Dossier
Gherardo Ugolini. Il presente e la conoscenza del passato. Una relazione in pericolo
12/10/17
Gherardo Ugolini – è Professore Associato di Filologia Classica presso l’Università di Verona, dove insegna Filologia classica, Storia della tradizione classica e Storia del teatro greco e latino. Dopo gli studi all’università di Pavia ha conseguito il dottorato di ricerca in Filologia Classica all’Università di Monaco di Baviera e il dottorato di ricerca in Scienze Storiche presso la Scuola Superiore di Studi Storici dell’Università di San Marino. È stato docente all’università di Heidelberg (1993-1999) e alla Humboldt-Universität di Berlino (1999-2008). Nel 2008 è rientrato in Italia tramite il programma “Incentivazione alla mobilità di studiosi stranieri e italiani all’estero” (cosiddetto programma “rientro cervelli”). è membro della redazione di Skenè. Journal of Theatre and Drama Studies.
I suoi interessi scientifici riguardano in modo particolare i seguenti campi: la tragedia greca antica e le sue interpretazioni, il giovane Nietzsche studioso della cultura greca, la fortuna dell’antico nella tradizione letteraria moderna, la storia degli studi classici.
Ha pubblicato tra l’altro le seguenti monografie: Untersuchungen zur Figur des Sehers Teiresias (Tübingen, Gunter Narr Verlag, 1995), Sofocle e Atene (Roma, Carocci, 2000), Guida alla lettura della “Nascita della tragedia” di Nietzsche (Roma-Bari, Laterza, 2007), Jacob Bernays e l’interpretazione medica della catarsi tragica (Verona, Cierre Grafica, 2012). Ha curato il volume miscellaneo Die Kraft der Vergangenheit. Mythos und Realität der klassischen Kultur (Hildesheim, Olms, 2005) e il numero speciale della rivista Skenè. Journal of Theatre and Drama Studies (2.1, 2016), sul tema Catharsis, Ancient and Modern. Il volume che ha curato insieme con Diego Lanza, Storia della filologia classica (Roma, Carocci, 2016), ha conseguito il Premio Nazionale Editoria Accademica, edizione 2016.
Pagina personale presso Università di Verona, Dipartimento di Culture e Civiltà
Tra le “relazioni pericolose” che il nuovo mondo delle moderne tecnologie informatiche sta determinando un posto non irrilevante va assegnato alla relazione tra il presente e il passato. Come si riconfigura tra i Millennials la conoscenza della storia rispetto a quanto avveniva nelle generazioni precedenti? In un’epoca in cui tutti siamo costantemente collegati al web, avviluppati in una rete di rapporti virtuali dove pare contare solo l’hic et nunc, l’unica dimensione del tempo che importa sperimentare è quella del presente. Un presente continuato e totale dentro cui si sfumano i confini delle altre temporalità. Un presente onnicomprensivo che ci “assedia” per usare la metafora che dà il titolo ad un bel volume di Claudio Giunta, uscito qualche anno fa ma rimasto assolutamente attuale nelle riflessioni e nei dubbi che propone.
Più che una “relazione pericolosa”, quella tra presente e passato mi sembra si possa definire come una “relazione in pericolo”. La pervasiva diffusione, la precoce familiarità, l’utilizzo massiccio delle tecnologie e dei media digitali, come anche le forme di comunicazione che tali strumenti comportano e la loro progressiva penetrazione nei sistemi educativi, producono nelle più giovani generazioni una percezione del tempo differente da quella che si acquisiva una volta. È come se si fosse imposta la sensazione di vivere in un eterno presente, per il quale ciò che è accaduto in passato – dunque la storia – è poco rilevante o tutt’al più preparatorio a confermare le certezze del presente. Quindi il sapere sul passato – lo studio della storia – è recepito come qualcosa che di per sé risulta poco utile, o per lo meno su cui non vale la pena investire energie e fatica.
Per chiunque abbia esperienza di aule scolastiche (ma il discorso vale oramai anche per quelle universitarie) è assodata la carenza di senso storico tra gli studenti con una sistematica difficoltà a ordinare nella scala del tempo eventi e personaggi storici. Mi è capitato recentemente di confrontarmi con liceali quindicenni dotati di sicura intelligenza e con un ottimo rendimento scolastico. La loro conoscenza degli eventi storici era tutt’altro che superficiale, almeno per le epoche o i personaggi che avevano studiato o su cui avevano preparato delle ricerche specifiche. Avevano memorizzato episodi, aneddoti o frasi celebri, ma non riuscivano a disporre i fatti su una sequenza temporale neppure sommaria. Sapevano chi erano stati Alessandro Magno e Giulio Cesare, sapevano definire in termini più che soddisfacenti le loro imprese, ma erano incerti su chi fosse vissuto prima e chi dopo. E la distanza temporale che separa Augusto da Napoleone e quest’ultimo da Hitler era qualcosa di nebuloso: tutto appartiene ad un vago passato, la cui conoscenza in fondo importa solo per le implicazioni che ha nel presente.
Certo, grazie alle tecnologie informatiche oggigiorno l’accesso alle fonti e agli strumenti del sapere è a disposizione di tutti, come mai era avvenuto prima. Questo è un vantaggio indiscutibile. Ma la disponibilità di una rete pressoché infinita di informazioni non costituisce di per sé un’opportunità positiva rispetto alla fatica e alla lentezza con cui solitamente procede l’accumulo dei dati e la loro interpretazione nel campo dello studio e della ricerca. L’accesso agevole e l’afflusso incontrollato delle informazioni, la loro rapida modificazione o sostituzione con altre, finisce con il ridurre la vita a un eterno presente senza memoria. Un presente percepito come l’unica epoca con cui sia utile confrontarsi. Un presente in cui predomina un sapere superficiale senza approfondimenti e senza prospettive. Un presente in cui la disponibilità ipertrofica delle banche dati fanno apparire obsoleto il concetto di apprendimento graduale su cui si è fondata l’istruzione scolastica per secoli.
Pur senza ricorrere a toni apocalittici è necessario sottolineare come le nuove tecnologie informatiche e i loro relativi strumenti siano divenuti i pilastri su cui poggia non solo l’acceso all’informazione, ma anche l’educazione e la formazione culturale di molti ragazzi sostituendo in larga misura la famiglia e la scuola, per non dire le biblioteche. Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale con alcune conseguenze che potrebbero risultare deleterie se non arginate per tempo. La più eclatante di esse è la verticale caduta del principio di autorità basato su preparazione, esperienza e competenza. È largamente diffusa l’illusione che con l’assistenza degli strumenti elettronici sia possibile conseguire un’istruzione diretta, più efficace e completa (oltre che, ovviamente, più dilettevole) rinunciando in parte o in toto alla mediazione dei docenti in carne e ossa.
Al tema della (perdita della) conoscenza del passato si abbina indissolubilmente quello della verità e del suo statuto epistemologico. Cosa significa oggi appurare la veridicità di un’informazione e di un fatto? Chi ne dà garanzia? È evidente che si è perduta la nozione di assolutezza del vero, un fenomeno che d’altro canto è in corso da secoli, e di per sé non è detto che sia un male. «Esistono solo interpretazioni e non fatti» diceva già Nietzsche infierendo a colpi di martello sugli edifici apparentemente ancora solidi della tradizione del pensiero occidentale. Ma una volta che questi edifici – quello morale, quello religioso, quello politico, quello scientifico etc. – sono stati abbattuti, cosa ci resta? Che qualunque affermazione vale l’altra, senza un criterio di giudizio che determini per lo meno delle gerarchie di credibilità. Un nativo digitale oggigiorno fa fatica ad orientarsi nella marea di informazioni che circolano in rete e spesso non ha i mezzi intellettuali per distinguere le fake news dal vero o dal verosimile. Se questo diventerà un habitus mentale persistente si corre il rischio di un rapporto sempre più distorto con la storia. Non avremo più dei paradigmi stabili di ricostruzione del passato che ne orientino la comprensione (paradigmi legati per esempio alle narrazioni nazionali). La società globalizzata potrebbe esigere un’unica grande storia globale valida per tutti, una storia ovviamente molto semplificata e superficiale, in cui i secoli passati saranno presentati come premessa logica del presente, con il rischio di un’omologazione di massa sempre più accentuata. È difficile avanzare previsioni su questo terreno, ma in tutti i casi credo sia bene premunirsi sul piano etico e intellettuale.
Se quanto ho scritto è vero, mi pongo un’ulteriore domanda che investe la mia professione di filologo classico, dunque di studioso e insegnante della civiltà greca e romana antica: quale ruolo può avere questo sapere antichistico nel mondo presente e prossimo? Che fine farà la cultura umanistica che per secoli ha costituito la solida base per la paideia culturale delle élite europee? Mi pare manifesto che la diffusione delle nuove tecnologie emarginando e sminuendo ogni prospettiva storicistica contribuirà progressivamente ad accantonare la tradizionale educazione umanistica lasciandole tutt’al più uno spazio marginale di nicchia, ma sicuramente annullandone la tradizionale funzione di coesione etica e di progresso intellettuale.
Un tale esito, di cui taluni scorgono già segnali tangibili nel calo di iscritti ai licei classici e nella progressiva riduzione del latino e del greco negli istituti d’istruzione secondaria, sarebbe funesto soprattutto per una nazione come l’Italia, notoriamente detentrice di un numero impressionante di siti culturali (dati UNESCO), che sono in gran parte testimonianze della civiltà classica (romana ovviamente, ma anche greca: si pensi ad Agrigento, Selinunte, Paestum), medievale e rinascimentale. Cancellare o marginalizzare fortemente lo studio delle civiltà antiche significa rinunciare a prendersi cura di un vastissimo e invidiato patrimonio che per secoli ha costituito un serbatoio di conoscenze su cui sono fiorite tradizioni letterarie, filosofiche e poetiche.
Eppure proprio lo studio del monto antico, delle sue lingue, letterature e culture, potrebbe fungere da adeguato contrappeso al rischio di superficialità e disorientamento che la cultura sta correndo in seguito alla diffusione di massa delle tecnologie informatiche. Non si tratta certo di riproporre il vecchio modello ottocentesco humboldtiano secondo il quale lo studio dei Greci e dei Romani era il perno della «formazione generale» (Allgemeine Bildung), utile e necessaria per la creazione di cittadini responsabili, consapevoli e indipendenti, in opposizione alla formazione di tipo specialistico e professionalizzante. Neppure è il caso di insistere sullo studio dell’antichità classica concepito come archivio di modelli paradigmatici e di valore sempiterno a cui attingere per cercarvi e trovarvi punti di riferimento rassicuranti, ideali perfettamente realizzati, o anche analogie e simmetrie consolanti. Non è affatto produttivo voler rintracciare a tutti i costi nella Grecia antica o nella Roma repubblicana o imperiale gli antecedenti delle nostre forme di vita sociale, culturale e politica. Tale prospettiva classicistica, mai del tutto tramontata, assegna alla cultura greco-romana un’aura di sacralità, di esclusività, di elitarismo che non ha motivo di essere. Si fa un torto agli autori classici se li si legge per desumere degli ideali astrattamente estetizzanti o canoni di educazione morale-spirituale, se li si adoperano strumentalmente gli autori antichi come auctoritates per convalidare questa o quella opinione.
Lo studio del mondo classico può avere una funzione civile ed educativa se lo si affronta seconda una prospettiva storica, accettando le molte contraddittorietà che l’antichità esprime al suo interno. In un recente pamphlet intitolato Gli antichi ci riguardano, Luciano Canfora elenca alcune tematiche attualissime, per le quali nel mondo antico non è possibile trovare un valore unico, ma varie interpretazioni in conflitto tra loro: per esempio la questione della cittadinanza, considerata così diversamente nell’Atene del V secolo, a Sparta o nella Roma imperiale. Ma anche quella del rapporto libertà/schiavitù, della legittimità delle norme giuridiche, etc.: tutte questioni su cui nel mondo antico non esisteva una visione univoca, bensì varie concezioni e interpretazioni in contrasto tra loro.
Il paradigma corretto su cui impostare lo studio della cultura classica, anche al fine di conservarne la funzione civilizzatrice e di renderlo attrattivo e perfino utile per un’epoca che tende a cancellare il passato, è quello che punta a sottolineare la tensione costante tra aspetti di affinità e continuità tra i moderni e gli antichi da un lato e aspetti di alterità e discontinuità dall’altro. Gli antichi sono vicini e simili ai moderni, tanto quanto sono lontani e differenti. Naturalmente l’utilità della formazione classica non è qualcosa che si possa misurare in termini quantitativi e di spendibilità immediata. È un’utilità lenta e profonda. «Il latino non si studia per imparare a parlare in latino […], ma per abituare i fanciulli a studiare in un determinato modo, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere che continuamente si ricompone in vita, per abituarli a ragionare, ad astrarre schematicamente pur essendo capaci dall’astrazione a ricalarsi nella vita reale immediata, per vedere in ogni fatto o dato ciò che ha di generale e ciò che di particolare, il concetto e l’individuo», scriveva Antonio Gramsci cogliendo un elemento essenziale della questione. Più precisamente va detto che lo studio delle lingue classiche, per l’approccio peculiare che esso richiede, serve a sviluppare l’attitudine all’analisi dei testi, alla valutazione del loro significato, alla verifica dei dati concreti: in altre parole produce uno sguardo critico e “tridimensionale” sulla realtà, attento anche alla profondità storica. Uno sguardo che risulta quanto mai indispensabile per muoversi nella complessità del mondo odierno senza farsi travolgere e necessario soprattutto per la generazione dei nativi digitali, esposti al rischio di essere travolti dalla massa dei dati reperibili in rete.