Dossier

Strategie di pace, ovvero come riquadrare logiche e strategie di guerra

3/03/15

 ALESSANDRO POLITI

è un analista politico e strategico con trent’anni d’esperienza. Direttore della NATO Defense College Foundation. Ricercatore senior del CeMiSS per l’America Latina e le prospettive globali. Già direttore della ricerca CEMRES sulle Confidence Building Measures per la ministeriale mediterranea 5+5 Difesa.

Guerra e pace sono un Giano bifronte con facce molto diverse, ma un collo comune dato dalla cultura complessiva di una data situazione storica e geografica e dalla differente natura dei poteri esercitati nello spazio-tempo.
Un primo approccio nasce dalla contrapposizione fra guerra e pace. Là dove la guerra ha un pensiero ed una psiche analitica (penetrare, dividere, distruggere, disarticolare), la pace ha aspetti sintetici (compenetrare, unire, costruire, ricollegare). Tuttavia questo modo aiuta più a capire le differenze che non a concepire la pace in un contesto preventivo o risolutivo di una guerra.
Un secondo, molto più strutturato, è incentrato intorno agli strumenti di analisi dei conflitti. Somiglia molto al lavoro di stato maggiore quando si deve preparare una grande operazione. Si mappa il conflitto, capendo: in quale punto ci si trova, con quale cronologia si lavora e con quali attori coinvolti, quali sono atteggiamenti comportamenti e contesti ed infine quali sono le posizioni, interessi e bisogni delle parti in lotta. Questo è un lavoro preventivo molto utile, che tuttavia non coglie la delicatezza del lavoro di tessitura di una pace.
Ciò viene in parte molto ben rappresentato dal metodo dell’empatia nel superamento dei conflitti. Qui in genere s’impiega la rappresentazione di una visione più ampia di quella a tunnel in cui spesso il conflitto costringe i contendenti, in modo da immaginare un futuro migliore; si cerca di diventare i custodi della memoria in modo da evitare le continue distorsioni del dibattito politico e mediatico e, azione estremamente difficile, si concepiscono risposte alla violenza senza aumentarne il livello e le conseguenti vendette.
Alcune correnti di riflessione islamica sulla risoluzione dei conflitti accentuano molto l’aspetto umanistico e morale di matrice religiosa come basi per raggiungere una pace con principi sinergici rispetto a quelli più noti in altre culture. Componenti come diritto alla fede ed alle fedi, diritto alla vita, diritto alla discendenza ed alla protezione delle generazioni future, diritto allo sviluppo intellettuale e diritto alla ricchezza (deen, nafs, nasl, ‘aql, maal) si rivelano particolarmente preziose negli sconvolgimenti in Nord Africa, Levante e Golfo, insieme alla regole coraniche di limitazione/proibizione della guerra.
Infine vale la pena di menzionare la teoria dello strategic peacebuilding, costruita su una serie di concretissimi casi di peacekeeping, la quale ritiene del tutto insufficiente il modello onusiano di peacebuilding (pace liberale) e propone un approccio olistico e più efficace nel costruire la pace.
Ma come s’intreccia la concretezza di queste esperienze nella parallela concretezza di politica, diplomazia e strategia? Si può dire che la che la guerra sia un processo di rottura di una fiducia primaria e il primo discrimine è tra la prevenzione di un conflitto e la sua soluzione.
La prevenzione richiede tutto sommato un armamentario molto più limitato. La prima dimensione da affrontare con energia è quella comunicativo-simbolica: i messaggi di odio vanno smontati, confutati e controdiffusi, arrivando senza esitazione alla mobilitazione pacifica per le strade e/o al voto per chiarire le divisioni, ma anche per escludere rapidamente alternative violente nella soluzione delle contese. Insieme ad essa è importante la dimensione negoziale, cui spesso si accompagna un impegno economico, che apparentemente sembra alto, ma che è sempre meno alto dello sperpero di una guerra anche a bassa intensità. Se violenza comincia a essere impiegata, deve trovare una risposta rigorosa nei termini di legge e attenta ai diritti umani. È appunto la capacità di difendere un acquis pacifico senza spargere ulteriore benzina sul fuoco. Qualche volta le necessità politiche possono consigliare metodi meno trasparenti, ma in genere i costi a medio termine sono superiori ai benefici conquistati.
La soluzione di un conflitto, specie se incancrenito, è decisamente molto più costosa ed incerta perché si basa sull’impiego simultaneo (e troppo spesso non sinergico) di mezzi che si contraddicono: violenza per battere un nemico che non vuol trattare, apertura negoziale, ricostruzione economica, preparazione alla riconciliazione. I risultati positivi sono frequentemente incerti, grigi, controversi. Basti pensare alla gestione della fine della guerra di Secessione americana o della guerra di Liberazione italiana o della liquidazione dell’apartheid in Sudafrica. Sono meglio della continuazione di un conflitto? Decisamente sì anche se non entusiasmanti. È uno degli svantaggi della pace: non è inebriante come una guerra vinta in modo netto e completo, ma è meno devastante della tossicodipendenza da una vittoria mitizzata (vedasi la guerra dei Sei Giorni arabo-israeliana).

L’arrivo a una pace può seguire percorsi molto diversi: debellatio, stallo e congelamento della guerra, negoziato in guerra per esempio. Siamo ancora soggetti ad una mentalità tutto sommato lineare e sequenziale, basata su un prima ed un dopo che identificano causa ed effetto. Quindi prima la stabilizzazione della situazione di sicurezza e poi il negoziato. È un errore concettuale che dimentica secoli di preziose esperienze antiche, medievali e moderne e vuole ignorare la realtà di società in rete ma disgregate, attive ma scartellate.
Uno degli esempi più interessanti è dato proprio dai negoziati di pace in Colombia e tra Iran e Stati Uniti, perché richiedono una finezza e un sangue freddo non comuni specialmente di fronte alle logiche distruttive della propria parte. In estrema sintesi è un lavoro di decostruzione della diffidenza tra élite ristrette e di simultanea ricostruzione della fiducia con un lavoro di convincimento sulla propria parte, sperando di allargare la fiducia a settori sempre più ampi, lavorando simultaneamente dall’alto e dal basso.
Questo mondo rischia di scivolare eyes wide shut verso una nuova guerra mondiale guerreggiata (la quinta dopo le due note, la Guerra Fredda, la Prima Guerra Finanziaria Globale). Le nuove generazioni non meritano questo lascito di follia e siamo in una corsa contro il tempo e le debolezze umane. Non sempre i Nobel per la pace sono meritati, quasi mai sono ricordati, ma la loro opera ha cominciato a conquistare silenziosamente un posto più importante nei cuori di sempre più esseri umani rispetto agli allori sanguinosi dei grandi guerrieri.