Dossier
Paura e emergenze umanitarie
5/03/15
di VICHI DE MARCHI
ha lavorato come giornalista , scritto programmi TV per Raisat Ragazzi e ha ideato e diretto Atinú, settimanale d’informazione per bambini. Per Editoriale Scienza ha scritto anche “ Emergenza Cibo ed Eroi contro la fame”. È portavoce per l’Italia del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite (WFP). Tra i suoi romanzi “Le arance di Michele”, storia di piccoli emigranti italiani, “La mia vita tra i gorilla”, “La trottola di Sofia” (Editoriale Scienza).
“Ero tornata da appena due mesi nel mio paese, il Sud Sudan, dopo anni passati in esilio in Uganda a causa della guerra civile. D’improvviso sono iniziate le ostilità. Di notte sentivo le esplosioni. Una mattina mi sono resa conto che il mio vicino e quattro altre persone erano stati uccisi. Sono scappata di nuovo in Uganda”. Doru Gladys Oliver ha vent’anni e già una vita da profuga. Chi invece decide di rimanere deve fare i conti con un sentimento di perenne precarietà e insicurezza. Nel paese, di recente indipendenza, oltre metà dei bambini sfollati dalla guerra non va a scuola. Stress e mancata scolarizzazione potrebbero avere conseguenze permanenti nella loro vita adulta, dal punto di vista fisico e cognitivo, avverte uno studio dell’università di Harvard.
In Niger, Ciad , Camerun si concentrano le persone in fuga dalle violenze della Nigeria del Nord. Ma a volte l’approdo è solo momentaneo, il senso di scampato pericolo lascia il posto alla paura e, di nuovo, alla fuga perchè le milizie attraversano anch’esse il confine. Solo in Niger ne sono arrivati 15.000, di persone in fuga, in poche settimane. Dalla Nigeria, a migliaia si sono rifugiate anche in Camerun.
Tra loro c’è Sarah, madre di sei bambini. Proviene dal villaggio di Goza, una delle aree che hanno visto in azione gli uomini di Boko Haram. “Le milizie sono arrivate due mesi fa a piedi, in auto, in motocicletta. Sono fuggita ma durante la fuga uno dei miei figli è stato ucciso. Ma non potevo fermarmi, dovevo correre per mettere in salvo gli altri miei figli”, racconta.
Sono alcune delle storie raccolte dal Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite (WFP) che, in questi contesti di guerra, fornisce alle popolazioni cibo, elemento essenziale per sopravvivere e per tentare di ridurre il senso di paura e di impotenza di fronte alle violenze di cui sono oggetto.
Di fronte alle grandi crisi umanitarie (ma anche agli sbarchi di cittadini stanieri nel nostro paese) si tende ad analizzare il fenomeno, a guardare ai numeri, a discutere di geopolitica. Quasi mai i media danno un nome e un volto alle sofferenze di milioni di persone: irakeni, siriani, famiglie decimate dal virus Ebola, da un uragano, dalla fame.
Non tutti sono uguali nelle emergenze o in contesti di crisi umanitaria. A pagare di più sono spesso le donne, i bambini, gli anziani, vale a dire le persone più vulnerabili.
Spesso guerra e fame producono forme di violenza indirizzate specificatamente alle donne, che diventano arma di guerra per incutere paura e piegare le popolazioni. Anche la violenza domestica può aumentare. Ad esempio, ci sono prove consistenti del legame tra la violenza sessuale e l’insicurezza alimentare. Nei periodi di penuria alimentare, è possibile che si verifichino tensioni all’interno dell’ambiente familiare, inclusa la violenza domestica, mentre tendono ad attenuarsi quando, grazie all’assistenza, le persone riescono a soddisfare il loro fabbisogno alimentare. L’assistenza alimentare può anche evitare che le donne siano forzate a scambiare sesso con cibo.
Oltre alle operazioni di soccorso, l’assistenza alimentare può anche aiutare le persone che hanno subito violenza sessuale, integrandole con altri tipi di servizi, come le cure mediche e il supporto psico-sociale.
A volte bastano semplici iniziative come la forniture di cucine a basso impatto ambientale (Safe Stoves) per ridurre la paura e la minaccia di essere stuprate. Si tratta di un rischio concreto per le donne, in alcuni paesi africani, quando, ad esempio, si trovano a raccogliere la legna o altri tipi di combustibile per cucinare, percorrendo chilometri lontano dai villaggi. Il programma delle cucine che non utilizzano legna ha avuto risultati incoraggianti. Nel Darfur del nord, ad esempio, dove il programma ha coinvolto 33 centri, le donne introducono l’uso di fornelli a risparmio energetico e riuscono a trasformare questi luoghi in spazi sociali ‘sicuri’, con nuove opportunità di formazione (alfabetizzazione, nutrizione, igiene e riforestazione).
Se la paura ha il volto della fame e della guerra, per i più piccoli il poter andare a scuola è il primo segnale di speranza e funziona come un potente antidoto alla paura. E’ successo nei paesi colpiti dal virus Ebola in Liberia, Sierra Leone e Guinea dove, dopo mesi di forzata chiusura delle scuole, le aule scolastiche – sia pure tra mille precauzioni – sono tornate ad affollarsi. Succede lo stesso nei campi dei rifugiati, dove nascono scuole informali, ma che restituiscono un senso di socialità e di comunità.
Ed è proprio il legame con la propria gente, con le proprie abitudini alimentari, con la rete familiare che aiuta chi ha perso tutto a ricostruire il senso della propria identità.
E a sconfiggere la paura.