Dossier
Federico Ferrazza. Giornalismo e tecnologia
12/10/17
Federico Ferrazza – Direttore di Wired Italia. In precedenza ha fondato la media company Galileo Servizi Editoriali, azienda che si occupa di produzione e sviluppo di contenuti scientifici e di consulenza strategica nel campo della comunicazione. Ha scritto di scienza e tecnologia per diverse testate, tra cui Repubblica, Il Sole 24 Ore e L’Espresso. Ha insegnato Nuovi Media e Giornalismo Online presso l’Università La Sapienza e l’Università Tor Vergata di Roma.
Da sempre il giornalismo – come tutti i settori della società e dell’economia – ha avuto un rapporto intenso con la tecnologia. Dalle frequenti innovazioni nella stampa al fax, fino alle macchine da scrivere sempre più piccole e leggere, il lavoro del giornalista ha subito nel corso del secolo passato continui cambiamenti, in molti casi radicali. Ma per il lettore le cose sono rimaste più o meno sempre le stesse: si andava in edicola o si accendevano radio e tv e si acquistavano o si raggiungevano informazioni.
L’avvento di internet e in particolare del web – nel 1992 – ha cambiato (quasi) tutto. E questa volta anche per il lettore. Dico “quasi” perché la rete, da sola, non ha modificato la modalità pull della distribuzione delle notizie: anche dopo il 1992 era l’utente a dover cercare un’informazione, proprio come quando si va in edicola o si accende la tv.
È lo smartphone che ha cambiato definitivamente tutto. Un oggetto sempre connesso a internet, sempre con noi, in pratica una protesi del corpo umano che ci ha trasformato in cyborg con capacità mnemoniche, intellettuali e di calcolo molto superiori a quelle forniteci da Madre Natura. La data di inizio di questa rivoluzione è il 9 gennaio del 2007, quando il fondatore della Apple – Steve Jobs, morto nel 2011 – presentò a tutto il mondo l’iPhone, il dispositivo che associato alle app del suo ecosistema (successivamente copiato dai suoi competitor) e ai social media più rilevanti (Facebook in testa) fa sì che ogni giorno, ogni ora, ogni minuto tutti noi veniamo travolti da migliaia di informazioni che spesso facciamo fatica a catalogare.
Qual è dunque il ruolo di chi fa giornalismo in questo ambiente? Per rispondere è utile ricordare un giochino per bambini presente in molte pubblicazioni di enigmistica: “Unisci i puntini”; credo che quella sia una buona immagine per descrivere la funzione del giornalismo oggi.
Nel nostro caso i puntini sono le informazioni, le notizie. E il compito del giornalista è quello di dare delle chiavi di interpretazione per un mondo che sta cambiando a grandissima velocità.
Non c’è dunque tanto il bisogno di aumentare il numero di puntini, di far crescere la confusione. Ma c’è la necessità di tracciare delle linee, per collegare i fatti e dare loro un senso, e stabilire delle relazioni di causa-effetto, quando ci sono.
Come si uniscono i puntini? In tre modi. Il primo è spiegando, spiegando, spiegando. Spiegare sempre e tutto, non dando mai nulla per scontato, è un buon modo per tutelare i lettori. Viviamo un’epoca in cui attenzione e tempo sono rimaste tra le poche risorse scarse e non è detto che tutti siano sempre informati, ricordino o sappiano tutto. Per intenderci, quindi: sui giornali Trump non è Trump, ma il presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump.
Il secondo modo per unire i puntini è porsi le giuste domande. Un caso. Alla fine del 2014 si parlò in Italia di una fantomatica epidemia da vaccino. I fatti: alcune persone avevano perso la vita dopo essere state vaccinate. Sulla stampa partì una campagna mediatica aggressiva con titoli di prima pagina del tipo: “Iniezione letale”. Come andò a finire? Che il vaccino non c’entrava nulla. Le “vittime” erano tutte ultraottantenni, già malate e che sarebbero passate a miglior vita anche senza quel vaccino. In quel caso i giornali non si posero le giuste domande, ma stabilirono una inesistente relazione di causa effetto.
Il terzo modo per unire i puntini è aspettare non avere fretta per trarre delle conclusioni. A volte, infatti, quando i giornalisti iniziano a raccontare un fatto non hanno tutti gli elementi a disposizione. Un esempio: l’11 aprile 2017 il pullman di una squadra di calcio tedesca, il Borussia Dortmund, fu assalito con una bomba da un attentatore. Per fortuna non ci furono vittime. Ma immediatamente dopo l’attacco, si parlò di moventi terroristici, del coinvolgimento dell’Isis, senza nessun fondamento. Qualche giorno più tardi si scoprì che l’attentatore aveva un interesse economico a far perdere il valore delle azioni in borsa del Borussia Dortmund.
È in questo scenario che abbiamo fatto evolvere Wired, un mensile nato nel 1993 negli Stati Uniti e arrivato in Italia nel 2009. Uno scenario caratterizzato da un particolare non trascurabile. Negli ultimi anni l’industria del giornalismo ha conosciuto la più grande trasformazione di business della sua storia. L’avvento del web ha portato le notizie da informazioni “a pagamento” a “gratuite”. La ragione è nel momento storico in cui tutto questo è accaduto: gli anni Novanta, cioè la fase di massima espansione della tv commerciale, free per i fruitori e sostenuta economicamente dagli investitori pubblicitari. Si è pensato quindi di replicare lo stesso modello per l’informazione online.
Questo mix (modifica del modello di business e rivoluzione tecnologica) ha generato Wired Italia, com’è ora. Il brand o testata (non ha senso più parlare solo di giornale) si basa su tre pilastri. Il primo – e centrale – è il digitale. Wired.it raggiunge ogni mese, anche grazie ai social, circa 5 milioni di utenti ed è il primo punto di contatto con la nostra comunità di lettori. Una forte presenza online ci ha consentito di sviluppare anche molte delle attività offline. Prima fra tutte il Wired Next Fest – giunto nel 2017 alla sua quinta edizione – il festival dell’innovazione che organizziamo nell’ultimo weekend di maggio a Milano (e dal 2016 a Firenze a settembre) e che ogni anno coinvolge oltre 100mila partecipanti. E poi c’è il terzo pilastro: il giornale di carta, quello che più di tutti svolge il ruolo di unire i puntini. Dalla fine del 2015 lo abbiamo radicalmente cambiato: non più un periodico tradizionale, ma una combinazione tra un libro (con carta più spessa, una suddivisione in capitoli e solamente pochi – al massimo 20 – articoli lunghi) e un giornale. Un prodotto pensato per essere complementare con l’offerta informativa digitale (quantitativamente inutile da imitare su carta) e non concorrente.
Su tutte e tre le parti della piattaforma di Wired Italia il target è molto ampio, fortunatamente certificato anche dai numeri visti i 5 milioni di utenti mensili che visitano il nostro sito. Cinque anni fa non arrivavamo a un milione. Il motivo di questa crescita è nell’allargamento dei temi che trattiamo. Prima ci occupavamo solamente di tecnologia, come la si intende di solito sui giornali: digitale, internet, smartphone, startup, robotica e così via. Oggi non siamo più un brand che si occupa di tecnologia, ma di innovazione. E l’innovazione è in ogni settore della società: dalla politica alla salute, dai media ai consumi (culturali), fino all’ambiente o all’economia. Anche per questo la quota femminile dei nostri utenti è fortemente cresciuta, non scrivendo più solo di temi che tradizionalmente interessano di più gli uomini.
Questo è al momento il nostro equilibrio. Durerà per molto? Non credo. Già oggi stiamo lavorando a far evolvere Wired. Non parlo di evoluzione a caso. Ci sono infatti delle similitudini con quello che avviene in biologia. La principale è che il cambiamento è dettato da agenti esterni, ambientali: la rivoluzione tecnologica e i conseguenti nuovi stili di vita. Non siamo quindi noi (editori e giornalisti) a governare il cambiamento, ma quello che possiamo fare è interpretarlo, non affidando ai produttori di tecnologia (Apple, Google, Facebook e così via) la responsabilità di trovare una via sostenibile al giornalismo del XXI secolo.
Di nuove tecnologie ce ne saranno sempre. Già oggi, per esempio, l’intelligenza artificiale è un’alleata del giornalismo: ci sono bot (cioè software) che scrivono articoli pubblicati anche sui giornali italiani, soprattutto in finanza e nello sport dove i numeri sono una parte significativa del racconto.
Il compito di chi lavora in questa industria – che svolge anche un importante ruolo sociale di informare i cittadini e quindi di contribuire allo sviluppo o al mantenimento della democrazia – sarà quello di adattarsi ai continui cambiamenti che avremo nei prossimi anni. Non sarà facile. Ma non ci sono alternative.