro modo di percepire la realtà fa da collante fra di loro e quando all’insofferenza si associa una certa dose di violenza criminale la rabbia sociale può sfociare nel terrorismo.
E’ noto come, di fronte a determinati fenomeni sociali e momenti storici, si abbia la netta percezione che basti un cerino per far scoppiare il più terribile degli incendi: per non deludere per l’ennesima volta aspettative e desideri rivendicativi si diventa disponibili alla violenza con la convinzione che soltanto le proprie ragioni siano accettabili e che, al di là di queste, non esista altro e che l’unico mezzo per farle riconoscere sia la violenza.
L’arrabbiato sociale non è malvagio ma é facilmente cooptabile da persone la cui mente è gravemente colonizzata dal male, si tratta di individui che non hanno la possibilità di accedere al pensiero, giacché il male è proprio determinato dall’impossibilità di pensare. Ciò è connesso con la disumanizzazione degli altri e con il poterli distruggere per far valere le proprie idee; è così che si arriva al terrorismo che corrisponde ad una sorta di autorizzazione, solitamente condivisa dal gruppo, a far valere idee impregnate di fanatismo a qualunque costo.
Perché la psicoanalisi si occupa di tutto questo?
La domanda sul perché si formino personalità con questo particolare timbro comportamentale e perché possano manifestarsi nella nostra società, per lo più considerata “civile”, aspetti così violenti, a volte di gravità incommensurabile, riguarda la psicoanalisi perché ciò non coinvolge soltanto la cosiddetta “società” ma anche le singole persone.
Questi soggetti, nella pratica clinica, mettono lo psicoanalista in contatto con un’affettività strana che non è né di stampo nevrotico né di origine psicotica che, già nel 1942, Helene Deutsch aveva descritto come personalità “come se”. Questo concetto assunse, nel pensiero psicoanalitico, un ruolo di rilievo e contribuì alla concettualizzazione della patologia Borderline.
Ma non è soltanto nella patologia Borderline che possono originarsi stati mentali che conducano alla rabbia sociale: anche nel disturbo di personalità e nel disturbo narcisistico di personalità vi sono in nuce i presupposti per dare origine a qualcosa che “esula” dal pensiero così come lo si intende in psicoanalisi e che mette in collegamento con qualcosa che manca al contatto emotivo vero e proprio, che è privo di genuinità ma che può apparire come “normale” ad un occhio non abbastanza attento. Si tratta di un impalpabile senso di “qualcosa che non funziona completamente” sul piano contro-transferale, con aspetti vicini alla depersonalizzazione.
Sono persone difficili da prendere in carico perché abitate da un malessere continuo, un tormento al quale sono avvezzi e, soventemente, la sfiducia della quale sono permeati, impedisce loro di farsi curare: si tratta di organizzazioni psichiche refrattarie al cambiamento e al dare forma a qualcosa che sia veramente coinvolgente e profondo. Peggiorativa in tal senso è una struttura che presenta ed ha subito gravi danni alla fiducia di base per cui è molto arduo per loro affidarsi all’altro. L’indugiare nel rimuginamento distruttivo completa l’opera. Quando è possibile impostare un piano di cura, si tratta di percorsi molto lunghi nei quali non è facilmente realizzabile un autentico restauro degli oggetti interni ma, ad un certo punto della cura, è invece possibile il mantenimento di un certo grado di sollievo e quindi l’accesso ad una vita interna sopportabile, ciò avviene attraverso aa relazione costante con una mente che accoglie ed è in grado di riparare e contenere la distruttività. Sono pazienti molto difficili e faticosi per il continuo dover riportare al punto focale che consiste nel non consentire che tutto sia permeato da un’aura distruttiva.
Il vuoto o meglio, il senso di vuoto, intrinseco di questi tipi di personalità che sono abitate da frustrazione e quindi rabbia, può essere occupato da forze maligne e gravemente distruttive che si esplicano al di fuori di sé tramite l’adesione al poter proiettare massicciamente il disagio su elementi generalizzati che consentono l’evitamento di un contatto vero e proprio con i problemi e quindi con il pensiero. Il danno maggiore consiste nel palese e costante senso di frustrazione con l’abbruttimento della persona che presenta deviazioni dal pensiero vero e proprio; questo può condurre a stati mentali che possono generare solo una sorta di proto-pensiero carico di distruttività.
Questi tipi di persona possono facilmente aggregarsi cercando nel gruppo una soluzione al loro disagio ed all’ansia di riempire il vuoto interiore.
L’esclusione da uno stato di benessere, che può essere percepito da lontano, genera un’invidia che porta alla necessità di annientare l’altro e spesso ciò avviene con la sua disumanizzazione, che altro non è che la proiezione del vissuto – spesso, ma non sempre – primordiale e profondo esperito direttamente su di sé: il misconoscimento dell’altro come essere umano, ridotto ad oggetto e che raccoglie dentro di sé tutte le proiezioni del “male” e che va quindi eliminato. Quel determinato “altro” non è simile a me, va annientato, cancellato per non dover/poter entrare in contatto con elementi psichici che, in mancanza della possibilità di essere curati, diventano destrutturanti e insopportabilmente dolorosi. ***
La potenza del gruppo, in queste situazioni, mostra la sua straordinaria forza perché, a fronte di alcuni individui che fanno del male per cercare una soluzione dei loro problemi, altri hanno bisogno di aggregarsi per trovare una via di uscita. In altre parole, partono danneggiati e si danneggiano ulteriormente strada facendo. L’attrattiva è costituita proprio dal pervertimento del pensiero: cerco una soluzione, proiettando fuori da me il mio non essere stato accudito e trattato come essere umano, il mio essermi sentito un oggetto e non un bambino. Gli altri sono oggetti, disumanizzati e quindi facilmente annientabili.
Conclusioni
Da qualche tempo, il tema della rabbia è tornato prepotentemente d’attualità, nelle manifestazioni di piazza, nella riflessione dei filosofi e per la “war on terror” che di fatto ci coinvolge quotidianamente e che ha messo in discussione profondamente ed inesorabilmente la “narrazione salvifica del contratto sociale”. Lo stress è diventato per molte persone, già di per sé “delicate” e fragili, disgregante e destabilizzante rispetto alla sicurezza insita nel pluralismo e nella democrazia, mentre un comune denominatore aggregante può essere lo stato d’animo e non l’ideologia o la credenza politica e/o religiosa.
L’indignazione, l’invidia, la presunzione e, ovviamente, anche la rabbia, possono essere fattori aggreganti del gruppo che possono, a loro volta, condurre all’esplosione attraverso atti di ribellione palese e di violenza lontanissimi da un’inquietudine che può determinare una qualità del pensiero che preveda invece l’accesso alla “preoccupazione” che può talvolta tramutarsi in collaborazione e dare accesso alla riparazione.
(La rabbia – sostengono gli psicoanalisti, che lavorano per lo più sul livello individuale – è un fattore narcisistico.)
Il contributo che in questo ambito può dare lo psicoanalista è complesso, dal momento che ritiene il narcisismo non affatto colpevole in toto dello scatenamento rabbioso. L’aggressività umana può diventare pericolosa quando si connette a due «costellazioni psicologiche assolutizzanti: il Sé grandioso e l’oggetto arcaico onnipotente». La più orribile distruttività umana non s’incontra sotto forma di comportamenti selvaggi, regressivi o primitivi, ma come «attività ordinate e organizzate nelle quali la distruttività umana degli esecutori è amalgamata con la convinzione assoluta circa la grandezza e con la devozione a figure arcaiche onnipotenti». Qui è forse utile citare il caso di Himmler e dei quadri delle SS, una tesi che richiama inevitabilmente quella della Arendt sulla «banalità del male»: i carnefici sono i pacifici vicini della porta accanto, non selvaggi che urlano, sbraitano e compiono atti teppistici. Probabile. Ma resta il problema della rabbia, della sua natura e funzione (Heinz Kohut – “La ricerca del sé”, Bollati Boringhieri).
Kohut non nega che la rabbia narcisistica appartenga all’ampia zona dell’aggressività, della collera e distruttività umana ma, dice, è un fenomeno circoscritto.
Inevitabilmente, tutto ciò conduce a quello con cui tutti noi dobbiamo fare i conti: la shoah che rappresenta un punto di storica rottura dell’immagine collettiva dell’uomo perché, ciò che è avvenuto nei campi di concentramento, ha acquisito un potenziale simbolico di portata mondiale che ha demolito l’uomo per come filosoficamente e psicologicamente era vissuto fino a quel momento. Questo fa di Auschwitz una pietra miliare nella nostra storia psicologica e nell’inconscio collettivo ed assume quindi una posizione antropologica fondamentale.
Cosa è successo?
Un capovolgimento tale per cui, quel determinato “altro” non è simile a me, va annientato, cancellato per non dover /poter entrare in contatto con elementi psichici destrutturanti e insopportabilmente dolorosi.