Dossier

Carla Busato intervista Massimo Salani: siamo ciò che mangiamo

17/04/19

 Massimo Salani, è docente di Storia delle Religioni e Patrologia allo Studio Teologico Interdiocesano di Camaiore (Lucca) e di Storia  delle Religioni Patrologia all’Istituto Superiore di Scienze Religiose(ISSRT) polo di Pisa.

Carla Busato Barbaglio, Psicoanalista con funzioni di training SPI-IPA; Esperta di bambini adolescenti e famiglie SPI-IPA  e modello Tavistock. Responsabile del Servizio di Consultazione  per bambini, adolescenti e famiglie  del Centro di Psicoanalisi Romano (CdPR)

 

Carla Busato intervista Massimo Salani
 ‘Noi siamo ciò che mangiamo’ – Cibo e cristianesimo

 

‘A tavola con le religioni ‘è un testo molto curioso, ricco, interessante che porta in copertina una corona di bei peperoncini   e nella quarta di copertina così si presenta: le religioni, le norme alimentari, gli aspetti teologici, le questioni aperte e oltre 50 ricette -dagli antipasti ai dolci- per assaporare tutta la ricchezza delle principali tradizioni gastronomiche. Un interessante volume che mette insieme livelli diversi di lettura di questo tema; da una attenta esegesi,  alle ricette delle tradizioni  nelle varie religioni.

Massimo Salani  è l’autore di questo volume oltre a molti altri  scritti di approfondimento su questo tema. E’ docente di Storia delle Religioni e Patrologia allo Studio Teologico Interdiocesano di Camaiore (Lucca) e di Storia  delle Religioni Patrologia all’Istituto Superiore di Scienze Religiose(ISSRT) polo di Pisa.

Ho chiesto al professor Salani  una intervista su cibo e cristianesimo e anche un titolo a questa intervista. La sua proposta ”Noi siamo ciò che mangiamo”.

 

Ora, partendo proprio dal titolo, la prima domanda  che mi  si pone riguarda esattamente il senso  per la Chiesa di mettere  al centro della messa un cibo che va mangiato; il pane e il vino , un qualcosa di molto concreto che si fa simbolo di altro.

 

Il Cristianesimo pone al centro della fede la figura di Gesù di Nazaret. È l’Emmanuele, il Dio-con noi, Dio che si fa uomo, l’immagine di Dio sulla terra.

Tutto ciò che fece e disse Gesù è al centro della fede così come lo è il testo, la Parola di Dio, il Libro, cioè la Bibbia che narra non solo Gesù di Nazaret ma l’intera storia di salvezza. Cioè, quanto precede la sua venuta e cosa avvenne dopo il suo ritorno al Padre.

Quanto sopra, chiamiamola introduzione, trasuda di cibo, deve stimolarci l’odorato e permette di sentire la fragranza del cibo.

Non può essere un caso che la Parola inizi con una scena dove al centro c’è un frutto (Genesi), un cibo e un alimento e termini con una cena (Apocalisse) proposta come premio finale dove il cuoco è Dio stesso e noi i suoi commensali.

Al centro della Parola troviamo Gesù: un “mangione e un beone”(Mt 11,19 ) che attraverso il cibo e le bevande (certo, non solo) ha trasmesso il suo insegnamento. Oltre alle note scene dei banchetti cui partecipò, alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, guarda caso, la scena centrale negli eventi della sua passione, troviamo l’ultima cena. Un gesto così decisivo per la nostra fede da essere reiterato liturgicamente.

Gli oggetti? Un tavolo (altare) dove sono collocati pane e vino.

Tanto per intenderci: Gesù, di se stesso, dice “Io sono il Pane”.

E sempre per ribadire: una volta risorto, Gesù il cui appellativo diverrà “Signore”, sarà presentato anche come cuoco che cucina pesce per i suoi amici! (Gv 21,9-13)

Non è possibile, dunque, rimuovere o ridurre la presenza del cibo nella fede cristiana pena la depauperizzazione della fede stessa.

 

Se al centro della liturgia  viene posto  un cibo vero come  mai  e perché nella chiesa fanno parte del rito i digiuni con tutti i significati  legati alla penitenza?

 

Posta le centralità del cibo / bevanda nella liturgia (ma ricordiamo la presenza di altri alimenti il cui significato simbolico è enorme, come lo è l’olio) semplicemente perché ancorate nella figura stessa di Gesù e attestate nella Parola di Dio, non deve in alcun modo meravigliare la scelta anche di allontanarsi dal cibo stesso.

L’astinenza come il digiuno, in analogia con quanto proposto poco sopra, trovano la loro ragione in quanto rimandano anch’essi sia alla figura di Gesù che alla Parola in generale.

Il digiuno è largamente presente nell’Antico Testamento come lo è nel Nuovo: il Battista digiunava; Gesù stesso  digiunava. Come loro, anche noi siamo chiamati ad un rapporto con il cibo improntato ad uno stile alimentare che prevede astinenza e digiuno.

Sono valori in sé: astinenza e digiuno sono strumenti, occasioni, momenti per instaurare un rapporto diverso con Dio. Sono preziose opportunità perché anche il corpo partecipi, nella sua totalità, all’incontro con Dio.

I Padri della Chiesa non disgiungevano mai il digiuno dalla preghiera e dalle opere di carità: senza le ultime, il solo digiuno non aveva senso.

Vivere la scelta dell’astinenza e del digiuno alimentari (anche se le indicazioni del Magistero allargano il campo anche a scelte non solo alimentari) permette, così, un approccio forte ed intenso per cogliere meglio la bellezza e la ricchezza (anche alimentare) delle feste religiose:

prima della Pasqua conosciamo il tempo di Quaresima; prima del Natale, quello dell’Avvento, poi…

Poi la storia della chiesa insegna che prima delle solennità, sempre si vivevano periodi, più o meno intensi (come le “quaresime” e le “novene”) dove il fedele si preparava spiritualmente allenando anche il suo corpo per vivere più intensamente la gioia e la festa dell’incontro con Dio che irrompe nella quotidianità della vita umana con la festa religiosa.

Legare il digiuno alla penitenza è solo un modo per far percepire questa realtà che è molto più   variegata. Basti pensare  ad un digiuno di cui si sono perse le tracce: il digiuno eucaristico. Il suo “senso” non era riconducibile alla penitenza, ma alla consapevolezza che dopo un giorno, poi ridotto ad alcune ore, oggi del tutto taciuto il fedele avrebbe ricevuto un pane che è il Pane. Non era possibile “confondere” un alimento (la colazione) con Dio che si fa presente nell’ostia, che è un pane – Corpo di Cristo. Dovremmo davvero recuperare il valore autentico del digiuno (e dell’astinenza) legandolo maggiormente non  ad una prospettiva punitiva e dolorosa quanto alla speranza di facilitare l’incontro con Dio, certi di accettare una scelta vissuta anche da Gesù.

 

Perché nel cristianesimo non c’è nessun divieto su nessun cibo , così mi sembra, come invece nelle altre religioni quali l’ebraismo ,l’islamismo?

 

Ogni religione chiede il rispetto di una normativa alimentare.  Si conoscono religioni con precetti molto rigorosi e dettagliati come per l’ebraismo (alimentazione kasher) ed altre con prescrizioni più limitate come per l’islam (alimentazione halal).

In tutte queste normative troviamo dei precisi divieti che colpiscono alcuni cibi: primo e più importante fra tutti, la carne. Soprattutto, la carne di alcuni animali: il caso del maiale è quello tra i più noti.

Anche la religione cristiana ha una normativa alimentare. Diversa, rispetto le altre, ma presente, il cui valore religioso è stato messo  in evidenza poco sopra. Prevede tempi  dove allontanarsi dal cibo; conosce cibi che trasmettono le conoscenze religiose (pensiamo al cibo delle feste: forse ci siamo dimenticati che certi cibi permettono di ricordare anche personaggi del Nuovo Testamento o Santi); chiede la preghiera sul cibo (una prassi come il digiuno eucaristico in via di estinzione). Ma non vieta mai un alimento in  quanto tale.

La ragione non può che essere sempre e solo alla nostra   portata prendendo in mano la Parola di Dio e guardando alla figura del Figlio del Padre. Quel “mangione e beone” che non si  negava mai ai banchetti, che spesso era invitato e che talvolta comunicava direttamente a chi lo ascoltava che sarebbe stato suo ospite a tavola, il Maestro è lo stesso che insegnava ai discepoli che non è tanto importante quello che si introduce dentro la bocca. Il pericolo è quello che esce dalla bocca dell’uomo. (Mt 15,11)

La libertà alimentare inaugurata da Gesù è un tassello del suo insegnamento più organico e completo che fa, comunque, della libertà, la cifra più importante. Anche in campo alimentare.

La Creazione non è segnata da alcuna negatività (era tutto buono) né la creatura può interdire alcunché della creazione divina: il libero arbitrio, dottrina fondamentale del cristianesimo, permette al cristiano di vivere la sua fede a tavola senza alcun impedimento.

Si conoscono, dunque, cristiani vegetariani e vegani sulla base dell’alimentazione della prima coppia genesiaca, altri che per motivi presenti nella Parola sono carnivori, in  quanto Gesù stesso mangiava carne.

E, come certamente Gesù in  quanto ebreo non poteva che condividere con i suoi discepoli l’alimentazione kasher e dunque non consumare molte carni, tra queste quelle del maiale, altri cristiani che altrettanto legittimamente mangiano tutto quello che il Creatore ci ha offerto semplicemente perché il Maestro ci ha insegnato l’importanza del cuore e non dello stomaco.

Anche se attraverso il cibo siamo capaci di mostrare la nostra fede nel Figlio che ci ha resi liberi dalla legge che ci imprigionava.

 

Perché il cibo è cosi importante nel cristianesimo?

 

Il cibo è importante in ogni religione. In misura diversa e con caratteristiche proprie, non si conoscono religioni che rifiutino di indicare ai fedeli come comportarsi con il cibo.

La Parola di Dio ci insegna che attraverso il cibo Gesù di Nazaret ha trasmesso il suo messaggio (pensiamo alle parabole), ha condiviso con i suoi amici la fame e la sete e gioito in occasioni come le nozze ( Mt 25,31ss).

Sappiamo l’importanza dei gesti compiuti dal Salvatore come le ripetute scene nei vangeli della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Anche in campo alimentare, il Nazareno fu tentato da Satana: segno chiaro di come il cibo sia al tempo stesso “luogo” di tentazione (vedi il peccato di gola) come “occasione” per conoscere ed incontrare Dio.

Il cibo, che è un valore in sé, è una chiave interpretativa della Parola   della figura del Signore:

il Messia nasce in una cittadina (Betlemme) il cui nome può indicare anche “città del pane”. E Gesù dirà di se stesso: “Io sono il Pane di vita”!

Quando il Galileo di Nazaret vorrà far percepire le cose ultime, quando tenterà di dipingere lo scenario del Regno di Dio, si servirà ancora una volta dell’immagine – simbolo del cibo.

Ecco, così, la parabola del banchetto nuziale.(Mt 22,1-11;Lc 14,15-24)

E se anche la suggestione è particolarmente “forte”, amo ricordarmi e proporre l’entusiasmante scena di Genesi, quando Abramo incontra tre sconosciuti ed offre loro un banchetto. I tre sconosciuti sono stati ripresi dall’iconografia in diversi modi.

La lettura cristiana della pericope biblica ha immortalato l’episodio (sulla base della Lettera agli Ebrei) con la suggestione che i tre sconosciuti non  fossero che le Persone della Trinità cristiana. Sono immortalate sedute a tavola con l’uomo ( si intende l’umanità, potrebbe essere reso  anche con “le creature”) che cucina (Sara  Gen 18,6) e che li serve (Abramo Gen 8). Una convivialità di Persone che banchettano con gli uomini.

Davvero difficile trovare analogie in altre religioni!

Il cristianesimo sceglie come cibo il pane e il vino quali simboli che però appartengono ad  una categoria antropologica comprensibile solo ai popoli mediterranei e non per esempio per gli esquimesi. Questo simbolo viene proposto-imposto a tutto il mondo, quindi un particolare cibo con pretesa di universalità

 

Il mar Mediterraneo ha “partorito” le tre religioni del Dio Uno.  Ed infatti è giustamente definito la “culla” delle tre religioni.

Ebraismo, Cristianesimo ed Islam condividono l’importanza del cibo come veicolo di incontro con Dio. Tutte e tre assegnano al pane un valore enorme. Pur nella differenza, riconoscono al vino un significato ricchissimo. E chi pensa che l’Islam sia noto, giustamente, per la proibizione dell’alcol, ricordo che sia lo stesso Corano prefigurando lo scenario dell’aldilà, sia la visione sufi dell’Islam come la letteratura (vedi “Le mille e una notte”)  rivalutano il vino.

Solo nel Cristianesimo, pane  e vino, ma anche al suo interno, percepito in modi diversi (pensiamo alla posizione di alcuni fratelli evangelici), assumono una dimensione non riscontrabile in nessuna altra religione. Sono il Corpo e il Sangue del Figlio di Dio, nato, morto e risorto per tutti gli uomini. Per i cattolici è un dato di fede. Ed è la ragione per cui, l’attività missionaria, imponeva che  nelle bisacce dei missionari, oltre alla Parola di Dio, non mancassero i semi di grano per coltivare frumento (pane) e là dove possibile, piantare vigne per vendemmiare (vino).

Tuttavia, non mancano religioni che, sempre servendosi del cibo, propongono ai fedeli percorsi di fede simili. Per il cristiano, ovviamente, non si tratta di riconoscere lo stesso valore altissimo del pane-vino // Corpo e Sangue di Cristo, in altri alimenti.

Ma è un dato rintracciabile come gli Aztechi, giusto per fare un primo esempio,  praticassero il rito teoqualo che indicava la prassi di mangiare Dio (si tratta di una pasta con semi di papavero). Nota poi in quelle popolazioni è la bevanda degli dèi: chi come il sottoscritto ama bere cioccolata, dovrebbe ricordarne il valore religioso che la bevanda assume in alcune religioni.

Non molto diversamente, lo shintoismo in Giappone pratica il rito  dello saké come bere dal cereale dono della dea: quasi un bere Dio.

Pertanto, se è senz’altro un dato di fatto che il binomio pane-vino è paradigma della religione cristiana, non mancano altri cibi che, in qualche modo, traducono lo stesso valore con alimenti diversi.

 

Come si può dialogare con le altre religioni se i simboli sono così culturalmente localizzati?

 

La ragione del mio interesse per il cibo è strettamente legato al dialogo interreligioso, unico percorso che ritengo plausibile ed auspicabile nell’epoca che viviamo e compito preciso di tutte le religioni.

Il cibo è uno strumento assolutamente privilegiato per conoscersi, dialogare, vivere la convivialità. Ritengo importante, alla luce di quanto scritto poco sopra, impostare, costruire e sviluppare quella che definisco “teologia alimentare”.

Se ogni religione conosce una normativa alimentare, forse, significa che esiste una sorta di koiné alimentare che può essere condivisa.

Come potrebbe essere che alla base di ogni prassi alimentare esista qualcosa che accomuni o avvicini le religioni, salvo, ovviamente, marcare anche ciò che le distingue e le caratterizza.

Nel quadro che racchiude le diverse normative religiose, è possibile riconoscere pennellate di prassi che sicuramente le avvicinano.

Tutte propongono ai fedeli il digiuno come una alimentazione equilibrata; tutte offrono preghiere sui cibi ed invitano alla preparazione e al consumo di piatti speciali in occasioni delle feste religiose.

Ed è ampiamente presente in molte religioni la raffigurazione dell’aldilà attraverso il cibo.

Il dialogo scaturisce ogni volta con facilità quando ci troviamo seduti intorno ad una tavola per mangiare. Magari mangiamo cibi diversi, in modi diversi, con posate diverse. Da  qui un altro comune alle religioni: la convivialità come occasione, insieme, mangiando, di ringraziare Dio.

Ma se tutti riconosciamo la presenza di Dio, non possiamo negare la sua opera creatrice. Il cibo, così, è dono di Dio: l’uomo è autorizzato a manipolarlo (da qui, la diversità), ma la premessa sta nel riconoscere l’assoluto protagonismo di Dio.

La teologia alimentare dovrebbe occuparsi, ancor prima del valore simbolico del cibo, del suo essere dono da parte di Dio. La preghiera sul cibo va in questa direzione, ed è praticata (  più o meno, ed il meno riguarda noi cristiani) da ogni religione.

Ma il cibo poi traduce l’appartenenza anche culturale. È giusto ed è ovvio. Il pane lo consumano tutti i popoli che si affacciano sul bacino del mar mediterraneo: ma se lo prepari con lo  strutto non è più così (Islam); quello senza lievito rimanda a precisi contesti religiosi (Ebraismo) e solo per una religione (Cristianesimo) Dio si è presentato come “Pane”. Ed in questa religione, conosciamo un Figlio che ha consegnato una sola preghiera: il Padre nostro.

Forse non è un caso che la petizione centrale, sia nella versione dell’evangelista Matteo che in quella dell’evangelista   Luca, ancora una volta (ma non può essere sempre un caso!) sia presente un alimento: il pane.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano è preghiera che tutti possono proferire nella sua prima lettura esegetica, quella di base, là dove si auspica che nessuno debba morire o soffrire la fame. Ma, per il cristiano, non è che il punto di partenza (“non di solo pane vive l’uomo”) per affermare che Gesù stesso è Pane nella duplice realtà della Parola di Dio e  della Eucarestia.

La prima affermazione avvicina tutte le religioni. Le ultime due segnano  la irrinunciabile peculiarità cristiana.

 

La preghiera dacci oggi il nostro pane quotidiano è al plurale e insistendo sull’’oggi’ implica il tema della condivisione, si può pensare il padre nostro come un grande appello alla solidarietà? Come possono  coesistere fame, opulenza, migrazioni con il ripetere  questa preghiera?

 

Semplicemente non possono coesistere! L’unica preghiera che Gesù ci ha consegnato mette l’uomo di fronte alle sue responsabilità.Vorrei aggiungere  che sono colpita  dalle domande al plurale del padre nostro perché mi sembra siano domande  che insegnano  solidarietà nel loro stesso formularsi  e  anche il senso forte di ‘oggi’, cioè l’urgenza permanente: è sempre ‘oggi’ per l’ umanità.

 

Una ultima domanda per concludere. E le ricette? Perché ha pensato di inserire nel testo le ricette delle varie tradizioni di riti religiosi?

 

Il cibo è strumento e veicolo della fede religiosa. Un piatto preparato in una specifica occasione, qual è, ad esempio, la festa religiosa, non può essere un piatto qualsiasi. Il nome della ricetta, gli ingredienti come la tecnica della loro lavorazione, il tempo utilizzato per prepararla ci aiutano a percepire che a tavola non ci si limita a mangiare. Per dare “gusto” alle parole: il biancomangiare come la cucina povera del ri-uso caratterizzano il tempo quaresimale (il bianco simbolo della purezza e il cibo “povero” in opposizione al grasso del carnevale) preparano a tavola la grande festa di Pasqua dove la presenza dell’uovo (non di cioccolata!) è simbolo della morte e resurrezione di Gesù. Non credo, poi, sia un caso la presenza di piatti e di ricette che segnano le feste dei santi. Per questo, volendo concludere in gloria, auguro a tutti di banchettare con Dio come promesso nel libro finale dell’Apocalisse. Senza sapere quale ricetta cucinerà.

 

Grazie! Proprio oggi Papa Bergoglio, ho letto, ha commentato l’episodio evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci  dove nonostante l’invito di Gesù solo un bambino era disposto a condividere la sua provvista: cinque pani e due pesci. E Bergoglio conclude: il vero miracolo non è la moltiplicazione, ma la condivisione: il cibo non è proprietà privata, ma provvidenza da condividere.