Dossier
Antonio Imbasciati: il cibo nella relazione neonatale
17/04/19
Antonio Imbasciati, psicoanalista Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana con funzioni di training. E’ Professore Emerito di Psicologia Clinica dell’Università degli Studi di Brescia.
Antonio Imbasciati
Il cibo dei genitori: cosa accade all’Homo Sapiens?
La vita di ogni individuale essenza vivente deriva da un altro individuo, da due individui quando nell’evoluzione compare la riproduzione sessuata, nei vegetali e negli animali. In questi, quando l’evoluzione dei vertebrati giunge agli uccelli, la vita necessita che ogni nuovo nato sia curato da consimili adulti, in primo luogo con il cibo. Nei mammiferi si sviluppa la “care”, complessa ed evidente nell’uomo. Il nostro mantenimento in vita dipende dalle cure genitoriali.
Per la maggior parte degli uccelli e per tutti i mammiferi, l’individuo, raggiunto un certo sviluppo, diventa in grado di procurarsi il cibo da solo, ma in alcune specie, i primati in particolare e nell’homo sapiens soprattutto, è indispensabile il sociale. I nostri progenitori, cacciatori/raccoglitori, dovevano organizzarsi tra di loro: adeguate relazioni interpersonali sono indispensabili per procurarsi cibo: nelle relazioni si stabiliscono gerarchie. Tutto ciò diventò ancor più evidente quando i nostri progenitori diventarono pastori, e poi, più ancora, agricoltori: relazioni interpersonali di dipendenza, di gerarchia, di possesso.
Nel genoma umano, oltre ai progressivi geni che riassumono tutta l’evoluzione animale, c’è il corredo specifico dell’Homo Sapiens, ma su questo, lungo i millenni si sono iscritte epigeneticamente le caratteristiche acquisite nello sviluppo della civiltà, fino ai nostri giorni. Infatti, quanto predisposto dalla Natura nel nostro cervello determina la sua macromorfologia, ma la sua micromorfologia e soprattutto la sua funzionalità deve essere appresa e questo si realizza dalle relazioni interpersonali, principalmente quelle de “I primi mille giorni di vita” (Imbasciati, Cena 2018). Tutte le esperienze, quali modulate dalle relazioni attraversate dal singolo individuo, determinano reti neurali (sinapsi) che sono memoria degli apprendimenti: di quel bambino, e poi di quella persona. Un apprendimento continua per tutta la vita e sempre viene modulato dalla qualità delle relazioni. Il nostro cervello “viene costruito”: nessuno ha un cervello uguale a quello di un altro.
La possibilità di ricevere cibo nella dipendenza diretta dai nostri consimili adulti sembra svanire quando il bimbo è cresciuto, ma rimane, nell’interiorità, inconscia, e riassume in sé la nostra più generale dipendenza da un bisogno di comunicazione, socializzazione, affetto, da parte della pluralità di persone che diversificano la prima immagine della “mamma-nutrice” conservandone, inconsciamente, il potere benefico generatore di futuro. Possiamo vedere questo omnicomprensivo retaggio dell’importanza del cibo nella lente di ingrandimento nella famiglia, laddove il cibo è istituzionalizzato, preparato, elaborato, offerto, nella cucina, al “desco”, nella commensalità. Ogni tipo di incontro sociale mette al centro cibo (o bevande), a propiziazione di un qualche futuro, prossimo o remoto, di un interesse (vedi il latino inter-esse), vitale o perverso che sia: è comunque offerto, affinché la relazione interpersonale, ampliata nel sociale, serva a un legame equamente vantaggioso per tutte le parti.
Nell’ambito della famiglia, gli adulti provvedono ai piccoli finché questi non siano in grado di integrarsi in altri gruppi (altre famiglie, solitamente), distaccandosi dai genitori. Entro le nuove socialità si provvede al cibo progressivamente contornandolo di molte “provvigioni” di altro genere. I bisogni si diversificano e si articolano in domande, richieste, aspettative, e per contro offerte, non solo e non più di cibo, ma di altri “beni”: psichici, sociali, affettivi; indispensabili per un adeguato sviluppo della persona. Il cibo resta simbolo della necessità dell’essere umano di alimentarsi di affetti e comunicazione. La riunione commensale resta, come quadro propiziatorio. La connessione simbolica è iscritta nel nostro più remoto cervello.
Nell’attuale società sta accadendo che il rito di riunirsi commensalmente e godere di una unione affettiva, che rinfranchi la continuità del senso di esistere, è venuto gradualmente a ridursi, nelle mille incombenze dell’evoluzione tecnologica, digitale in primis, cosicché sempre più cogentemente i “genitori” (reali o comunque possibili) si sono trovati affannati progressivamente affinché altri elementi, materiali, danaro, prestigio, potere, rappresentanti simbolici del cibo per vivere, giungessero ai figli: a rassicurazione del genitore di esser capace di mantenere quella vita che non si è più sicuri di generare. Il cibo concreto, dalla sua origine primaria in una domanda, è diventato un surrogato privo di valore, rispetto ad altre domande, e ad altre offerte che i genitori affannati avvertono di non saper più provvedere. Un circuito vizioso ha fatto sì che l’offerta di cibo diventasse non più risposta offerta ad una domanda, ma un obbligo per il piccolo. Il bimbo deve mangiare, altrimenti i genitori si sentono insicuri per i loro sotterranei bisogni di generatività, e inoltre colpevoli di non dare abbastanza, timorosi per il futuro del figlio. Ma questo bimbo non ha avuto modo di apprezzare l’offerta perché la “merce” era sovrabbondante, sempre e troppo. Anzi ha sentito incombere un dovere senza avvertire di ricevere alcunché. In effetti il genitore non dà quel che sarebbe necessario, ma solo surrogati. Il genitore, oberato dagli impegni sempre più accelerati della corsa al futuro della nostra attuale “civiltà”, non ha tempo di pensare, di ascoltare cosa, invece, domanda il figlio. E questi deve acquetare l’angoscia dei genitori, mentre costoro vieppiù gli offrono surrogati, materiali, invece di quella presenza di un dialogo affettivo, al di là delle cose e delle parole, della quale il ragazzo ha bisogno, e di cui non chiede, perché non sa cosa sia, mentre il genitore lo ha dimenticato; né ha spazio per “pensarlo”, anche se pensa che “ci vorrebbe qualcosa”.
Tutto ciò avviene inconsciamente, ma è ormai iscritto nelle reti neurali del cervello della maggior parte dei ragazzi, al di là della possibilità di prenderne coscienza. Accade spesso che un oscuro e rozzo senso di colpa induca il genitore a tentativi volontaristici di “venire incontro” al ragazzo: falsi però, perché non sgorgano da affetti accettati nella loro complessa aleatorietà, ma da una loro repressione (non ci si vuol preoccupare più di tanto) e da una loro riduzione ad “offerte” materiali, accettate a parole dal ragazzo, ma che in lui inconsciamente restano surrogati inutili. E d’altronde l’adolescente non ha potuto imparare, a riconoscere i propri bisogni; al di là di quelli che i mass media gli hanno inculcato. Accade così che il ragazzo si ribella: sente di non avere quel che gli abbisogna e che egli stesso non ha imparato a riconoscere. Nessuno glielo ha insegnato.
L’intesa domanda/offerta è stata rotta: mistificata dall’imbroglio che nessuno più conosce, da ambo le parti, cosa si domanda e cosa si offre. Quanto al cibo, che al fondo, in qualche occulta rete neurale del nostro cervello animale resta simbolo di quanto si vorrebbe, in più numerose e sovrapposte memorie del nostro cervello è diventato simbolo di odioso dovere. Di fronte all’impossibilità di capire, e di capirsi, l’organismo, se non la mente cosciente, si ribella: il corpo. Può così accadere che il ragazzo sembra non ribellarsi, ma è il suo organismo globale (i neuroscienziati dicono il Bodybrainmind) che protesta: non sente di aver fame; odia il cibo e lo rifiuta: ecco le sindromi anoressiche, più o meno gravi, contornate o comunque collegate alla bulimia: “sono io, che mi nutro, alla faccia di quelli là!”.
La vita di cui all’inizio ho richiamato l’evoluzione nelle progressive specie viventi, può contemplare il suicidio, mascherato e lento, come nelle sindromi succitate: si è perso il legame con chi l’ha generata, il genitore. L’Homo Sapiens potrebbe avere capacità di recuperarlo: si parla della comunicazione affettiva, ma questa non consiste in parole. Come sia questa comunicazione, oggi, non è facile saperlo, e non si può capire e sapere veramente, se ci si serve di bei discorsi.