Dossier
Pienezza – Un percorso ad ostacoli. Donna e procreazione assistita
25/11/14
Gabriella Giustino – Rossella Vaccaro
Un percorso ad ostacoli
Donna e procreazione assistita
L’annuncio
L’attesa da parte della donna infertile della notizia di aspettare un bambino è sempre intensamente sospirata e densa d’angoscia. Nel caso in cui la donna decide di ricorrere alla procreazione assistita è il ginecologo colui che annuncia l’evento “miracoloso” e che talora rappresenta, come nella scena Sacra, il Nunzio del “segreto”.
Un annuncio che assume una ritualità del tutto particolare. Il paradosso di una “rivelazione”, al contempo banale e complessa, pubblica e privata, che porta con sé sollievo ed incredulità. Il medico può essere comprensibilmente investito d’ineffabili e potenti aspettative e vissuto come un Angelo curatore (Vigneri, 2011 ) che disvela e accompagna. Ma l’impatto emotivo positivo di questo possibile momento di svolta e di speranza è spesso preceduto da notizie (quasi sempre reiterate) di fallimento della generatività. La donna allora precipita negli Inferi dell’impotenza e della disperazione.
E con lei l’“Angelo”, per altri versi autore di complessi interventi sul corpo, talora inevitabilmente intrusivi, dolorosi e umilianti. Un’ombra luciferina si proietta allora sulla mancata generatività.
Nelle rappresentazioni figurative dell’Annunciazione la Madonna è comprensibilmente ritratta in un ideale stato estatico. Una scena dove i due protagonisti si rispecchiano l’uno nell’altra in un’ atmosfera di calma, senza alcun tormento.
Quante terribili angosce, che tremende oscillazioni segnano invece il “percorso ad ostacoli” della procreazione assistita. Quanti lutti o fallimenti difficilmente elaborabili!
Identità femminile
Fin dall’infanzia ciascuna donna[1]coltiva dentro di sé l’idea di essere capace di procreare un figlio. Così come lo è stata la propria madre, e, prima di lei, la madre della madre.
I moderni metodi contraccettivi da un lato e le pratiche di procreazione medicalmente assistita dall’altro, hanno aumentato la fiducia della donna nella possibilità di poter “gestire” il proprio corpo. La donna può decidere di autodeterminarsi e rimandare la gravidanza aspettando il momento in cui “sarà pronta”.
L’identità generativa è la quarta componente che interviene nella formazione del genere sessuale ( accanto all’identità sessuale nucleare , al ruolo sessuale e all’orientamento sessuale ) e si definisce come la “strutturazione psichica di sé in quanto potenziale progenitore” (Raphael-Leff 2013). Essa si acquisisce tra i 18 e i 36 mesi di vita e fa riferimento a tre “fatti fondamentali” della vita ( genesi, generazione e generatività). Se le cose vanno abbastanza bene (e la famiglia e la società sostengono questo processo), l’acquisizione dell’identità generativa permette il passaggio dal sentirsi creazione di qualcun altro a potenziale (pro)creatore in sé e per sé. L’accettazione della differenza tra le generazioni e tra i sessi struttura la mente della bambina che si confronta con i propri limiti, ma che può, proprio per questo, valorizzare il potenziale procreativo del proprio corpo ed eventualmente approdare al concetto più metaforico di creatività personale. La frustrazione dell’aspettativa di generatività mette quindi in scacco il sentimento della donna di potersi sviluppare e crescere. Questo sentimento di potenzialità evolutiva del sé si delinea a partire dalla qualità del rispecchiamento con l’oggetto primario e delle identificazioni precoci con la madre.
Il rapporto tra relazione con la madre e sviluppo dell’identità generativa si coglie in modo molto chiaro, come spesso accade, in un mito. Come ricorda ancora Malde Vigneri, Kore, figlia di Demetra, viene rapita da Ade che la conduce negli Inferi per farne la sua sposa.
La madre ( Dea della terra ) si dispera a tal punto di non poter più vedere la figlia da diventare sterile; e con lei diventa sterile tutto il mondo su cui cala una morsa di gelo e di morte. Al ricongiungimento tra le due donne, madre e figlia, segue il disgelo ed il risveglio della natura e della vita simbolicamente rappresentato dal melograno
Spesso questo intreccio di vita e di morte, di speranza e disperazione è proprio ciò che caratterizza l’esperienza della donna che ricorre alla procreazione assistita.
Le angosce femminili individuali si estendono ovviamente anche alla coppia che può risentire non poco delle pratiche mediche e del senso di esclusione da un’esperienza di generatività naturale. Anche Dinora Pines ( 1993 ) afferma che la gravidanza rappresenta un punto fondamentale per la costruzione dell’identità femminile. Il corpo biologicamente fertile della donna (ma a volte psicologicamente immaturo) può concepire un bambino aldilà delle sue competenze emotive.
Vi possono dunque esser donne che possono concepire un bambino e trovarsi impreparate rispetto al desiderio di maternità e viceversa donne non fertili che sono “pronte” per la maternità. Per questo l’autrice fa una distinzione tra desiderio di gravidanza e desiderio di maternità. Joan Raphael-Leff (2013 ) sostiene ancora che le donne che non riescono ad accettare ( seppure con dolore) l’impossibilità del concepimento naturale hanno in passato investito “troppo” nel potenziale procreativo biologico. Noi pensiamo che le cose siano più complicate di così. Infatti il senso di sé (e d’identità) non è mai definitivamente acquisito e la capacità di “riparare” l’impossibilità di concepire un figlio naturale è esito di un lavoro psichico enorme, molto arduo. Gli aspetti emotivi profondi in gioco sono molti e complessi e in buona parte ancora sconosciuti. Del resto in ogni maternità si riconosce un certo grado di ambivalenza “normale” e ci sembra importante affermare che se l’ambivalenza diventa “patologica” questo non dipende dalla fertilità naturale (o “artificiale”) della donna ma dalla sua predisposizione psicologica ad accogliere dentro di sé un altro e a raggiungere quello stato di “depressione normale” che Winnicott chiama “preoccupazione materna primaria”. Ammaniti (1992) parla a tal proposito delle oscillazioni identificatorie che permettono alla donna d’immedesimarsi mentalmente col nascituro dentro di lei e con la madre sollecita che se ne prenderà cura. Questo ha a che fare con un assetto emotivo di base della donna che, nei casi meno fortunati, è spesso possibile oggetto di trasformazione, magari con l’aiuto di una buona analisi. Occorre ricordare che ogni gravidanza e maternità è diversa per ogni donna. Si possono tracciare delle linee comuni, ma bisogna stare molto attenti a non generalizzare e non cadere in un involontario pregiudizio. La tecnologia medica offre alle donne un’opportunità straordinaria con tutti i limiti e gli ostacoli del caso. Entrare nel merito dei problemi etici complessi sollevati dalla procreazione assistita (omologa o eterologa) non rientra tra gli scopi di questo breve scritto perché richiederebbe una disamina molto più ampia. Vale la pena comunque ricordare che molti sono i bambini e ormai gli adulti che sono nati grazie all’aiuto della fecondazione assistita e molte le madri (e i padri) che li hanno allevati (la prima nascita “in provetta” risale al 1978 ) . Il nostro tentativo è quello di metterci dalla parte della donna che affronta questo percorso difficile e tentare d’immedesimarci nelle sue difficoltà: credo che come psicoanalisti possiamo cercare di dare molte risposte. Per questo auspichiamo che si continui a riflettere e ricercare (dentro e fuori la stanza d’analisi) mantenendo un atteggiamento mentale aperto a nuovi sviluppi.
Francesca, con la sua testimonianza, parlerà molto meglio di noi.
NOTA 1) In questo scritto parliamo delle donne ma molti dei concetti che esploriamo come quello d’identità generativa sono applicabili, con le dovute differenze, anche al sesso maschile.
Bibliografia
Quagliata E. : Becoming parents and Overcoming obstacles, Karnac, 2013
Pines D. :A Woman’s Unconscious use of her body, The University Press London, 1993
Vigneri M. :I bambini che vengono dal freddo. Sulla donna infertile e le nuove frontiere procreative. Rivista di Psicoanalisi, Anno LVII, N.1, 2011).
Una testimonianza: Francesca
1) Desideriamo ringraziarla per avere accettato di condividere con noi la sua esperienza. Vorremmo iniziare chiedendole di spiegare i motivi che l’hanno condotta alla procedura di fecondazione eterologa.
Francesca: Io ringrazio voi per quest’opportunità, mi fa molto piacere condividere la mia storia perché potrebbe servire ad altre coppie e può essere utile per capire meglio i risvolti di un percorso ad ostacoli come la fecondazione assistita, sia essa fatta in Italia sia all’estero.
Mio marito ed io abbiamo provato ad avere figli per circa un anno senza risultato; vista l’età di entrambi (all’epoca trentanove anni lui e trentasei io), non abbiamo indugiato oltre procedendo ai dovuti approfondimenti per ricercare le cause del mancato concepimento per via naturale. E’ emerso che il problema principale era dovuto a me e causato da una seria malattia di origine genetica che avevo dovuto affrontare e dalle conseguenti necessarie cure. Sono guarita ma le possibilità di essere fertile sono ridottissime e così pure le possibilità di una gravidanza naturale. Inoltre, il numero degli spermatozoi di mio marito era numericamente ridotto e gli stessi un po’ lenti e questo non rendeva certo le cose più facili. Da qui il suggerimento da parte di più una specialista in infertilità sull’intraprendere la strada della fecondazione eterologa mediante la donazione di ovociti, in questo modo sarebbe stato possibile bypassare la trasmissione genetica del gene difettoso. Uscimmo da quei colloqui molto provati, la mia prima reazione fu di pensare che il bambino non mi avrebbe somigliato, che di mio non avrei trasmesso niente. C’è voluto un po’ di tempo per elaborare questa possibilità e capire che sarebbe stato il primo atto di amore verso mio figlio quello di evitare il rischio di trasmettergli il gene difettoso. Abbiamo fatto cinque tentativi, tutti all’estero e in tre differenti Paesi, quattro dei quali falliti. Un pesante impegno non solo emotivo ma anche economico e logistico. I primi due con l’ovodonazione. Dopo il secondo insuccesso è stato mio marito ad avanzare la proposta di utilizzare una donazione di gameti totale. Rimasi piacevolmente sorpresa e contenta di questa nuova strada.
Ci sono stati periodi di grande sconforto in cui abbiamo tentato di fare finta che stavamo bene anche così ma poi ricominciavamo. L’ultimo tentativo, il quinto, lo abbiamo fatto con il trasferimento di un embrione “fresco”, non più congelato e ora sono al sesto mese di gravidanza.
2) Come ha percepito il suo corpo quando ha dovuto prendere coscienza degli ostacoli che impedivano di esaudire il desiderio di una maternità?
Francesca: Ho sentito il mio corpo inutile, sterile e capace solo di produrre malattie anziché la vita.
3) Questi ostacoli hanno avuto una ripercussione nella sua vita di coppia?
Francesca: Sì, molte ripercussioni. E’ stato veramente difficile maturare insieme a mio marito la possibilità di intraprendere la strada della fecondazione assistita e in particolare quella eterologa. Entrambi abbiamo continuato ad avere la speranza di un piccolo miracolo della gravidanza naturale ma non accadeva. E ogni volta che dopo un tentativo c’era il fallimento, la caduta era inevitabile con relative discussioni e tensioni.
4) Ogni donna, seppure in modo differentemente consapevole, teme di non essere sufficientemente adeguata per essere, diventare, una “buona” madre. Nella sua esperienza come vive questo timore?
Francesca: Ho paura di riversare e caricare su mio figlio emozioni e ansie eccessive, proprio per come sono arrivata ad avere questa gravidanza non facile e non scontata. Inoltre, per certi versi, mi sono già sentita inadeguata quando tutti mi dicevano: “Tanto quando sei incinta, te ne accorgi, lo senti che una vita sta crescendo dentro”. Io, anche dopo aver ritirato il test di gravidanza positivo, non sentivo niente di niente pensando: “Che madre snaturata non riseco a prendere contatto con mio figlio, non lo sento!”
5) Talvolta, teme ancora di non potere diventare madre?
Francesca: Ora che sto aspettando un figlio direi di no, sperando che vada tutto bene.
6) Che cosa avrebbe potuto indurla a rinunciare?
Francesca: Il fatto di veder distruggere il rapporto con mio marito, anche se sarebbe stata molto dura rinunciare.
7) Riflettendo sulla sua esperienza riesce a distinguere il desiderio di gravidanza da quello di maternità?
Francesca: Credo di sì. Mi piaceva l’idea della pancia che cresce e il sentire un esserino muoversi dentro di me; le mie perplessità sull’adozione riguardavano anche il desiderio della pancia con tutto quello che ne consegue.
D’altra parte il desiderio di maternità l’ho sempre sentito dentro di me come un flusso di amore per la vita che mi sarebbe tanto piaciuto convogliare verso mio figlio.
8) Qual è stato, finora, il momento più intenso della gravidanza?
Francesca: Forse il momento in cui per la prima volta ho sentito il bimbo scalciare, è la prova tangibile che c’è una vita, non devo più sforzarmi di sentire per forza qualcosa come facevo i primi mesi dove solo dall’ecografia vedevo la vita dentro di me, ma non la sentivo o forse mi sembrava di non sentirla.
9) Ricorda un sogno in particolare fatto in questi mesi o nel periodo in cui cercava il bambino?
Francesca: Nei mesi in cui facevo i vari tentativi, sognavo in continuazione che tutte le donne intorno a me rimanevano in stato interessante escluso me. Le mie amiche, le loro madri, perfino conoscenti che non vedevo da diverso tempo… tutte! Questo sogno mi ha perseguitato per tanto tempo. Dopo, saputo della gravidanza, e anche passati i fatidici tre mesi, sognavo invece di prendermi cura di bambini non miei, sogni diversi ma il succo era sempre lo stesso: mi ritrovavo non so come ad avere con me un figlio non mio, non avuto dalla mia pancia ma che sapevo sarebbe dovuto stare con me. Anche questi sogni non compaiono più, ne ho fatto invece uno che ricordo molto bene per la sua intensità. La mia pancia era molto vicina alla data del parto e per cui talmente tesa che era semitrasparente, tanto da vederne una manina del bimbo attraverso; chiamo mio marito e gli dico vieni, prendi la sua mano, te la sta porgendo, ti vuole sentire…
10) Quando pensa al suo bambino, come lo immagina?
Francesca: Sinceramente mi rimane molto difficile immaginarlo, ho solo voglia di conoscerlo.
11) Come ricorda il rapporto con sua madre all’epoca della sua infanzia? E adesso?
Francesca: Durante l’infanzia mi ricordo un bel rapporto con mia madre fatto di giochi e di attenzioni. Un po’ meno bello nel periodo dell’adolescenza quando lei forse pensava che fossi già grande per non aver bisogno di lei ed ho molto percepito la sua assenza, anche se nella realtà ripescando nei ricordi non lo era.
Adesso il rapporto è molto cambiato e maturato grazie soprattutto a un percorso psicoanalitico durato diversi anni che mi ha aiutato a “smontare” e poi ricostruire dentro di me la figura di mia madre e anche quella di mio padre.
12) Pensa di dire, oppure no un giorno al bambino com’è avvenuta la sua fecondazione?
Francesca: In questo momento penso di no, può anche darsi che con il tempo cambi idea ma ho molte perplessità. Nelle nostre famiglie ci sono molti pregiudizi sull’adozione come se i geni contassero più dell’esperienza e di quello che i genitori possono trasmettere. Mio figlio non è adottato ma non ha il nostro patrimonio genetico, a mio avviso non avrebbe la maturità per comprendere e, di conseguenza, comportarsi adeguatamente.
13) Dal suo punto di vista qual è stata, qual è, la difficoltà più rilevante incontrata finora da suo marito? E la sua?
Francesca: Per mio marito superare i fallimenti dei vari tentativi e rimettersi in piedi dopo; la mia quella di tenere duro dopo ogni fallimento.
14) Come immagina il parto?
Francesca: M’immagino un parto naturale ma non ho tanto timore dei dolori che comunque sono passeggeri, vorrei solo che andasse tutto bene perché il momento del parto per un bimbo è molto delicato.
15) E’ in rapporto con altre donne che sono ricorse alla fecondazione artificiale eterologa? Ha condiviso con qualcuno la sua esperienza di fecondazione?
Francesca: Ho una cara amica che ha avuto un bimbo con una fecondazione assistita ma omologa, fatta in Italia e con la quale ho condiviso la mia esperienza. Ci siamo molto aiutate e confrontate, anche se il percorso è stato un po’ diverso. Ho avuto inoltre un contatto con una coppia che invece ha avuto due gemelle con la fecondazione eterologa parziale e che mi ha consigliato uno dei centri all’estero dove poi siamo stati senza però nessun risultato.
Non ho avuto altri contatti con altre coppie se non veloci confronti nelle sale di attesa, mio marito e io ci siamo vissuti tutti i nostri tormenti da soli. In questo caso il confronto con altre coppie mi provocava solo tanta ansia, facevamo il possibile per evitarlo.
16) Ha mai pensato all’adozione?
Francesca: Sì, ci ho pensato e ho provato a iniziare il percorso ma con molte perplessità viste certe difficili esperienze di cui sono a conoscenza.
17) La recente sentenza della Consulta sulla Legge 40 sembra avere aperto la strada all’esecuzione di questi trattamenti anche in Italia. Cos’ha pensato quando lo ha saputo?
Francesca: Ho provato rabbia. Spero che anche in Italia si sbrighino ad attrezzarsi per rimanere al passo con gli altri Paesi non solo nei riguardi della fecondazione eterologa. Un esempio per capire la mentalità retrograda che ancora esiste in Italia: per eseguire uno spermiogramma o per prelevare lo sperma prima di un trattamento di fecondazione nei centri in Italia si manda l’uomo nel bagno pubblico del centro; alla mia domanda: “Posso entrare anch’io?” mi rispondono “no assolutamente signora non si può, forse suo marito ha delle difficoltà?”.
Nei centri esteri esistono delle stanze apposite che non sono bagni pubblici e dove la partner è libera di entrare o meno.
Ma il concepimento di un figlio non si fa in coppia?!
18) Che cosa l’ha maggiormente aiutata a sostenere questo difficile cammino verso la maternità?
Non è stato semplice. La complicazione è nata molto prima di sapere che non avrei potuto avere figli con un concepimento naturale; non riuscivo a scegliere uomini adeguati, o meglio, avevo la tendenza a scegliere uomini sbagliati che in quel momento pensavo di “meritarmi”. Mi resi conto che qualcosa in me non funzionava, non riuscivo ad andare avanti nella vita quotidiana; sentivo apatia e anestesia di tutte le mie emozioni. Per questo ho deciso d’intraprendere un percorso di analisi attraverso il quale ho viaggiato dentro me stessa, non è stato facile ma ho ricostruito la mia vita e le mie relazioni, ho ritrovato quelle risorse che dentro di me credevo perdute.
Commento all’intervista
Decidere di avere un figlio non è scontato e neanche automatico e per Francesca è stato l’esito di una maturazione affettiva individuale che ha reso possibile l’incontro con un partner adeguato alla condivisione del progetto generativo. La scoperta di limiti biologici alla possibilità di un concepimento naturale ha determinato per Francesca e il marito, l’inizio di profonde e impegnative contrattazioni psicologiche personali e di coppia. Una battaglia segnata da bombardamenti ormonali e, soprattutto, da quelli emotivi, vissuti in solitudine per il bisogno di proteggersi dai forti pregiudizi che nel nostro Paese solo da pochissimo non sono più legittimati da una legge che sanciva la coercibilità del desiderio di un figlio. Un improvviso cambiamento dell’immagine di sé, il lutto per l’interruzione della discendenza famigliare “di sangue”, per il figlio genetico, un percorso durato anni in cui nuovi e differenti equilibri, laceranti momenti di verità e di perdita hanno messo a dura prova le energie di Francesca. Esclusa dal concepimento, fuori da una porta chiusa, una profonda ingiustizia e nessuno cui appellarsi, inseguita dal non potere “essere interessante”, Francesca ha dovuto fare i conti con sentimenti di rabbia e di depressione per un corpo che non poteva “funzionare”, che si rifiutava di generare la vita, compito evolutivo che da sempre contraddistingue l’identità femminile. La ferita nel corpo di Francesca è stata anche una ferita nella sua mente. Procedure mediche invasive, dolorose e talvolta anche mortificanti, hanno minacciato gli ambiti più significativi del suo legame di coppia. Francesca non ha voluto rinunciare e, sostenuta dal suo compagno, ha attinto a tutte le sue risorse per riconoscere la sua capacità materna da quella riproduttiva. Costi emotivi, fisici e finanziari si sono susseguiti con brevi periodi di tregua. Poi Francesca ricominciava. Come se il tempo si fosse fermato perché il pensiero era sempre lì, sempre lo stesso. Sentimenti di umana gelosia e comprensibile invidia abitavano i suoi sogni.
Dopo una lunga stagione di speranze e frustranti delusioni, Francesca è ora all’inizio dell’ultimo trimestre di gravidanza. I sogni di Francesca ci mostrano le tappe più importanti che nella sua mente hanno costituito il passaggio progressivo dal processo di “adozione” dell’embrione ricevuto all’inizio dell’ “affiliazione” del bambino che sta per nascere. Un embrione ancor più portatore di vita perché, come dice Francesca, questa volta è “fresco” (vivo) e non congelato. Termini difficili, inconsueti, che ci confermano quanto gli straordinari progressi scientifici introducono cambiamenti etici e culturali inizialmente destabilizzanti. Francesca nelle prime settimane non “sente” ciò che ha accolto nel suo corpo, ciò che le è stato “donato” e che questa volta non è venuto dal “freddo”. E’ per questo costretta a sentirsi in colpa perché la maternità, nella nostra cultura, è radicata nella realtà biologica del concepimento. Ha bisogno di tempo per fare suo quello che non ha potuto concepire lei stessa ma che già sa appartenerle. La suggestiva trasparenza nel sogno di Francesca ci racconta di un bambino ora presente nella sua mente, un bambino che ora si sente, si “vede”, si muove. Ora che è “suo” può cominciare anche a essere “loro”: allora invita il marito a prendere la mano del bambino, lo invita a cominciare a “toccare” la sua paternità, dà immagini e parole al passaggio dalla diade alla triade: l’ingresso del bambino nella coppia e quello del padre nella diade madre-bambino.
Novembre 2014