Dossier
Espansioni – Declinazioni possibili per una nuova ecologia
2/12/14
Declinazioni possibili per una nuova ecologia
Cono Aldo Barnà
(Revisione aggiornata di un mio scritto)
Una prima, parzialissima risposta all’interrogativo sulle nuove declinazioni possibili della nostra disciplina, nel vertice della costruzione di una nuova ecologia, insiste sulla continuità della nostra ricerca e sul confronto, il più aperto e proficuo possibile, con tutte le ipotesi esplicative del divenire umano, individuale e collettivo.
In una significativa, almeno per me, continuità con i miei interessi culturali e politici di sempre e con quelli specifici di comprensione dei fenomeni psicologici profondi di carattere dinamico, ritengo infatti che lo studio e la riflessione sulle articolazioni individuo-gruppo e su quelle individuo-gruppo-istituzioni, siano oggi, se possibile, ancora più importanti, necessarie e urgenti che mai.
Tutto ciò a plauso e condivisione dell’occasione di riflessione organizzata da Spiweb.
Ma veniamo alla sostanza:
Svolgiamo le nostre riflessioni in una congiuntura socio-politica nella quale si sta declinando l’ipotesi che il futuro sia un’epoca postuma. In un saggio di Massimo L. Salvadori, di qualche tempo fa, si afferma che la fiducia nel progresso complessivo dell’umanità appare come una fede tramontata, un’illusione di altri tempi. Uno dei problemi riconosciuti alla base di questa condizione di sfiducia nel progresso consiste nell’indebolimento della capacità delle istituzioni democratiche del mondo di sottoporre ad un effettivo controllo il potere delle oligarchie economiche e politiche, le quali dispongono di mezzi enormi per influenzare gli strati subalterni a sostegno dei propri interessi.
In termini macro-economici, secondo uno studio di eminenti economisti dell’università di Princeton, siamo di fronte ad un “nuovo paradigma” della globalizzazione che fa preventivare la prossima “delocalizzazione” di circa il 20% dei posti di lavoro delle economie occidentali.
L’analisi della situazione ambientale del mondo denuncia frattanto la scomparsa progressiva delle rane arlecchino: Muoiono disidratate, con la pelle ricoperta da un fungo che ne blocca la traspirazione. Assieme ad altre migliaia di specie si estinguono travolte dalla violenta accelerazione dell’effetto serra. Stiamo cancellando, allo stesso modo, la vita dei 5-10 milioni di specie con cui condividiamo il pianeta a un ritmo che è circa dell’uno per cento l’anno.
Secondo il Living Planet Report per il 2006, redatto dal Wwf, a parte l’effetto serra, preleviamo più acqua, più minerali, più pesce di quanto gli eco-sistemi possano produrre. Sembra così che già a partire dal 2040 i mari saranno spopolati. La calotta di ghiaccio della Groenlandia si scioglie al ritmo di 100 miliardi di tonnellate l’anno. Con tale ritmo si prevede che entro il 2050 saranno scomparse un milione di specie animali e vegetali. Addio Calcutta, addio San Francisco, addio Olanda. Per sopravvivere avremo bisogno di due pianeti.
La probabile fine di quest’era della civiltà è prefigurata dall’ultimo rapporto dell’Intergovernmental panel on climate change.
Uno degli indici di questi effetti è l’estinzione delle specie, che oggi procede allo stesso ritmo di 65 milioni di anni fa, quando un asteroide, caduto sulla terra, fu la causa dell’estinzione dei dinosauri.
L’epoca della civiltà coincide più o meno con l’era geologica dell’Olocene, cominciata undicimila anni fa.
Molti biologi descrivono quanto sta succedendo sotto i nostri occhi come la sesta estinzione di massa della storia della terra, la prima che porta la firma dell’uomo.
Compresa quindi la conclusione, ridicola e tragica insieme, del cosidetto “Antropocene”, il termine con il quale la Commissione Stratigrafica Internazionale, riunita a Berlino, avrebbe proposto di denominare quest’ultima porzione del Pleistocene, iniziata 250 anni fa e nella quale l’attività umana ha cominciato ad avere gravi effetti sull’ambiente (Chomsky: Internazionale n. 1068; Corriere della Sera 24/IX/14).
L’uomo quindi, “creato ad immagine e somiglianza del Creatore di tutte le cose”, l’unico animale capace di speculazione riflessiva, a motivo dell’impressionante sviluppo della sua corteccia cerebrale; ciò che lo rende capace anche di visualizzare il bello, di concepire la morte e di produrre la musica di Mozart. Ebbene l’uomo, nella sua articolazione planetaria individuo-gruppo-istituzione, sta producendo, assieme alla persistenza delle sperequazioni, delle guerre e dei fondamentalismi, condizioni irreversibili di danneggiamento del suo habitat!
Certamente tutto ciò è relativo a un fallimento della politica e soprattutto del dialogo tra i vari modelli di sviluppo, che si stanno rivelando insufficienti e incongrui rispetto alla distribuzione delle risorse, al mantenimento della pace e alla stessa sostenibilità ambientale da parte del nostro pianeta.
Ma è più profondamente un fallimento e una condizione inquietante dell’uomo, del suo “buon senso” e delle prerogative costruttive delle formazioni collettive in cui egli si declina: soprattutto delle istituzioni che si è dato.
Un fallimento “antropologico” direi. Ciò che ci fa parlare dell’uomo come “animale sbagliato”: alla fine sostanzialmente distruttivo e incapace di sopravvivere alle contraddizioni che crea e in cui si avvita.
A proposito di tutto questo, nel tentativo di capire tale tragica evoluzione e le insistenti difficoltà a cercare utili rimedi di “civiltà”, ci vengono in aiuto per prime le categorie metapsicologiche formulate da Freud a proposito dell’individuo e delle formazioni sociali. Penso ad esempio alla sua teorizzazione dell’istinto di morte o dell’origine cruenta della comunità dei fratelli: il famoso “pasto totemico”. Ma soprattutto ci vengono incontro le preziose teorizzazioni di tanti autori sugli aspetti narcisistici distruttivi dei gruppi umani e delle istituzioni “in sofferenza”.
Basti ricordare a proposito gli studi di Erikson o di Rustin su individuo e società, quelli di Kaes sulla psicopatologia dei legami istituiti, quelli di Kernberg sull’evoluzione paranoica nelle organizzazioni o quelli di Green, di Enriques o di Diet sul lavoro della morte e della distruttività nelle istituzioni.
Non mi sembra quindi che certe letture dell’istituzione appartengano alle ubbie di una generazione radicalmente anti-istituzionale. Esse, più e oltre che all’estensione del “senso comune”, appartengano all’analisi della distruttività ineluttabile dell’individuo e del gruppo e alle forme antiche e moderne in cui si essa si declina nonostante le nostre aspettative professionali e politiche.
Potremmo dire con Kaes che: “entriamo nella crisi dei tempi moderni quando sperimentiamo che le istituzioni non assolvono più alla loro funzione principale di continuità e di regolazione” (Kaes 1988).
Ho l’impressione che il modello di sviluppo capitalistico abbia sancito l’evoluzione moderna antagonista dei contesti umani gruppali, giustificando in termini funzionali gli aspetti psichici profondi di carattere narcisistico operanti in essi a discapito delle valenze solidaristiche e cooperative basate sui movimenti depressivi di “accoppiamento”.
Ma prima di concludere questo breve excursus vorrei riferire di un modello apparentemente molto lontano dal metodo ermeneutico e/o psicoanalitico. Un modello che a prima vista puzza di riduzionismo e/o di determinismo, ma che ho l’impressione si possa utilmente articolare con la nostra riflessione e con l’aspettativa di accrescere la nostra comprensione dell’attuale congiuntura storica.
Mi riferisco alla proposta è di Edoardo Boncinelli, un fisico prestato alle neuroscienze e alla socio-biologia, che a me sembra si articoli utilmente con le nostre preoccupazioni di oggi.
Il modello è tratto soprattutto da un suo scritto dal titolo: “Necessità e contingenza della natura umana” (Boncinelli 2005).
Egli propone che il modo migliore per superare i vincoli che ci condizionano, come individui e come specie, è quello di conoscerli sempre meglio.
Precisa quindi che nel cercare di definire l’essenza della natura umana è opportuno distinguere fin dall’inizio la natura dell’individuo singolo da quella del collettivo.
Ciò in realtà diverge dalle convinzioni alle quali noi siamo giunti, nella nostra ricerca a proposito della dimensione collettiva interiorizzata del singolo.
In questa visione dell’individuo e della gruppalità della mente siamo debitori di tutta la tradizione psicoanalitica, a partire da Freud per giungere, attraverso la Klein e Meltzer a Bion; mediante cioè la formulazione di tutti quei concetti che hanno, prima, fondato l’esistenza del “mondo interno” e poi quello di “gruppalità interna”, di “campo”, e di “interiorizzazione transgenerazionale” del soggetto.
Ma seguiamo ancora per un po’ le articolazioni del pensiero di Boncinelli.
Egli ci ricorda che in estrema sintesi come singoli uomini siamo “animali” –con caratteristiche del tutto peculiari, ma sempre animali- prodotto di un’evoluzione biologica fondamentalmente cieca e opportunista; mentre il collettivo umano, e con lui l’individuo che vi appartiene, è figlio di una continuità storica e culturale, longitudinale e trasversale, che non ha l’eguale in nessun altro tipo di realtà.
L’uomo quindi come animale sociale e come animale culturale, fornito, dopo Freud, di una mente inconscia, precedente e sottostante alla coscienza, che lo agisce continuamente nelle sue scelte e nella declinazione politica.
Ma anche l’unico animale, apparentemente profondamente riflessivo. Infatti per poter vivere alla sua maniera l’uomo deve comprendere il più alto numero possibile di nessi causali e lo scopo delle azioni degli altri esseri viventi.
Rispetto agli altri primati, anch’essi, se pure in maniera minore, riflessivi, l’uomo, essendo anche dotato di pensiero astratto, è necessariamente sollecitato anche da domande relative ai nessi causali e finalistici della sua stessa esistenza individuale e collettiva.
Come e più degli altri animali, anche noi umani viviamo un’intensa vita emozionale che in buona parte si appoggia su strutture biologiche identiche a quelle degli altri esseri viventi, ma anche qui con l’unica differenza dovuta al ruolo profondamente differenziante di una corteccia cerebrale eccezionalmente sviluppata.
Negli ultimi 2,5 milioni di anni, dalla comparsa cioè del genere Homo, il cervello si è evoluto in modo esponenziale, anche se tale accrescimento, negli ultimi 200,000 anni si sarebbe arrestato così che per Gerald R. Crabtree, dell’Università di Stanford, saremmo già ora meno intelligenti di quanto lo eravamo da cavernicoli ( Martino G. 2013).
Le nostre emozioni inoltre sono assolutamente necessarie per affrontare la vita nella maniera più appropriata.
Se dovessimo basarci su criteri razionali saremmo infatti molto più lenti nel decidere o potremmo anche non decidere mai su molte questioni. Saremmo quindi esposti, dal punto di vista della sopravvivenza, a conseguenze catastrofiche. E chissà che non stia avvenendo, seppure con una latenza di alcune migliaia di anni.
Ma torniamo alle istituzioni all’origine della nostra condotta individuale e collettiva.
Un primo vincolo ineluttabile è quindi quello che va sotto il nome di “determinismo genetico”. In buona parte la nostra condotta è infatti vincolata dai limiti del nostro patrimonio genetico, la nostra condotta ma soprattutto quello che siamo in termini fisici e di dotazione mentale. Per fortuna non completamente. Non si tratta di un determinismo assoluto, abbiamo una relativa libertà e ciò per almeno due motivi che ci riportano al nostro tema: intanto perché possediamo un sistema nervoso e uno sviluppo psichico troppo complessi per essere determinati in ogni loro dettaglio dai geni presenti nel nostro genoma.
Tra parentesi vorrei anche precisare che essendo stati capaci di conoscere il nostro genoma, la nostra libertà potenziale e la nostra responsabilità si accrescono nel senso di poter modificare questo stesso vincolo deterministico e quindi l’istituzione interna rigida che esso rappresenta.
In secondo luogo siamo ineluttabilmente immersi in una dimensione collettiva, in una società depositaria di un’evoluzione culturale che sollecita una grande varietà di comportamenti possibili e quindi una grande libertà.
L’uomo è un animale sociale, anche se meno perfetto e compiuto dei membri di altre specie, come ad esempio gli insetti sociali, ma il punto di vista fondamentale è che l’uomo deve assolutamente essere sociale per essere uomo.
Non tanto e non solo perché vivere in comunità è utile per condurre una vita migliore, ma perché è il vivere in un collettivo, almeno per un lungo periodo iniziale, che fa di un essere umano un essere umano. Si direbbe piuttosto un animale sociale obbligato o meglio ancora un animale culturale obbligato, animale della famiglia, del gruppo e della polis.
Alla nascita quindi siamo animali evoluti che possiedono nel loro patrimonio genetico una “saggezza” biologica, frutto di milioni di anni di evoluzione, ma niente di più.
Tutti gli elementi ulteriori della “ominazione” di ognuno di noi dipendono da un’altra istituzione: dall’ambiente affettivo prossimo e da quello culturale e formativo di riferimento. Oggi quindi anche dal grande potenziale informazionale della nostra epoca.
Biologicamente l’uomo non è più del prodotto del suo patrimonio genetico, che è rimasto sostanzialmente lo stesso negli ultimi centocinquantamila anni.
Ma il suo inserimento “sociale”, fin dai primi anni di vita, in un universo culturale, in primo luogo linguistico, ne fa quasi subito un essere molto diverso da qualsiasi altro animale.
Ci sono migliaia e migliaia di microscopiche connessioni tra le diverse cellule cerebrali che non sono determinate dal patrimonio genetico e che sono invece stabilite sulla base delle esperienze della prima infanzia o per opera del puro caso. Da quello che complessivamente può essere considerato l’epigenoma, compreso l’epigenitic genomic imprinting (Ferguson-Smith, 2011)
A queste vanno aggiunte le determinanti inconsce che con sempre maggior convinzione vengono ipotizzate nella nostra osservazione, determinanti per la vita del soggetto e anche dei gruppi, che intendiamo con il termine di transgenerazionale e che abbiamo il problema di collocare sia in termini biologici che culturali nella eredità psicologica degli individui.
L’importanza delle connessioni non determinate geneticamente cresce significativamente nell’uomo a causa della notevole estensione della fase dello sviluppo, per quanto riguarda particolarmente il cervello e quindi la mente individuale ma anche sociale dell’uomo.
Lo sfasamento temporale della nascita culturale rispetto a quello della nascita biologica dell’uomo non è un fenomeno da poco. Ci permette di essere uomini del nostro tempo con relativamente poco sforzo, ma non ci vincola alla cultura di una specifica regione o di un determinato periodo storico: con lo stesso genoma si può essere uomini della Mesopotamia di sei millenni fa, cittadini dell’antica Roma, predoni nomadi delle pianure dell’Asia centrale o intellettuali mitteleuropei del XX° secolo.
Generazioni e generazioni di individui possono così “respirare” un particolare clima culturale e viverci immersi senza che i loro discendenti siano necessariamente vincolati a quello. In questo modo c’è spazio per il cambiamento e per quella che viene comunemente chiamata evoluzione culturale, senza che questo conduca alla fissità e che vincoli troppo strettamente il futuro.
Abbiamo quindi da prendere in considerazione l’intreccio reciproco di almeno tre fattori determinanti la nostra disposizione individuale assieme alle caratteristiche della comunità che fanno da mediazione tra l’individuo e le istituzioni sociali.
Ai contributi della storia del genoma e di quella delle strutture biologiche necessarie per decifrarlo e attualizzarlo, (il cervello soprattutto e quindi la psiche come derivato funzionale dello stesso e come insieme delle competenze cognitive e affettive sviluppate), si aggiungono quelli della storia culturale come determinante di carattere forzatamente collettivo.
Abbiamo a che fare quindi con un’articolata e complessa azione antropo-poietica dalla cui integrazione e dalla cui “interpretazione” origina il nostro sé individuale e la nostra “valenza” gruppale.
Essa è più e diversa della “valenza” gruppale degli animali sociali, ma rimangono da comprendere meglio le determinanti specifiche delle nostre formazioni collettive e soprattutto le potenzialità “trasformative” che la nostra ricerca deve individuare più chiaramente prima di poterci arrogare la competenza di intervenire come agenti del cambiamento.
Ciò non ci impedisce comunque di operare, individualmente e come gruppo, all’interno di tutte le situazioni che hanno riconosciuto la nostra competenza e che ci hanno permesso di esercitarla.
In ciò siamo debitori di tutti i contributi provenienti dalla nostra cultura di riferimento, dalla ricerca di tanti Autori, ma soprattutto dalla prosecuzione del nostro impegno nella ricerca e nel confronto delle nostre idee ed esperienze.
Cono Aldo Barnà
cobarna@alice.it
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00186 Roma