Dossier
EGOLATRIA. Lavoro, non-lavoro, coscienza di sé
25/04/13
Giovanni Foresti
“Hanno fatto qualcosa che si pensava facessero soltanto gli aristocratici (e gli intellettuali e gli artisti): hanno scoperto l’Io e se ne sono infatuati! Hanno creato la più grande era dell’individualismo nella storia americana! Tutte le regole sono infrante!”
Tom Wolfe, Il decennio dell’Io,
Castelvecchi Editore (Roma 2013, pg. 84)
La realtà de-regolata delle società post-industriali è caratterizzata da un mix inedito di temi vecchi ma sempre attuali, come la disoccupazione e la sottoccupazione (cioè il non-lavoro), intrecciati con problematiche del tutto inedite, come la cosiddetta ‘smaterializzazione’ del lavoro e le nuove forme di lavoro al domicilio e di lavoro itinerante: fenomeni resi possibili dalle tecnologie elettroniche che hanno fatto venir meno anche l’idea di un ‘luogo’ di lavoro. Sugli effetti delle trasformazioni sociali che caratterizzano la realtà odierna, la psicoanalisi – disciplina che si occupa essenzialmente del lavoro psichico – ha da proporre alcune ipotesi interessanti. È in questa linea e a questo riguardo che mi è stato chiesto di illustrare i risultati di una recente iniziativa societaria. Nel maggio del 2012, la SPI ha dedicato il XVI congresso nazionale della sua storia alla discussione di tre grandi temi sociali fra loro fortemente interconnessi e che rimandano ai nuovi scenari in cui viviamo: denaro, potere e lavoro. Il titolo dell’iniziativa è stato scelto dopo uno studio preparatorio articolato a diversi livelli e durato più di due anni. Mentre la Commissione Scientifica elaborava la matrice concettuale da proporre ai Soci come oggetto di studio, il Comitato Esecutivo della SPI ha organizzato tre giornate di discussione a partecipazione libera e senza relazioni introduttive (le giornate hanno avuto luogo a Bologna, Milano e Roma nell’autunno-inverno del 2011, si sono sviluppate come brainstorming in grande gruppo e hanno reso possibile la partecipazione di circa duecento persone).
Alla fine di queste riflessioni, il tema-guida scelto per il lavoro congressuale è stato la dialettica fra le ‘regole’ che organizzano la realtà esterna e interna (“Realtà psichica e regole sociali”: Roma 25-27 maggio 2012). L’orizzonte concettuale che faceva da sfondo a questa ricerca è stato esplicitato con la scelta del sottotitolo (“Denaro, potere e lavoro fra etica enarcisismo”) e ha posto al centro della discussione il problema dell’epidemia di disturbi narcisistici che caratterizza la cultura contemporanea. Scopo di queste brevi note è riprendere alcuni fili della riflessione collettiva che ha avuto luogo in quelle giornate e allacciarli con i concetti che sono condensati dalle parole scelte per il titolo di questo testo. Le ipotesi che propongo mettono in relazione la realtà sociale del lavoro virtuale, del lavoro sine materia e del non-lavoro, con la fenomenologia della fragilità psichica e delle sue correlate, conseguenti soluzioni narcisistiche. In poche parole: debolezza dell’Io e funzionamento egolatrico del soggetto.
Lavoro versus consumo
I presupposti teorici del discorso qui proposto si trovano riassunti in un testo di rara chiarezza e di grande concisione. Il cluster delle idee che hanno una funzione concettuale necessaria ai nostri scopi, si trova infatti ben esplicitato nella voce Servo/Signore dell’Enciclopedia Einaudi (Bedeschi, 1981) ed è così preciso e convincente, perché in questo campo di ricerca hanno lavorato a lungo intere generazioni di studiosi. All’origine delle filosofie che hanno maggiormente influenzato il pensiero del ‘900, ci sarebbe – secondo questa prospettiva – la quindicina di pagine della Fenomenologia dello Spirito in cui Hegel esamina il processo d’interazione fra la figura del Servo (Knecht) e quella del Signore (Herr). “Si tratta di un testo ‘esemplare’ – scrive l’Autore della voce (ibid, p. 807) –, di una delle grandi pièce della filosofia moderna. I temi della lotta per la vita e per il riconoscimento della propria personalità, i temi della morte e del lavoro, le figure del padrone e del servo: tutte queste cose si trovano per la prima volta riunite organicamente e indissolubilmente in poche, tormentate pagine”.
Il testo intreccia due filoni di pensiero: un’area di temi classicamente ontologico-metafisici e un’altra serie di motivi di carattere storico-antropologico e politico. La prima area è quella che sarà sviluppata soprattutto dalla fenomenologia, dall’esistenzialismo e dalle filosofie della vita; mentre la seconda si trova ripresa nella tradizione marxista, nelle ideologie della sinistra e nel pensiero del movimento operaio. In entrambe le organizzazioni concettuali, al problema del lavoro, agli effetti del suo esercizio e alla necessità del suo sviluppo viene comunque riconosciuta una funzione del tutto centrale (NOTA). Per dirla con i termini freudiani impiegati da René Kaës quando articola vita psichica e funzionamento sociale, il tema affrontato in queste pagine è quello della necessità-di-lavoro psichico (psychische Arbeitsanforderung) posta al soggetto dalla realtà esterna e dalla realtà interna. Com’è noto, l’apparente vincitore della lotta per il riconoscimento di sé è der Herr: il signore. Hegel astrae però dal vocabolo corrente quella che propone come essenza concettuale del problema che intende studiare (esattamente come si fà quando si parla di leadership invece che di leader) e, per capire il signore, analizza il funzionamento della dialettica fra Herrschaft, la signoria, e Knechtschaft, la servitù.
Il rapporto che la signoria intrattiene con le cose è una relazione di mero consumo. La sua relazione con la cosa consumata è infatti “negazione pura dell’oggetto cosale” e il suo effetto consiste “soltanto in uno svanire, un dileguare cui difetta l’aspetto oggettivo, cioè il lato del mantenersi stabile”. È interessante osservare che le parole impiegate da Hegel, sono le stesse che saranno utilizzate da Lacan e dalla sua scuola per contrapporle al desiderio: godimento e bramosia (nella lingua di Hegel: Genuß e Begierde). Il rapporto del servo con le cose e con la natura, invece, non è negazione astratta: non è un’azione distruttiva, perché non è mero consumo. Il lavoro del Servo ha in sé una dimensione essenzialmente costruttiva in quanto la sua funzione, nel linguaggio di Hegel, è dialettica. Il lavoro non fa dileguare la cosa in sé, ma “bildet”, l’oggetto: cioè dà forma alla cosa e la trasforma in qualcos’altro. Il lavoro della Knechtschaft non è gratuito godimento, ma un’attività che costruisce le cose e educa il soggetto (Bildung).
Lo happy end della dialettica servo/signore è celeberrimo. Il vero vincitore della contesa per l’autonomia e il riconoscimento non è il signore, perché la sua relazione con le cose del mondo è mediata dall’azione del servo. Chi veramente conquista una salda coscienza di sé (l’espressione di Hegel è poderosa: Gewißeit seiner selbst, ovvero la certezza di sé) è il servo che non si è limitato ad affrontare il pericolo della morte nel momento remoto ed eroico della guerra per il riconoscimento da parte dell’altro. Il servo lotta con la morte prosaica e plebea che si trova iscritta nella vita di tutti i giorni. Affronta quotidianamente i limiti, la penuria delle risorse, il crescere dei bisogni, la presenza costante della paura. In questa concezione filosofica che ne riprende e riassume molte altre, non è la gloria che dà autonomia al soggetto (nella cultura dello spettacolo diremmo la celebrità). Sono invece l’angoscia, la preoccupazione e la paura i sentimenti umani che inducono alla saggezza.
Troviamo questo modello concettuale nella riflessione di Karl Marx e in tutta la tradizione che si richiama al suo pensiero (“… il lavoro è l’essenza, l’autoavverantesi essenza dell’uomo”, scrive Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844). Più recentemente, esso è ben evidente nelle ricerche di quei sociologi, come Aubert, Bauman, De Rita, Sennett e tanti altri, che hanno cercato di comprendere le determinanti materiali dell’epoca in cui viviamo (quella che due psichiatri parigini hanno definito l’epoca delle passioni tristi). Fra gli studiosi che si sono serviti della dialettica fra consumo e lavoro ricavandone ipotesi di ricerca radicali, c’è uno studioso statunitense – Benjamin R. Barber – che in un libro splendido e limpido, intitolato Consumati (nell’originale: Con$umed), pone la seguente domanda: cosa succede alle nostre vite e alla società civile, se l’unica legge è il mercato e l’unico scopo è il consumo? Il centro del suo ragionamento è l’infantilizzazione della mentalità pubblica e il degrado dell’ethos civile. “La repubblica dei consumatori – afferma – è molto semplicemente un ossimoro. I consumatori non possono essere sovrani; solo i cittadini possono esserlo” (Barber, 2010; p.185).
“Something in the air”
Al XVI congresso nazionale della SPI tutti gli studiosi esterni al movimento analitico, che erano stati invitati a partecipare ai lavori, hanno affrontato con determinazione questi temi. Ferruccio Andolfi, che insegna filosofia della storia all’Università di Parma, dove dirige una rivista di studi filosofici intitolata La società degli individui, ha mostrato come lo studio del narcisismo debba essere iscritto in un ciclo culturale di lunga durata. A questo scopo, ha ripercorso l’analisi dell’amore di sé che era stata teorizzata da tre grandi pensatori del XIX secolo: il teologo luterano Friederich Schleiermacher, il filosofo anarco-individualista Max Stirner e il grande outsider della filologia e della filosofia Friederich Nietzsche.
Sul lavoro, e in particolare sulle regole sociali, si sono poi espressi sia l’attuale Presidente del Monte dei Paschi di Siena, Alessandro Profumo, che il Segretario Generale della CGIL, Susanna Camusso. Nei loro interventi, concisi ed estremamente efficaci, i due ospiti hanno riassunto la loro prospettiva critica ricorrendo a pochi punti chiave, molto ben scelti.
- Lavoro. L’ideologia prevalente dell’impresa è cambiata. La prospettiva collettiva si è spostata in un orizzonte temporale di breve periodo (l’obiettivo della massimizzazione a breve termine dei profitti) finendo per regredire in una prospettiva che troppo spesso è sostanzialmente speculativa (una rinuncia a pensare il capitale sociale in termini allargati: come tradizione sociale locale e sentimento collettivo di appartenenza, oltre che come patrimonio). La ragione di questa trasformazione è da ricercare nella valorizzazione unilaterale della funzione del profitto: l’enfasi sul rendimento si è sviluppata enormemente, a scapito della considerazione del ruolo del lavoro.
- Disuguaglianze. La fine della positiva utopia dell’uguaglianza e il decadere dei diritti all’emancipazione economica, ha prodotto dinamiche sociali che hanno sorprendentemente accresciuto il divario fra i redditi. L’ampliarsi della forbice fra ceti economicamente abbienti e fasce sociali sempre più indigenti, riduce i sentimenti di solidarietà e facilita il diffondersi di nuove forme di protesta individualistica. La disoccupazione giovanile e la sottoccupazione femminile sono poi un ostacolo alla crescita umana e alla maturazione civile di un numero sempre più elevato di persone. La prospettiva corta del rendimento a breve termine del capitale si coniuga con una mentalità caratterizzata da un orizzonte esistenziale di breve periodo e senza futuro – il cosiddetto ‘presentismo’ – che è divento la filosofia prevalente di un numero crescente di persone private oggettivamente della possibilità di progettare la propria vita e di assumersi le responsabilità verso se stessi e verso gli altri.
- Regole. Il venir meno dei vincoli contrattuali che in passato garantivano le condizioni di lavoro è fra le conseguenze più importanti della filosofia neoliberista della de-regulation. Il risultato è la nuova precarietà sociale e il sentimento di inaffidabilità e liquidità della vita. Influente sulle decisioni che hanno guidato la riorganizzazione delle istituzioni, il disinteresse per la necessità delle regole ha alterato, poco per volta, lo scenario relazionale prevalente e ha svuotato di aspettative positive l’immagine di molte organizzazioni pubbliche. In questo nuovo conteso, il ripiegamento narcisistico è una forma di adattamento collettivo che altera stabilmente il modo in cui sono vissute e modellate le relazioni con gli altri.
Tutto ciò ha conseguenze diffuse che si osservano molto chiaramente sul piano clinico e che costituiscono un’evidenza anche di tipo epidemiologico. Il tema è stato affrontato da Vittorio Lingiardi in un contributo intitolato La politica delle diagnosi: la personalità narcisistica dentro e fuori dal DSM-5. Come in passato era già accaduto per altre categorie diagnostiche, il disturbo narcisistico di personalità è oggi l’epicentro di un vivacissimo conflitto concettuale, metodologico e politico fra le diverse componenti culturali del mondo ‘psy’. A causa dell’enorme impatto che la pubblicazione della prossima edizione del manuale dell’associazione psichiatrica statunitense è destinata a suscitare (il DSM-5 sarà disponibile in applicazioni scaricabili per i cellulari, in versioni adattate all’uso degli utenti, dei familiari e di diverse categorie professionali), Lingiardi ritiene che l’argomento dell’espulsione e della successiva reincorporazione del narcisismo dalla nosologia psichiatrica fosse un tema d’interesse generale di cui valeva la pena di fornire una dettagliata sintesi. Paradossalmente, sostiene lo studioso de La Sapienza, è proprio la pervasiva evidenza del problema (ossia il fatto che il narcisismo sia divenuto un problema sociale capillarmente diffuso: something in the air – ha detto Lingiardi) a ostacolarne la messa a fuoco diagnostica. Come sempre accade, sono le manifestazioni in cui siamo immersi costantemente quelle che facciamo più fatica a riconoscere.
Per una critica della concezione endogena del lavoro psichico
Quali sono i nessi concettuali che correlano le novità osservate nel mondo del lavoro con l’epidemia di narcisismo che è evidente sul piano sociale e su quello clinico? C’è un brano, sempre nelle pagine della Fenomenologia delle Spirito, che esplicita con chiarezza i due versanti della riflessione di cui occorre occuparsi per perseguire questo obiettivo. Dall’acuta intuizione contenuta in queste frasi possiamo derivare spunti ancor’oggi molto utili.
“ Anche se la paura dinanzi al signore costituisce l’inizio della saggezza – scrive Hegel –, la coscienza è qui ancora per essa stessa (für es selbst) ma non è ancora l’essere-per-sé (fürsichsein). In realtà, la coscienza giunge a se stessa solo mediante il lavoro.”
In questo passo c’è da un lato la visione drammatica delle relazioni umane, fatalmente caratterizzate da un’asimmetria nei rapporti sociali che produce reverenza e timore (die Furcht des Herrn: la paura dinanzi al signore). La possibilità di crescere psichicamente è qui correlata (su questo vi è concordanza fra psicoanalisi e altre discipline come la sociologia e l’antropologia) alla necessità del confronto con le figure che sono socialmente sovraordinate: il padre nell’organizzazione familiare e illeader nella comunità sociale. Dall’altro lato c’è il lavoro come attività umana a funzione formativa alla quale il follower è inizialmente costretto dalla necessità, ma che diventa successivamente una fonte di sana soddisfazione narcisistica. Il lavoro sociale, e dunque il lavoro ‘esterno’, diventa così anche lavoro ‘interno’; mentre l’attività interna/esterna dell’operare trasforma una coscienza ancora implicita, inconsapevole e chiusa in se stessa, in una psiche che è andata incontro a processi di mediazione sociale e di riscontro intersoggettivo: cioè in un’autocoscienza capace di attività riflessiva.
Sulle ragioni per le quali questi passi hanno suscitato letture filosofiche tanto antitetiche (interpretazioni che hanno scisso il nodo di problemi che Hegel era riuscito a considerare nel suo insieme) non si possono avere molti dubbi. Non solo, come ha scritto Bergson, l’intelligenza umana è a proprio agio solo fra i solidi, ma quando si muove fra oggetti incorporei (e il lavoro psichico si applica su ‘oggetti’ di questo tipo: affetti, emozioni, fantasie) essa tende a rimanere preda di ciò che il neuroscienziato Antonio Damasio ha spiritosamente definito l’errore di Cartesio: una ripartizione troppo rigida fra res extensa e res cogitans che è all’origine della difficoltà a pensare la dimensione interiore del lavoro fisico (sociale e materiale), così come la compresenza di una dimensione esterna e appunto fisica che è iscritta all’interno del lavoro psichico.
Il lavoro clinico degli psicoanalisti è un buon esempio di organizzazione sociale che funziona combinando fattori materiali, abitudini sociali e accordi economici. Grazie al lavoro che viene portato avanti nei loro incontri, analista e paziente fanno ripetutamente esperienza di quella dialettica fra assoggettamento e soggettivazione che irrobustisce l’Io dell’analizzando. Solo scoprendo quali sono le forze interne ed esterne che ostacolano la sua libertà personale, l’essere umano può sviluppare le risorse psichiche che lo rendono più autenticamente autonomo. Autonomo perché più umile: meno orgogliosamente dedito a se stesso – e quindi meno auto-celebrativo ed egolatrico – e più capace di quell’iniziativa e di quel pensiero che lo rendono soggetto. Sebbene si siano sviluppate, in passato, forme d’intimismo spiritualista con declinazioni anche psicodinamiche (più che altro come reazione agli eccessi cui avevano condotto a frettolose ibridazioni con altre tradizioni concettuali), le diverse anime della psicoanalisi si sono oggi affrancate dalla prospettiva solitaria e individualista che aveva portato al prevalere di una concezione endogena della pratica e della teoria clinica (la formula è ancora una volta di René Kaës).
Con il ripensamento kleiniano delle relazioni oggettuali, con l’interpersonalismo e con gli sviluppi bioniani e post-bioniani della riflessione clinica, la rilevanza della dialettica intersoggettiva è divenuta un minimo comun denominatore concettuale che orienta la riflessione della maggior parte delle componenti del movimento psicoanalitico. Ne è derivata una riconsiderazione delle regole che organizzano la cura, che ha reso possibile la creazione di dispositivi metodologici specifici grazie ai quali si è potuto studiare l’interazione fra bebè e care-givers, analizzare le dinamiche familiari, descrivere il funzionamento delle personalità più patologiche, fare ricerca sulle dinamiche gruppali più turbolente e cominciare a comprendere i processi istituzionali più complessi. Se proseguirà il processo di affrancamento dalla concezione prevalentemente endogena del lavoro psichico, la psicoanalisi potrà non solo contribuire allo studio dei moderni disagi della civiltà (come di fatto fa già), ma anche sviluppare le soluzioni di ricerca/intervento messe a punto negli scorsi anni (le Leicester conference e la tradizione delle group relations, il social dreaming, i listening post etc) e dimostrare la loro efficacia clinica e sociale.
Conclusioni: egolatria e psicoanalisi
L’orizzonte culturale in cui avvengono le radicali riorganizzazioni culturali caratteristiche delle società odierne è caratterizzato dalla prevalenza di valori che sono iscritti in attività per definizione non immediatamente produttive, come la distribuzione e il consumo. Il risultato di questi processi è l’egemonico affermarsi di una cultura consumistica in cui sono centrali il ruolo del marketing e la funzione della società dello spettacolo. La psicoanalisi, che come abbiamo ricordato all’inizio del contributo si costituisce come disciplina del lavoro psichico, è un sapere necessario per riuscire a intendere le correlazioni esistenti fra il funzionamento della mente (individuale, gruppale e sociale) e i processi che hanno spinto sociologi, semiologi e antropologi a parlare di post-modernità e di iper-modernità.
Queste pagine miravano a dimostrare che queste dinamiche erano già state analizzate agli albori della modernità. Nell’analisi filosofica di Hegel, la Knechschaft (servitù) finisce per affermarsi sulla Herrschaft (signoria) perché il servo lavora più del signore, sia materialmente che psichicamente. Trasformando le cose in oggetti-lavorati, in manufatti, il servo deve far fronte alla necessità di lavoro psichico che è posta al soggetto dalla realtà esterna e interna. Trasformando le cose, il servo elabora anche i propri pensieri e cresce. Dunque per Hegel, e per tutta la tradizione che si richiama al suo pensiero, è solo con il lavoro che si perviene a una coscienza di sé salda e davvero autonoma.
Inizialmente soggetto all’autorità del signore (bisognerebbe ricordare che subject è inizialmente suddito), il servo compie così un percorso di emancipazione che lo trasforma in un soggetto capace di modificare la propria storia e diventare protagonista della dinamica sociale. Occuparsi dell’Homo Insipiens, come lo ha definito Di Chiara (in Sindromi Psicosociali, Raffaello Cortina, Milano, 1999), si può ancora. Affrancarsi dalla egolatria è possibile (far crescere il sé non collaborativo, se si preferisce una locuzione più descrittiva e più sobria).Per farlo, occorre tuttavia – come scrive Richard Sennet (in Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione) – inventare nuove forme di solidarietà interindividuale e diffondere creative soluzioni in grado di accrescere la collaborazione sociale.
NOTA Anche se può apparire superfluo, data la notorietà di questo testo, conviene distinguere meglio le due aree citate. Il primo motivo – cioè quello ontologico-metafisico – è basato sullo studio di una fase del rapporto soggetto-oggetto che la filosofia hegeliana postula come provvisoria. Anticipando un tema che sarà poi sviluppato da Husserl (prima che da Heidegger, dall’esistenzialismo e dal pensiero post-moderno), l’oggetto del pensiero descritto in queste pagine appare nella concretezza delle condizioni in cui accade quotidianamente la vita e in uno spazio astratto di riflessione soggettiva. Nella dialettica hegeliana dell’autocoscienza, la scissione originaria è al tempo stesso intersoggettiva, metafisica ed epistemologica. La contrapposizione da superare è sia quella fra due soggetti astratti e ideali, che divengono Io e Tu, sia quella fra la coscienza soggettiva e l’oggettività delle cose. Nell’oscura prosa di Hegel, la descrizione di questa dialettica non è immobile e sincronica (fotografica, potremmo dire), ma dinamica, diacronica e processuale (cinematografica).
Il secondo motivo – quello storico-antropologico – è celeberrimo. L’autocoscienza singola ha di fronte a sé un’altra autocoscienza. Prima che si costituiscano i legami da cui origina la società, le due entità soggettive si contrappongono come ‘individui’ isolati. Essi vivono in mondi in sé conchiusi e tendono a considerare l’altro da sé come un oggetto di natura. Ciascuno di loro ha tuttavia bisogno del riconoscimento altrui (Anerkennung): il fattore squisitamente umano grazie al quale si organizza la coscienza di sé del soggetto. È per questa necessità relazionale che inizia la lotta intersoggettiva alla fine della quale, nella realtà storica, ci sono da un lato le aristocrazie guerriere (le persone e i popoli che hanno vinto i conflitti e le guerre che danno alla vita il suo inevitabile lato negativo) e dall’altro le culture subalterne (le sudditanze sociali e nazionali che risultano dalla sconfitta emotiva, politica e militare).