Dossier
Intervista a Galvano Pizzol: La società liquida il lavoro
25/04/13
D. Dottor Pizzol Lei è sociologo e psicoterapeuta. E’ autore di numerose ricerche, cito l’ultima: “1992 – 2011: come cambiano e come si sentono gli adolescenti bellunesi” ( A cura di Galvano Pizzol e Alvaro Pra Brandoli, Quaderno n. 5 dello Spazio Adolescenti – Giovani). Svolge una ricerca con gli adolescenti della sua Ulss ogni quattro anni: può dirci se è cambiato il loro atteggiamento verso il lavoro in questi anni?
R. Nelle nostre rilevazioni quadriennali abbiamo indagato, attraverso dei questionari, i cambiamenti nei profili dell’immagine di sé di differenti generazioni di ragazze e ragazzi adolescenti. Nel confronto tra i dati della prima ricerca del 1999 e quella del 2011, ci sono degli item che vengano ritenuti maggiormente descrittivi della propria condizione da parte dell’ultima generazione di adolescenti rispetto ai coetanei del 1999. Questi Item, statisticamente significativi (P<0.05), differenziano notevolmente l’aspettativa verso il lavoro degli adolescenti del 2011 rispetto a quelli del 1999. Essi sono: “piuttosto che lavorare, preferirei starmene lì a far niente”, “preferirei essere mantenuto per il resto della mia vita, piuttosto che lavorare”. A questi spesso si aggiungono “la scuola e lo studio hanno per me pochissimo valore”, “ho la sensazione che lavorare sia una responsabilità troppo grossa per me”. Sono affermazioni che gli intervistati nel 2011 segnalano in quanto li descrivono maggiormente rispetto ai coetanei di dodici anni prima. In queste affermazioni la scuola e il lavoro, e con esse le prospettive per il futuro, vengono vissute come condizioni di passività e/o status di dipendenza.
D. Secondo lei dove trovano origine queste considerazioni?
R. Di norma gli adulti, nella relazione con i giovani, rappresentano il lavoro come un valore importante, l’obiettivo da raggiungere, il perché dello studio e dei sacrifici personali. Sembra invece che il lavoro non venga più percepito dai giovani come il catalizzatore delle proprie aspirazioni e degli orientamenti personali. Nel loro immaginario la scuola sembra disgiunta dal lavoro e/o non appare collegata ad esso. Per i maschi l’assenza di un futuro orientato al lavoro fa anche disinvestire, nel presente, nella scuola e nello studio.
D. C’è da chiedersi da dove venga il disvalore del lavoro nella rappresentazione del sé, e a quali fattori si possa imputare questo cambiamento.
R. Non far niente o essere mantenuti, piuttosto che lavorare, avvalora la tesi che oggi ,a differenza di dodici anni fa, il lavoro sia percepito come qualcosa che crea insofferenza; ciò non può essere però inteso come un problema morale, di cultura, di ambiente sociale o, come semplicisticamente potremmo dire, di “società liquida” e di perdita di solidità delle cose: “non ci sono più i valori di una volta. “ Per i giovani del 2011 si tratta sicuramente di una esperienza di vita, di una assimilazione, inconsapevole di uno “script” familiare”.
D. Cosa intende con questa affermazione?
R. Può significare che i giovani, e soprattutto i maschi, vivono in famiglie dove i genitori manifestano un’atmosfera di insofferenza, di insoddisfazione lavorativa. Spesso in consultazione ci capitano situazioni di genitori che manifestano un vissuto di non corrispondenza tra il titolo di studio ottenuto e il lavoro acquisito; viene espresso uno scarto negativo tra i due elementi che produce un vissuto di delusione. Queste ultime generazioni di ragazzi abitano in famiglie dove entrambi i genitori, diversamente dai loro nonni, hanno raggiunto un titolo di studio, con sacrifici e impegno, ma non hanno invece raggiunto altrettanto una posizione lavorativa che essi possano ritenere correlata al titolo acquisito o alle aspettative investite per raggiungerlo.
È plausibile che questi ragazzi vivano in una cultura familiare dove permea uno stato di delusione personale ed i genitori, soprattutto i padri, siano amareggiati per la loro condizione lavorativa e la relativa condizione economica.
L’eventuale stato di delusione nei padri può produrre di disincanto nei figli maschi. Da qui la verosimile difficoltà dei padri nel sostenere i figli identificandoli e rispecchiandoli in una corretta immagine di sé: possono non riuscire, come vorrebbero, a trasferire loro il senso delle capacità personali acquisite, ma anche non riuscire a riconoscere e promuovere quelle necessarie per i figli, al fine del loro adattamento al loro futuro ambiente di vita.
D. Quali riflessi sull’atteggiamento verso il lavoro degli adolescenti possono avere queste situazioni sulle nuove generazioni?
R. Tutto ciò ha dei riflessi dal punto di vista motivazionale. Il “devi studiare” non è più credibile da parte dei ragazzi, anche se i genitori sanno che è indispensabile sostenerlo. Il dire “è per il tuo bene futuro, “…impegnati” “il titolo di studio è necessario” non ha la tenuta che dovrebbe ottenere nei figli. In sintesi l’aspetto pedagogico, il “bisogna studiare per avere un lavoro” perde il suo peso motivazionale in quanto non si appoggia su un aspetto educativo legato all’esperienza dei genitori: ci credono e non ci credono.(“cosa dici tu che sei sempre scontento, o che affermi che hai studiato per niente?”).
D. Lei riconduce questa disillusione degli adolescenti verso il lavoro al rapporto con i padri perché?
R. Non c’è riconoscimento dello spaesamento vissuto del ragazzo di fronte allo stallo familiare e quindi la spinta motivazionale non riesce nel suo intento.
D. Quanto lei afferma vale sia per gli adolescenti maschi che per le adolescenti femmine?
R. Le femmine come per i maschi, hanno meno aspettative verso il lavoro rispetto ai coetanei di undici anni fa, ma, diversamente dai maschi, mantengono il valore della scuola. Penso che questa aspettativa verso la scuola sia dovuta al dato di fatto che le madri si sono emancipate tramite lo studio e la partecipazione scolastica. Con molta probabilità le adolescenti femmine possono identificarsi maggiormente nelle madri, le quali possono presentare delle insoddisfazioni rispetto al lavoro e allo scarto tra il titolo posseduto e il lavoro svolto, ma il fatto di lavorare è comunque in sé un valore di emancipazione personale e sociale, il quale anche se non sempre produce la soddisfazione desiderata, comunque non sminuisce il valore del lavoro in sé.
D. Quali sono le conclusioni che si possono trarre da queste osservazioni?
R. Possiamo dire che le adolescenti femmine, contrariamente ai coetanei maschi, vedono nella scuola e nello studio un elemento di emancipazione, di uscita dalla dipendenza, dalla subordinazione; per questo la scuola ha comunque un valore indipendentemente dai riflessi sul lavoro futuro. Accade quindi che a parole il lavoro sia un valore e nei fatti venga percepito come un aspetto che crea insoddisfazione.
D. Questo contesto che lei delinea quali effetti può produrre nel rapporto tra genitori e figli?
R. Paradossalmente questa situazione di incertezza e di preannuncio di crisi di immagine di sé da parte dei genitori, fa sì che essi stessi si mantengano più vigili e attenti alle situazioni dei figli. Essere costantemente alla ricerca di una propria continuità di sé, il tener viva la memoria, fa sì che essi stessi siano più attenti ai processi di continuità e di costruzione di una identità dei figli. Tutto ciò aumenta la loro “presenza psicologica”. L’attenzione vigile per sé stessi diventa anche allarme per i figli.
D. Da un elemento di crisi ne viene fuori quindi una positività?
R. Certamente, oggi due terzi dei genitori sono molto attenti al monitoraggio dei propri figli adolescenti, molto più che nel passato; il problema sorge quando il terzo rimanente, per vari motivi personali ,quali malattia o perdita di persone care, famigliari, come separazioni, o sociali, quali ad esempio la perdita del posto di lavoro, la presenza psicologica dei genitori esercita un minore monitoraggio dell’adolescente, ed il suo rispecchiamento. L’adolescente in questo contesto può “agire” la propria situazione di sofferenza, anche con comportamenti ad alto rischio per la salute. In questo caso è importante un servizio di consultazione come il nostro al quale si possono rivolgere, gratuitamente, gli adolescenti o i loro adulti di riferimento significativi per una richiesta di aiuto immediata e professionale