Dossier
Corpi mutanti
20/03/16
Il tema delle nuove genitorialità – che vede affermarsi il concetto di istinto parentale su quello, tradizionale, di istinto materno – dischiude la riflessione intorno a questioni di straordinaria portata speculativa in un’epoca, come la nostra, caratterizzata dall’espansione incontrollata di Τέχνη (della tecnica), che pare tesa a varcare ogni soglia e a oltrepassare ogni limite. La nostra è l’era delle ibridazioni transumane. Vere e proprie chimere post-moderne, prodotte dagli stupefacenti transiti attraverso il corpo delle nuove biotecnologie dell’ingegneria genetica e dell’epigenetica, della ricerca robotica, protesica e trapiantologica. Negli ultimi decenni il corpo, da «angolo più realmente fradicio di psiche» (Bonacchi, 2003), sta trasmutandosi in un vorace contenitore di “tecnica”, acquisendo così un’inedita natura, fatta non solo di legato genetico ed ambiental/esperienziale, ma pure di macchina: un corpo in costruzione tra organico ed inorganico, tra cellule viventi e composti metallici. Il corpo contemporaneo è il luogo di «ricombinamenti» genici e di «concatenamenti macchinici, dove l’estensione dell’inconscio si congiunge alla contaminazione tecnologica» (Macrì, 1998).
Gli antropologi ci indicano che le corruzioni tra corpo e cosa stanno creando una «carne robotica» esposta a continue mutazioni, con ricadute imprevedibili sulla dimensione somatopsichica dell’individuo. L’opera del celebre cyberperformer australiano Stelarc rappresenta la massima espressione in campo artistico e culturale della fusione corpo umano e macchina.Diversi studiosi della psiche si sono interessati al rivoluzionario messaggio di questo precursore, tra i quali Lemma, che rimarca come Stelarc invochi «simultaneamente un’immagine di libertà infinita e di autodeterminazione (…) e di controllo a distanza», in un atto estremo di autogenerazione del Sé (2005).
Stelarc, The Third Hand (innesto corporeo di un braccio meccanico azionato elettronicamente)
Ormai l’ingegneria genetica riesce a manipolare e a modificare agilmente il DNA umano. Gli epigenetisti parlano di “illness (and life) in the dish”: la malattia e la stessa vita stanno collocandosi fuori dal corpo (nel piattino in laboratorio), per poi essere reinserite nel tessuto somatico individuale, rimodellandolo e rendendolo trasmissibile alle generazioni successive.
La “corporeità biotecnomutativa” ha assunto un’assoluta centralità culturale e politica. Ma pure psicoanalitica: la fusione tra materia animata e materia inerte sta forgiando ibridi intensamente perturbanti e sta iniettando disordine nella vita istintuale e nel pensiero. L’inquietante Olimpia, la bambola «simile a persona umana» creata dallo scienziato Spallanzani nel celeberrimo racconto di Hoffmann, Der Sandmann (Il mago Sabbiolino, 1815), è l’ambigua figura che, come ben si sa, ha agitato il pensiero dello stesso Freud ne Il Perturbante (1919). Olimpia, l’automa dotato di movimento e voce di cui il giovane studente Nathaniel s’innamora perdutamente, sino ad impazzirne, costituisce un oggetto fortemente perturbante, in quanto fonte d’«incertezza intellettuale se qualcosa sia o non sia vivente, o quando ciò che è privo di vita si rivela troppo simile a ciò che è vivo» (Freud, 1919).
Per il filosofo Carlo Sini, in dialogo con il testo Storie di automi (1990) di Mario Losano, la definizione di automa, «della macchina pensante», soggiace ineludibilmente all’ambiguità. La biotecnologia moderna pare stia svelando il mistero antico della macchina/automa, che racchiude «il segreto stesso della vita umana, presa tra sapere della morte e l’antico sogno di vita eterna» (Sini, 2009).
Il corpo attuale si sta trasfigurando in «uno spazio mobile pronto per essere dipinto, perforato, scarificato» (Yehya, 2001), plasmato con diverse finalità (estetiche, comunicative, curative), ma con la comune idea di poter espandere oltre ogni limite i suoi profili. Un “corpo senza confini”, che dilata all’infinito le sue propaggini, tentando di esercitare un controllo onnipotente sull’esistente. E sulla morte. Con una sorta di operazione di autogenerazione narcisistica, l’uomo può agire la fantasia di sostituirsi alla coppia genitoriale creativa, alla natura, a Dio.
Tralasciamo qui di toccare lo sterminato tema della realtà virtuale, quella cyberzone dove si può «creare/sostenere l’illusione della disincarnazione» (Lemma, 2015). Dove il corpo sessuato pare condannato a svanire. Un residuo ormai obsoleto. La problematica che stiamo trattando, infatti, non è quella di “assenza di corporeo”, propria della dimensione virtuale, bensì quella di “un eccesso di corporeo”, dove il somatico è amplificato dall’innesto di sostanza sintetica. «Farsi veste estranea» – spiega il filosofo Perniola – gli organi diventano «abiti cui saltano bottoni e cuciture, (…), si possono così unire e separare secondo nuovi criteri» (Perniola, 1994).
E l’utero della donna con la sua funzione riproduttiva è, forse, l’organo che più si è fatto «veste estranea» e che ha subìto la più profonda e brutale metamorfosi, anche sul piano simbolico. Le strabilianti acquisizioni della genetica riproduttiva e della chirurgia ostetrico-ginecologica stanno rivoluzionando il concetto di maternità, di paternità e di genitorialità. Nel presente dossier ci sono altri interventi dedicati proprio ad indagare le ricadute psichiche sul figlio, sui genitori e a livello socio/culturale di queste nuove famiglie, formate da coppie etero e/o omoaffettive, che hanno dato vita ad un bambino ricorrendo ai vari tipi di fecondazione assistita o alla surrogacy (maternità surrogata).
In questo contributo preme specialmente mettere in rilievo come queste tecniche avveniristiche stiano sempre più disgiungendo la funzione generativa dalla sessualità. Il desiderio sembra non poter sostare a lungo nell’area della fantasia, ma deve essere quanto prima e necessariamente soddisfatto. L’immaginario diventa subito “gesto”, si traduce in un’azione concreta, provocando il collasso del registro simbolico sulla realtà (Corsa, 2015). Questo discorso non vale soltanto per le moderne pratiche di fecondazione assistita, ma va tenuto presente ogni qualvolta si affrontano i risvolti psichici delle più avanzate biotecnologie. Un “eccesso di corporeo” – come segnalavamo prima – immiserisce il mentale e schiaccia il versante simbolico.
Ci permettiamo ancora qualche considerazione generale. Le conquiste della chirurgia e delle nanobiotecnologie stanno conducendo, ineludibilmente, ad un accorciamento drammatico dei tempi biologici, che tendono sempre più a coincidere con quelli storici. Antropologi e filosofi della scienza annotano che mentre lo sviluppo dell’umanità si è misurato su tempi biologici assai lunghi e dettati da una sostanziale stabilità – cioè i cambiamenti biologici si sono verificati con grande lentezza – le recenti, estreme biotecnologie comportano una ricaduta inattesa, un adattarsi non voluto, e talora inconsapevole, dei tempi biologici ai ritmi storici (Vineis, 2008; Pievani, 2011). E questo fenomeno produce un ampliamento a dismisura delle regioni dell’esistenza che il pensiero stenta a raggiungere e a raffigurare a livello simbolico. Pianeti lontanissimi, sui quali l’analista si può trovar d’improvviso catapultato.
L’epoca attuale richiede alla psicoanalisi di allargare il suo campo di riflessione agli inediti paradigmi della scienza, che stanno sconvolgendo il concetto stesso di “umano”. Queste sono – e vieppiù saranno – le nuove frontiere della psicoanalisi, anche in campo clinico. I pazienti che si distendono sui divani analitici abitano questo mondo in vorticosa trasformazione. E la psicoanalisi ha bisogno di arricchire la sua strumentazione per fronteggiare le provocazioni della contemporaneità, intensamente distruttive per il pensiero. Ci chiediamo, allora, se la modernità liquida che si è imposta nel secolo breve dovrà lasciare il passo ad una modernità artificiale, sprovvista di sangue e di carne ma capace di spostare i limiti sempre “oltre”, denegando la realtà della finitezza. Una modernità sintetica, popolata da corpi mutanti, transumani, colonizzerà il futuro prossimo? Il vecchio, stereotipato «mantra» del Novecento, «Dio è morto», verrà sostituito da un inedito lamento sacro che reciterà «il genere umano è morto» (Bollas, 2015)? E ancora: la psicoanalisi sarà in grado di «trovare una casa psicologica» idonea a contenere e a contrastare «la ristrettezza mentale» e l’impoverimento del registro simbolico, che connotano questo inarrestabile processo di «disumanizzazione» (Brenman, 2006)?
Non abbiamo alcuna risposta certa a tali vertiginosi interrogativi, ma ci piace concludere facendo nostro il vaticinio con cui Bollas chiosa le sue riflessioni all’ultimo Congresso I.P.A. di Boston: «(…) le generazioni del ventunesimo secolo ricevono in eredità un mondo del mentalmente compromesso, anche se rimane sempre la speranza nella notevole resilienza innata dell’essere umano» (Bollas, 2015). Resta ancora la speranza nella capacità dell’uomo e della stessa psicoanalisi di costituire legami viventi reciproci. Umana-mente.
RITA CORSA è psicoanalista, Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana