Dossier
Terrorismo, patologia, gruppi e psicoanalisi
3/03/15
CAROLE BEEBE TARANTELLI ,
PhD, psicologa, psicoanalista, è membro ordinario del CIPA e dello IAPP e docente all’Università di Roma, La Sapienza. Ha scritto articoli per quotidiani (tra cui La Repubblica, Il Messaggero, Corriere della Sera, Il Manifesto, L’Unità) e pubblicato saggi e volumi di critica letteraria e di psicoanalisi in inglese, in italiano, in francese e in spagnolo. Dirige la collana “Psiche e trauma” per Le Edizioni Magi.
I terroristi realizzano la pulsione distruttiva con modalità seriale sul palcoscenico della storia, agendo gli impulsi più mortiferi di cui la mente umana è capace. Dopo gli attacchi terroristici è naturale chiedersi quale tipo di persona può causare una tale distruzione, provocare un tale dolore. I terroristi, come altri individui violenti, sono patologici? Sorge la domanda: i terroristi sono persone che ricercano una causa per giustificare l’espressione della loro patologia personale?
Nulla indica che i terroristi siano individui marcatamente patologici o intrinsecamente violenti. Nel caso dei terroristi italiani di sinistra degli anni ’70 e ’80, per esempio, ciò è dimostrato, se non altro, dal fatto che la maggior parte di loro, una volta usciti dal carcere, conduce una vita niente affatto violenta. In effetti, la “normalità” dei terroristi italiani sembra valere per molti di coloro che sterminano in nome dell’ideologia. Forse l’esempio più eclatante è riportato da Borofsky e Brand nel loro esame dei risultati del test di Rorschach somministrato nel 1946 ai criminali di guerra nazisti durante il processo di Norimberga. Nessuno dei dieci psichiatri che somministrarono il test accettò l’invito a presentare i risultati. Solo in seguito uno di loro ne spiegò il motivo: “Dai risultati raccolti dobbiamo concludere non solo che questi soggetti non sono diversi o folli, ma che potremmo ritrovarne oggi di uguali in qualsiasi paese del mondo” (Borofsky e Brand, 1980, p. 362). In realtà, esiste un consenso generale sul fatto che, per dirla con Erlich, “la mente del terrorista…[non] è segnata da una significativa devianza” (2003, p. 148).
Come si può notare da questi esempi, la direzione più fruttuosa per la ricerca sulla violenza collettiva non sembra concentrarsi su ciò che distingue la struttura psicologica individuale di coloro che commettono violenze all’interno di gruppi da quella di chi non le commette. Si pone allora un interrogativo: la psicoanalisi è rilevante per lo studio della propensione al terrorismo e al fanatismo che lo giustifica?
Il terrorismo è un progetto di immortalità. Tradizionalmente, i progetti di immortalità richiedono lo scambio della vita biologica con quella simbolica, in cui la sopravvivenza simbolica nelle sue molte versioni (il passaggio alla vita eterna, la vittoria della mia religione, della mia razza, della mia cultura, “più vere” rispetto alle tue) compenserà la perdita della vita biologica (la morte del mio corpo, del tuo corpo).
Per i terroristi la strage delle loro vittime è una strage giustificata; poiché essi sono coloro che possiedono ed interpretano un sistema simbolico buono nella sua totalità, la vittoria del loro ideale è questione di vita o di morte per loro, per il loro gruppo o in ultima istanza, nel caso di ideologie di redenzione, per l’umanità tutta.
Le ideologie chiamate in causa per giustificare i loro atti violenti cambiano – possono essere ideologie di purezza razziale, o ideologie politiche totalizzanti o, ancora, ideologie di redenzione appartenenti alle religioni fondamentaliste – ma il loro rapporto con le verità che proclamano non muta: essi non riconoscono alcun soggetto esterno da cui possa giungere qualcosa di valore. Sono ideologie assolutiste.
Gli individui formulano progetti di immortalità – il desiderio di fama, una sopravvivenza che trascenda la morte fisica –, ma la struttura simbolica sottesa non è mai la creazione di un singolo individuo. Possiamo pensare all’immortalità soltanto all’interno di un gruppo (che potrebbe anche essere virtuale). Un progetto di immortalità idiosincratica è psicotico.
I gruppi sono composti di e da individui, ma non sono la semplice somma dei loro componenti. Esercitano un influsso magnetico (Freud, 1921, p. 75); esprimono una volontà e creano una mentalità di gruppo (Bion, 1961, p. 59); nei gruppi l’apparato psichico del singolo è soggetto a regressione (Anzieu, 1984, pp. 143-145); i gruppi attingono alla psiche dei membri e generano un apparato psichico di gruppo che è il locus della sua realtà specifica, alla quale i membri subordinano la loro realtà individuale (Kaes, 2007, p. 116). In linea con tutto ciò ipotizzerei che, se esiste una patologia del terrorismo, va cercata nella patologia del gruppo e non in quella dell’individuo.
I fondatori delle Brigate Rosse, Renato Curcio e Mario Moretti, chiedono di essere giudicati in termini strettamente politici in base alle loro motivazioni consce. A partire dal 1968, dicono, una generazione di lavoratori e studenti cercò di scatenare la rivoluzione in Italia. Nel 1970, il gruppo di giovani che formavano le Brigate Rosse si dispose a unire l’azione militare rivoluzionaria (“la lotta armata”) all’azione politica rivoluzionaria del movimento. Le Brigate Rosse si proclamarono l’avanguardia del movimento dei lavoratori e iniziarono a commettere atti di “propaganda armata”, cioè rapimenti, gambizzazioni e l’annientamento dei loro obiettivi. Le loro azioni dovevano “colpire il cuore dello Stato”. Ritenevano che le loro azioni avrebbero radicalizzato il movimento e creato le condizioni per una guerra civile, che a sua volta avrebbe determinato il rovesciamento dello stato capitalistico e la costruzione di una società comunista (Curcio, 1993, p. 39, Franceschini 1988, p. 24, Moretti 2005, pp. 60-61 e Peci, 2008, p. 54). Curcio e Moretti considerano se stessi e il loro gruppo come i realizzatori di un progetto politico realistico seppur fallito. Usando la terminologia proposta da Bion, essi si considerano un gruppo di lavoro che si è formato per perseguire uno scopo emerso dall’analisi della società italiana. In altre parole, ci sollecitano a chiederci se la loro visione della società italiana sia corrisposta alla realtà e se loro quindi abbiano agito secondo il principio di realtà.
La giustificazione ultima della svolta delle Brigate Rosse verso la lotta armata fu la visione dello Stato italiano come oggetto maligno, incontrollabile e onnipotente che, se non contrastato, avrebbe soppresso l’azione politica e annientato coloro che si ribellavano. La domanda ovvia è se questa visione dello Stato italiano corrispondesse alla realtà. Dopo tutto, durante un periodo di conflitto spesso violento, questo tipo di agitazione avrebbe potuto essere represso – come lo è sempre stato negli stati tirannici, proprio come è accaduto per esempio con la repressione da parte del governo cinese in piazza Tienanmen – mentre in Italia, come nel resto del mondo occidentale, ciò non è avvenuto.
Inoltre, un esame superficiale della realtà sociale negli anni ’70 e ’80 smentisce l’affermazione fatta da Moretti nel tentativo di giustificare gli atti violenti del gruppo – affermazione secondo la quale, se il gruppo non avesse intrapreso la lotta armata, “saremmo morti subito … lo Stato avrebbe represso in prima persona il conflitto sociale” (1994, pp. 45). Non solo i governi di quegli anni non soppressero il conflitto sociale, ma il conflitto determinò una massiccia trasformazione culturale e sociale – il divorzio e l’aborto furono legalizzati e ratificati con un referendum nazionale, il Parlamento approvò una dichiarazione dei diritti dei lavoratori di ampia portata, fu istituito il sistema sanitario pubblico con copertura universale, si realizzò una riforma molto progressiva del sistema della salute mentale che impose la chiusura dei manicomi, l’istruzione nelle scuole primarie e secondarie subì un cambiamento radicale, si riformò il sistema universitario e le iscrizioni decuplicarono. La prima conclusione cui possiamo giungere è che la visione dei terroristi di uno Stato autoritario impegnato in atti di repressione totale non fu il prodotto di un esame della realtà politica italiana. Fu una proiezione.
Inoltre, l’idea secondo la quale, se un piccolo gruppo di rivoluzionari avesse imbracciato le armi, il movimento dei lavoratori e degli studenti lo avrebbe seguito in una guerra civile capace di creare “una prospettiva di potere” (Franceschini, 1988, p. 24), è delirante e non è certamente solo con la saggezza del senno di poi che potremmo dimostrarlo. Per avere successo, qualsiasi rivoluzione politica deve raccogliere un consenso imponente. Hannah Arendt ha infatti sostenuto che:
… nessuna rivoluzione è possibile quando l’autorità politica è intatta, e ciò significa, nelle condizioni moderne, che si può contare sull’obbedienza delle forze armate alle autorità civili. Le rivoluzioni… sono le conseguenze, mai le cause, della caduta dell’autorità politica (1963, pp. 115-116).
Al contrario, le Brigate Rosse non hanno mai valutato seriamente se l’autorità dello Stato italiano fosse intatta e fino a che punto gli italiani avrebbero seguito chi intendeva provocare una guerra civile che avrebbe messo in pericolo la prosperità postbellica. In realtà, non sembra che i brigatisti si siano mai posti le domande che li avrebbero costretti a un esame di realtà.
Possiamo dunque concludere che non fu attraverso la visione della realtà sociale e politica che le Brigate Rosse scoprirono il movimento dialettico tra l’essere annientate e l’annientare, tra l’essere morti o portatori di morte. E’ mia ipotesi che questo assetto mentale primitivo sia stato costitutivo del gruppo sin dal suo concepimento.
Come ha dimostrato Bion, se abbiamo a che fare con un gruppo che non è un gruppo di lavoro dotato di un progetto basato sull’esame di realtà, abbiamo a che fare con un gruppo che opera secondo l’idea che il potere del gruppo abbia un’origine magica, come è evidente dalla lettura del progetto politico delle Brigate Rosse (vedi Franceschini, 1988, p. 24). Come ha notato Volkan, questo tipo di pensiero è tipico dei fondamentalisti che “si rifiutano di viaggiare tra l’illusione e la realtà e cercano di mantenere l’illusione come loro realtà speciale” (2009, p. 129). Ciò significa che tali gruppi fondamentalisti funzionano prevalentemente secondo la modalità che Bion ha teorizzato emergere dagli assunti di base: sono gruppi che riflettono il consenso inconscio dei loro membri sul fatto che ciò che permette loro di essere coesi è un assunto di base governato da un pensiero primitivo o addirittura psicotico. Secondo Bion è questa la modalità di funzionamento di tutti i gruppi. La differenza dei gruppi terroristici è che si costituiscono con l’intento di agire il pensiero primitivo. Come Bion ha affermato, gli assunti di base diventano pericolosi quando si tenta di tradurli in azione (1961, p. 157).
Se questa analisi è accurata, indica che non solo siamo autorizzati a utilizzare gli strumenti teorici della psicoanalisi nel tentativo di comprendere il terrorismo, ma che siamo costretti a farlo.
Mi limiterò a menzionare soltanto alcuni concetti psicoanalitici che mi sembrano pertinenti in un’analisi dell’attività terroristica delle Brigate Rosse.
Il primo interrogativo che sorge è quali furono gli scopi inconsci che i membri delle Brigate Rosse furono spinti a rappresentare sul palcoscenico della lotta armata? In Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Freud fornì un modello del rapporto con l’Ideale dell’io utile per la comprensione delle dinamiche intrapsichiche e intersoggettive dei partecipanti al gruppo. Potremmo dire che l’ideologia dei terroristi era diventata un oggetto sublime con cui essi rimpiazzarono l’Ideale dell’Io, o la coscienza, per poi sacrificarsi (assieme alle loro vittime) ad essa. Di conseguenza, come affermò Freud, si liberarono delle funzioni della coscienza per ciò che attiene alle azioni intraprese per amore dell’oggetto (1921, pp. 112-3). Nel caso delle Brigate Rosse, qualsiasi azione intrapresa per contrastare la supremazia dello Stato italiano era ipso facto giustificata, poiché eseguita per far prevalere l’ideale della rivoluzione. Vale a dire che l’uso dell’ideologia come motivazione della violenza consentiva di idealizzare la distruttività del gruppo. Perciò si può considerare la rivoluzione come un oggetto delirante con cui i brigatisti si identificarono poiché creava “l’idea che al suo interno esista la libertà di abbandonarsi a qualsiasi attività sadica” (Rosenfeld, 1987, p. 112).
Kaes, per altro, ha teorizzato che l’appartenenza al gruppo impone “vincoli di credenza, di rappresentazione…di adesione agli ideali e ai sentimenti comuni” (2007, p. 141). In tutti i gruppi ciò che è condiviso prevale su ciò che è diverso, ma esiste una differenza sostanziale tra i gruppi totalizzanti e gli altri gruppi, poiché i membri del gruppo totalizzante fantasticano che esista una coincidenza assoluta sul piano intrapsichico tra l’ideale dell’individuo e quello gruppale, tra sé e il gruppo; essi aderiscono “a ciò che D. Anzieu ha descritto come ‘illusione gruppale’, cioè la credenza, condivisa tra tutti i membri del gruppo, che il gruppo che formano e il loro gruppo interno idealizzato coincidono” (Kaes 2007, p. 127 [147]). Sia Curcio che Moretti lo confermano. Per esempio, Moretti afferma: “Ma chi prende le armi, uccide e si fa uccidere, se non ha la convinzione assoluta di possedere la via giusta?” (1994, p. 100). Senza dubbio la rigidità e la totalità dell’identificazione dell’individuo con la costruzione psichica condivisa dal gruppo garantiva che il mantenimento del gruppo sarebbe stato un fine in se stesso e che la sua sopravvivenza sarebbe divenuta il fine che i brigatisti perseguivano, perfino al costo della propria vita. In altre parole, l’ideologia divenne una religione e i componenti del gruppo divennero degli adepti che, per definizione, erano eroici nella loro devozione all’ideale della rivoluzione e nella loro disponibilità a sacrificare tutto per la sua realizzazione.
Tesi a difendere la loro fantasia, i membri dei gruppi totalizzanti dovevano sospendere il principio di realtà e negare tutto ciò che contraddiceva la loro realtà illusoria. Come afferma Chasseguet-Smirgel, “L’Io del gruppo assorbe tutto l’universo” (1985, p. 63). Aderire all’organizzazione richiedeva una negazione della realtà esterna a favore della realtà creata dal gruppo. O, come dice Moretti, “da una parte la lotta armata, dall’altro tutto il resto” (1994, p. 42). Entrare nella clandestinità significava abbandonare tutti i rapporti esterni al gruppo e questo formalizzava il diniego della complessità della realtà.
Inoltre, i gruppi totalizzanti obbligano i loro membri a rinnegare non solo i collegamenti con la realtà esterna ma anche quelli con la realtà interna: i membri del gruppo stipulano ciò che Kaes ha denominato un patto inconscio denegativo basato sul continuo diniego di quegli affetti e di quelle rappresentazioni che devono essere negati al fine di formare il gruppo (2007, pp. 213-218). La differenziazione non è permessa: o sei dentro al gruppo o ne sei fuori. Ciò significa che i terroristi dovettero denegare qualsiasi conflitto tra l’identificazione con il gruppo e il riconoscimento dei propri scopi come soggetti separati. Dunque non poteva esistere alcun riconoscimento di una pluralità di identificazioni, e qualsiasi affetto e rappresentazione che confliggeva con quelli del gruppo doveva essere ripudiato. Ne consegue che i singoli membri non potevano permettere alcun investimento in altri gruppi– quali, per esempio, il gruppo familiare – se in conflitto con l’identificazione con lo scenario inconscio del gruppo: la fantasia di una perfetta coincidenza significava che il gruppo totalizzante non poteva ammettere l’incertezza intrinseca all’esistenza delle diverse soggettività dei suoi singoli membri. I membri non potevano ammettere alcuna fluttuazione nella loro attrazione verso il gruppo, non potevano permettere che il loro rapporto con il gruppo si allentasse o cambiasse; tutto il movimento psichico rispetto al gruppo doveva essere congelato. Perciò era necessario combattere la tendenza del gruppo, come di tutti i gruppi, ad essere fluido o temporaneo.
Ne segue che, una volta che i membri si fondono con il gruppo totalizzante primitivo, è il gruppo a organizzare la psiche. Per essere in sintonia con il gruppo, i singoli membri sono obbligati a operare in uno stato emotivo paranoide e/o congelato in cui il paradigma è, secondo le parole di Moretti, “uccidere o essere uccisi” (1994, p. 109). Il rapporto dell’individuo con questa visione monolitica non può che essere all’insegna della costrizione e della limitazione. Moretti esprime succintamente questa condizione: “Quando scegliemmo la lotta armata era perché ogni altra strada ci era preclusa, ce ne sentimmo costretti. Costretti a cose tremende” (1994, p. 48). Ovviamente nessuna forza esterna costringeva Moretti: il suo senso di costrizione era intrapsichico.
Se la patologia individuale non è il fattore distintivo per determinare chi sceglie di dedicare la propria vita a gruppi il cui scopo è la realizzazione di atti violenti, si pone l’interrogativo se il pensiero psicoanalitico sia utile per comprendere il terrorismo. In questo contributo ho cercato brevemente di dimostrare che le teorie psicoanalitiche delle dinamiche inconsce dei gruppi offrono un contributo essenziale alla nostra analisi del terrorismo. Anche se ho fatto riferimento a un solo gruppo terroristico, le Brigate Rosse, spero che queste idee possano essere utili anche per una riflessione sulle dinamiche inconsce di altri gruppi strutturati intorno a un’ideologia che impone la distruzione della vita umana.
Traduzione Isabella Negri