Dossier
Le donne e il loro corpo: di visione (pittura, cinema, televisione) … in visione (psicoanalitica).
11/02/11
Maria Grazia Vassallo Torrigiani
È importante imparare a “leggere” le immagini, a soffermarsi a
lungo con lo sguardo per cogliere come il senso viene trasmesso dagli elementi
iconografici, espressivi, compositivi. Vi propongo un piccolo esercizio con
Susanna e vecchioni, di Artemisia Gentileschi.
Il tema ricorre frequentemente nella pittura del XVI e XVII
secolo, fornendo un pretesto biblico per rappresentazioni compiaciute ed
erotizzate di un corpo femminile nudo,
esposto alla voyeuristica cupidigia maschile. Susanna è spesso resa come
vittima consenziente, o maliziosa tentatrice, e collocata per lo più in giardini
o ambienti naturali, con piante, acqua, doni della natura come lo è il corpo
femminile.
Artemisia sembra invece aver rielaborato il tema attraverso una
sensibilità femminile, peraltro una sensibilità di giovane donna – aveva 17
anni – presumibilmente esposta alle pesanti attenzioni maschili. Ricordiamoci
che imparava il mestiere della pittura in bottega dal padre, unica donna tra
altri apprendisti e frequentatori di non limpida moralità, tra cui
quell’Agostino Tassi contro cui intentò un processo per stupro nel 1612, proprio
due anni dopo la composizione di questo quadro.
Contrariamente alle più consuete raffigurazioni che collocano
Susanna in posizione laterale, nel dipinto di Artemisia la donna è al centro
della scena. Lo spazio è limitato, il taglio dell’immagine piuttosto stretto,
ravvicinato, quasi claustrofobico. Anche lo spettatore è vicinissimo a Susanna,
come i due uomini che sovrastano dall’alto, peraltro non due vecchioni ma un
vecchio e un giovane. Lei è “con le spalle al muro”, braccata, il suo corpo
morbido e luminoso non appoggia su soffici tappeti erbosi, ma si staglia contro
un rigido elemento architettonico, marmo o pietra. I due incombono dall’alto, e
più che spiata, Susanna sembra essere fisicamente molestata: i due le alitano
addosso, le mani a pochi centimetri dalle sue carni scoperte, lei è sotto e
loro sopra, lei sola e loro, complici nel misfatto, lì che bisbigliano e
complottano. Il corpo di lei, per niente idealizzato né languidamente esibito,
è reso piuttosto in una contorsione più goffa che erotica, in un gesto di difesa
e con un’espressione di ripulsa e turbamento.
Piuttosto interessante, la prova pittorica di Artemisia,
soprattutto se la confrontiamo con quanto scrive John Berger in un suo vecchio
saggio del 1972, Questione di sguardi,
a proposito della rappresentazione del corpo femminile in pittura, là dove
afferma che le donne sono state il soggetto principale di uno dei generi della
pittura a olio europea, il “nudo”, in cui “.. ella [la donna] si trasforma in
oggetto, e più precisamente in oggetto di visione: in veduta”. La donna dunque
trasformata in veduta, non persona ma paesaggio o panorama, in un processo di
reificazione che la consegna allo sguardo maschile che può goderne come di un
qualunque scenario della natura.
In relazione poi alla rappresentazione cinematografica del corpo
femminile, a partire dal pionieristico lavoro di Laura Mulvey del 1975, Visual pleasure and narratives cinema,
in cui vengono utilizzati strumenti psicoanalitici, molto è stato detto e
scritto. A mio avviso l’analisi di Mulvey sulle immagini femminili nel cinema
tradizionale hollywoodiano continua ad offrire elementi di riflessione: esse
solleciterebbero nello spettatore scopofilia e voyeurismo, per godere del corpo
femminile offerto come materia grezza passiva allo sguardo (attivo) del
maschio. E tuttavia, poiché il corpo nudo femminile è per l’uomo anche il
significante della castrazione, sono necessarie strategie rappresentative
feticistiche che ne aggirino difensivamente la minaccia, rendendo il corpo della
donna desiderabile ma al contempo rassicurante e privo di carica ansiogena,
pericolosa per l’equilibrio narcisistico maschile. Secondo Mulvey, lo sguardo
maschile che proietta le sue fantasie sul corpo della donna va a costituire il
principio strutturante della rappresentazione del femminile nel cinema
classico.
E adesso, sediamoci davanti alla televisione. C’è uno
straordinario documentario sull’immagine della donna nella televisione
italiana, realizzato nel 2009 da Lorella Zanardo con Cesare Cantù e Marco Malfi
Chindemi, di cui Enrico Ghezzi ha parlato come di “un saggio visivo” – chi è
interessato può visionarlo in rete, www.ilcorpodelledonne.com. Una sorta di versione cartacea del filmato, e altro ancora, è il
libro uscito nella primavera del 2010 con lo stesso titolo, Il corpo delle donne, in cui più
distesamente Zanardo racconta il backstage di pensieri, sentimenti ed
esperienze che l’hanno portata a realizzare il video, e ne dispiega motivazioni
e intenti confrontandosi con le reazioni suscitate nel pubblico o sui blog. Il
progetto video ha preso l’avvio da una sistematica immersione di dieci ore al
giorno nei programmi televisivi per circa un mese: alla iniziale curiosità antropologica
per un mondo fino ad allora poco o nulla frequentato, è subentrato
progressivamente lo sconcerto, il disagio, l’indignazione per ciò che scorreva
davanti ai suoi occhi – una realtà, dice Zanardo, che è sotto gli occhi di
tutti, ma che nessuno vede o denuncia, in quanto lo sguardo dello spettatore
televisivo medio è ormai incapace di vedere, accecato dall’assuefazione e dal
condizionamento. Corpi femminili giovani, svestiti, ammiccanti e privi di
parola, usati come merce appetibile per vendere il prodotto televisivo; corpi
frugati dalle telecamere con inquadrature intrusive, voyeuristiche,
ginecologiche; volti, e corpi, asserviti all’imperativo dell’eterna giovinezza,
votati all’inespressività e alla serialità stereotipata ad opera della
chirurgia estetica.
L’intento della Zanardo è di educare ad una spettatorialità
critica, insegnare a leggere e decostruire le immagini per fornire strumenti
che smascherino i messaggi di svilimento del corpo femminile, e le stereotipie
di genere, di cui molta programmazione televisiva è intessuta. La tecnica messa
in atto nel video della Zanardo è la scomposizione delle immagini in
fotogrammi: arrestando il flusso ipnotico proveniente dalla televisione, che
paralizza lo spettatore, si opera una destrutturazione della comunicazione
televisiva, aprendo uno spazio di analisi dettagliata delle inquadrature, del
linguaggio visivo oltre che verbale, delle configurazioni e dinamiche
relazionali sottese, allo scopo di smascherare i messaggi distorti o negativi
che vengono fatti passare in maniera nascosta o subliminare. Utilizzando questo
materiale, Zanardo ha avviato anche un progetto formativo in molte scuole
italiane, per favorire nelle nuove generazioni – le più esposte -l’acquisizione
di una consapevolezza critica circa modelli e ruoli femminili che vengono
pericolosamente proposti dallo schermo casalingo, modelli per lo più assorbiti
dagli spettatori in maniera acritica e passiva.
In sostanza ci sono due modelli, in apparenza differenti, che emergono
dall’indagine di Zanardo. Da una parte la giovane donna preda inerme e
compiaciuta di un desiderio maschile becero e volgare; dall’altra la donna
predatrice – sempre giovane e bella, però,
le donne adulte sono fuori gioco! – oculata amministratrice di un
corpo-merce messo in vendita al miglior offerente.
La bellezza di questo corpi magri e sodi, anche quando hanno un
che di acerbo-adolescenziale, deve comunque sottostare al criterio di una certa
ipertrofia volumetrica relativamente a certe parti del corpo. I modelli di
relazione tra i sessi, comunque li si declinino, nella loro struttura risultano
infiltrati di elementi aggressivi e sottilmente perversi, in termini di schemi
di potere/sottomissione e sfruttamento/cosificazione.
Perché accettiamo questo stato di cose, si chiede Zanardo? E dove
sono le donne fuori dagli stereotipi, quelle in carne e ossa, dove sono gli
adulti, le madri? È soprattutto di
queste, del loro rapporto con le figlie che voglio occuparmi. E perché le donne
tradiscono se stesse e la loro femminilità, potremmo chiederci da un vertice
psicoanalitico?
In questi ultimi anno, la psicoanalisi ha avviato una stimolante
riflessione sugli attuali “disagi della civiltà”, interrogandosi sul se, e eventualmente
come, sia cambiato l’inconscio; sulle nuove patologie (dall’Edipo al
Narcisismo); sulle conseguenze dell’indebolirsi dei garanti metapsicologici;
sull’embricarsi del mentale e del socioculturale.
In particolare Amalia Giuffrida, in un volume collettaneo da lei
curato dal titolo Figure del femminile – di
cui semplifico la ricchezza di contributi e la profondità di argomentazioni –
denuncia che il rifiuto del femminile di cui parlava Freud sembra annidarsi con
preoccupante insidiosità nella società attuale; una denuncia la sua, quasi
paradossale nello scenario contemporaneo in cui si muovono figure di donne molto
diverse rispetto alle pazienti analizzate da Freud agli inizi del ‘900, donne
che oggi possono fare a meno degli uomini, donne che hanno conquistato
autonomia, autosufficienza, libertà sessuale. “Nel mondo di oggi […] vengono
somministrati ai singoli individui o gruppi di individui modelli e modi
di essere preconfezionati. Le differenze si cancellano, e in modo particolare
si attenuano le specificità attinenti all’identità di genere. […] Viene
“normalizzato” non solo il modo di conformarsi alle regole del vivere comune,
ma anche il modo per trasgredirle. […] le ideologie predominanti lungi
dall’essere la ricerca di uno specifico femminile, propongono per contro alle
donne solo mete falliche, più o meno camuffate, confondendo per lo più la
parità di diritti con indifferenziazione identitaria“.
Paola Golinelli ricorda che il corpo è “[…] il terreno di incontro-scontro della coppia madre-figlia“, e
che “assumendo un corpo di donna, oggetto
del desiderio dell’uomo, la ragazza dovrà riconfrontarsi con la propria madre,
trovandosi nuovamente esposta all’angoscia di differenziare il proprio corpo da
quello che è stato il suo primo oggetto di investimento affettivo“.
Il rispecchiamento è alla base del processo identificatorio della
bambina con la madre, da cui evolverà la futura donna nella sua fantasmatica
interna in relazione al proprio corpo e a quello della madre.
Di patologie del rispecchiamento femminile materno scrive Malde Vigneri,
distorsioni nel rapporto madre-figlia in cui la bambina viene assimilata dalla
madre ad una propria parte investita narcisisticamente di aspirazioni alla
perfezione, fatta oggetto di un eccesso di investimento sempre meno
accompagnato da quella preoccupazione materna primaria di cui parla Winnicot,
una figlia dunque come oggetto protesico e passivizzato dalla madre: “Le identificazioni primarie con madri
incapaci di avvertire la bambina come tale e non come parte fattuale di una
propria aspirazione alla “perfezione” vengono inglobate nell’area narcisistica
insieme all’angoscia occulta della madre. Viene introiettato l’annullamento
come alternativa dell’essere“. Il non diritto all’esistenza, e l’angoscia
della cancellazione di sé, sono difensivamente aggirati da queste figlie con “scissioni verticali precoci“, con la negazione
e il rifiuto del femminile e attacchi alla madre interna, in un registro che
coniuga istanze narcisistiche e sadico-aggressive.
Se per le donne che oggi hanno intorno ai sessant’anni le aree
critiche erano l’autorizzazione alla sessualità e la realizzazione lavorativa –
scrive Maria Teresa Palladino – per le giovani donne oggi la sessualità non è
più un diritto da conquistare, anche se a volte “[…] mi pare che la maggiore
libertà attuale esprima spesso la ricerca di un contatto che di erotico – nel
senso di incontro con un terzo – ha ben poco, perché rappresenta primariamente
la ricerca di un rispecchiamento narcisistico o, meglio ancora, di un
accoglimento primario di tipo fusionale. Talvolta, invece, questa possibilità
d’accesso a una vita sessuale più libera sembra connessa non tanto
all’acquisizione di una posizione femminile, quanto piuttosto a istanze
falliche di conquista che possono essere una maschera che cela una fragile identità
sessuale”.
Quali i “nuovi disagi del femminile”, portati nella stanza
d’analisi? Attacchi al corpo sentito come imperfetto e inadeguato,
autoumiliazione (disturbi dell’alimentazione, sterilità, ma anche sessualità
compulsiva, degradata o promiscua), assunzione di modelli maschili, difficoltà
a coniugare sessuale femminile e sessuale materno, insoddisfazione ed aridità
affettiva nelle relazioni con l’altro sesso.
E gli uomini, direte, che ruolo hanno i tutto ciò? Loredana Micati
ricorda che “in uno sviluppo ideale egli
sarebbe colui che, proponendosi come secondo oggetto, consentirebbe la
defusione e la disidentificazione della bambina dalla madre“, ma in uno
scenario dominato dal narcisismo i padri sembrano essersi dileguati nel senso
di un indebolirsi della funzione paterna non solo in relazione alla coppia madre/figlio,
e ai loro pericolosi invischiamenti, ma anche come funzione simbolica di legge,
limite, riferimento valoriale.
In Figure del femminile
si possono trovare molti spunti per riflettere le conseguenze, per donne e
uomini, dell’assenza o della latitanza del padre, e sul lavoro psichico
necessario affinché l’incontro uomo donna possa rappresentare un incontro tra
persone, e non tra oggetti sessuali parziali.