Dossier
Si può essere disperati senza essere depressi
25/04/13
Mario Rossi Monti
Qualche anno fa i giornali pubblicavano la notizia che Stéphanie, 32 anni, dipendente di France Telecom, prima di uccidersi aveva inviato questa e-mail al padre: «il mio capo non lo sa, ovviamente, ma sarò la ventitreesima dipendente a suicidarsi. Non accetto la nuova riorganizzazione del servizio. Preferisco morire. Lascio in ufficio la borsa con le chiavi e il telefonino. Porto con me la mia carta di donatrice di organi, non si sa mai. Non dimenticare di passare a casa mia per recuperare Zébulon e Frimousse [il coniglio e il gatto] e dargli da mangiare. Mi dispiace che tu riceva un messaggio di questo genere, ma sono più che persa. Ti voglio bene, papà» (La Repubblica, 1.10.2009). Una brutale riorganizzazione del lavoro veniva messa in relazione con l’ondata di morti per suicidio in quella che era stata soprannominata la “fabbrica dei suicidi” (45 suicidi tra il 2008 e i primi mesi del 2010). Il 26 settembre 2011 il Giornale titolava: “Cina, altro suicidio nella fabbrica degli iPhone: sono 13 i dipendenti che si sono tolti la vita”. I lavoratori lamentavano condizioni di lavoro durissime. Una vignetta ironizzava sul fatto: quella era una fabbrica di iQuit più che di iPhone. Di lavoro, dunque, si muore. In tanti modi. Anche per suicidio. Per riorganizzazioni che non vanno tanto per il sottile, per condizioni di lavoro troppo pesanti, ma anche ovviamente perché si perde il lavoro o perché la propria azienda fallisce e ci si ritrova sul lastrico. In Italia ormai da troppi mesi i giornali riportano nelle cronache locali o, sempre più spesso, in cronaca nazionale notizie di persone che si danno volontariamente la morte per motivi legati al lavoro. Condotte suicidarie che sembrano avere trovato nella crisi economica, nella perdita del lavoro, nel fallimento della propria impresa, l’elemento che fa da detonatore di una crisi senza via di uscita.
Ma come viene trattato questo fenomeno sui giornali o dai media in genere? In un modo che ricorda l’enorme distesa di fotografie esposte nel Sacrario dedicato ai caduti della Resistenza in piazza Nettuno a Bologna. Una enorme distesa di piccole fotografie. Un nome dopo l’altro. Un volto dopo l’altro. Una morte dopo l’altra. Tutte storie accomunate da una stessa tragica fine. Allo stesso modo la sequenza di nomi o di volti che inseguiamo sui giornali parla dei caduti di un’altra guerra. Ma in questa inarrestabile sequenza di nomi inseguiamo la comprensione di un enigma che il suicidio porta sempre con sé. Un dramma che accompagna la vita di qualsiasi comunità umana senza ricevere mai una attenzione adeguata. In anni non lontani i giornali ci parlavano del dramma dell’AIDS: davano spesso notizia della morte per AIDS di qualche celebrità. Ma pubblicavano anche articoli dedicati al problema dell’AIDS nel suo complesso. Questo non sembra accadere nel caso del suicidio. Si enumerano le vittime, ma il problema globale del suicidio viene raramente messo a fuoco e si frammenta nell’elenco delle singole vicende, nella inarrestabile catena di coloro che si danno la morte. Del suicidio si parla, per così dire, uno a uno. O al più se ne parla quando un certo numero di suicidi si addensa sotto un ombrello esplicativo facilmente identificabile e in qualche modo immediatamente comprensibile nelle sue determinanti: crisi economica, dramma della disoccupazione, fallimento.
E invece il suicidio è un fenomeno sociale sommerso che ci accompagna da sempre e che ogni tanto balza agli onori della cronaca. Un grafico di qualche decina di anni fa dà la misura del problema. Il grafico mostra la distribuzione della mortalità in soggetti di sesso maschile di età pari o inferiore a 35 anni negli Stati Uniti da ascriversi a tre diverse cause: guerra del Vietnam, AIDS, suicidio. I picchi di mortalità che riguardano la guerra del Vietnam svettano sopra tutto gli altri. Ma si distribuiscono in un arco temporale ristretto. I picchi di mortalità legati all’AIDS sono meno elevati e si distribuiscono tra il 1987 e il 1996. Sullo sfondo di queste due figure si staglia una specie di marea montante che si distribuisce lungo tutto l’arco temporale preso in considerazione dallo studio (1954-1996).
Da cosa dipende questa rimozione globale? Una difesa dal conoscere un fenomeno inquietante che ci riguarda tutti? Il bisogno di ricondurre il problema del suicidio al singolo suicidio e magari anche a una specifica determinante che dovrebbe spiegare quel comportamento? La tentazione di ridurre la complessità del fenomeno ad un unico fattore sembra inarrestabile. Più questo fattore è estraneo e lontano dalla nostra vita “normale”, tanto meglio è. Il primo obiettivo da raggiungere quando si parla di suicidio sembra essere quello di frapporre qualcosa tra noi e il suicidio: che si chiami malattia mentale, depressione, crisi economica, disoccupazione, da questo punto di vista, poco importa.
In realtà sulla testa di ciascuno si addensa una nuvola di variabili che l’epidemiologia riconosce come importanti fattori di rischio. Molti di queste svolgono un ruolo “facilitante” la via del suicidio. Alcune sono variabili anagrafiche (età, sesso, stato civile, etc.), altre sono variabili fluttuanti e mutevoli, legate alla condizione psicopatologica o alle condizioni ambientali in genere. Da questo punto di vista le nostre vite sono come il piatto di una bilancia in equilibrio instabile. Qualche volta anche un piccolo smottamento, in una condizione di equilibrio precario, può causare importanti conseguenze. Per esempio è noto che il facile accesso a un mezzo mediante il quale procurarsi la morte (come le armi) svolge un potente ruolo facilitatore. Ogni intervento che tenda a rendere meno diretto il passaggio da una spinta suicidaria ad un atto suicidario interpone un frammento di tempo utile a ripensare la propria condizione, a sviluppare un’altra possibile prospettiva o anche semplicemente a esporsi al ruolo che il caso e la fatalità giocano nella vita di tutti noi. Alcune variabili tuttavia sono più pesanti di altre, interessano una fascia più ampia di persone e sono capaci di ribaltare la bilancia. La crisi economica, con la disoccupazione e i fallimenti che comporta, gioca un ruolo di questo tipo, soprattutto quando la crisi è di proporzioni ingravescenti e durature, come oggi accade. E’ come se su questa delicata bilancia, che incombe sulla testa di ciascuno di noi, Brenno calasse la sua spada. Il Corriere della Sera di domenica 7 aprile racconta, tra le altre, la storia di Franco: “ero disperato. Avevo tutto e mi sono ritrovato in breve senza nulla. Nessuno mi dava più ascolto. Una caduta continua: il crollo delle vendite, meno 40% in un anno…. Tutta la mia esperienza valeva zero. Ero rimasto solo”.
La psichiatria ricorre con sistematicità alla categoria della depressione (Depressione Maggiore) per dare conto di questi fenomeni. Oltre il 90% dei suicidi, si legge nella letteratura medico psichiatrica, si verificano in persone che presentano una forma di disturbo mentale in atto. Ma cosa vuol dire poi essere “depressi” quando nella vita irrompono realtà devastanti come quelle di cui ci parla Franco? Daniel Echols ha passato 18 anni nel braccio della morte accusato di un omicidio che non aveva commesso. In “Il buio dietro di me” (Einaudi, Torino, 2013) racconta la sua odissea e anche il suo contatto con le categorie della psichiatria: “poi c’era la visita settimanale dalla psichiatra. Ci sedevamo sui divanetti e aspettavamo nervosamente che la dottoressa ci chiamasse nel suo studio uno alla volta per parlare. Aveva un piccolo ufficio buio e gradevole, pieno di librerie. Era il medico responsabile della tua diagnosi ed era la persona che decideva di quali medicine avevi bisogno. La mia diagnosi fu depressione. Niente meno. La mia vita era un inferno e non mostrava segni di miglioramento, avevo un patrigno che meritava un bel dieci nella scala degli stronzi e avevo passato due o tre settimane in prigione per motivi che ancora non capivo, non sapevo dove tenessero la mia ragazza e al momento mi trovavo rinchiuso in un edificio pieno di sociopatici, schizofrenici e altri sbalestrati assortiti. Ci potete scommettere il culo che ero depresso. Sarei stato più propenso a credere di avere un problema se non fossi stato depresso”.
Si può essere disperati senza essere depressi? Se, come scriveva Sigmund Freud, sapere amare e lavorare sono i fondamenti della nostra salute mentale, la crisi del mondo del lavoro in questi anni espone tutti a gravi sconvolgimenti. Quando interviene qualcosa che incolla molte “variabili” tra loro e le fa precipitare in un corpo solido che si configura come non più assimilabile, la situazione si fa seria. Se è vero, come scriveva Cesare Pavese, che “non manca mai a nessuno una buona ragione per uccidersi” (1938), il problema è che cosa si può fare in quelle situazioni in cui le “buone ragioni” sono più di una.