Dossier

Fu un terrorista Ernesto “Che” Guevara?

3/03/15

MASSIMO CAVALLINI 

quarant’anni di giornalismo al servizio del quotidiano L’Unità, metà dei quali spesi come inviato in America Latina e negli Stati Uniti. Attualmente vive a Punta del Este, In Uruguay. 

Fu un terrorista Ernesto “Che” Guevara? Per molti – e tra questi molti va annoverato anche chi scrive – la risposta è un deciso no. E tuttavia vale la pena partire proprio da questa domanda – che provocatoriamente coinvolge il più mitizzato e “griffato” simbolo della “sinistra globale” – per cercare di comprendere il molto complesso e, per certi versi, molto ambiguo rapporto tra la lotta armata ed il terrorismo in America Latina. Ossia: in quella parte del pianeta dove, a partire dal trionfo della rivoluzione cubana (1 gennaio 1959), la lotta armata è stata, quasi ovunque – e con la Guerra Fredda a fare da sfondo – una parte essenziale della vita politica.
Individuando nella rivoluzione cubana la fonte originale del fenomeno della lotta armata (e, quando è il caso, del terrorismo) ci si rende, in realtà, colpevoli di un’ovvia semplificazione. Guerra, guerriglia e terrore (terrore e contro-terrore) hanno, in America Latina, una ben più lunga e complicata ascendenza, già facilmente identificabile – giusto per scegliere il più vistoso tra i molti possibili esempi – nel sanguinoso conflitto che, nel 1814, vide la Seconda Repubblica del Venezuela, fondata da Simón Bolivar al termine della sua “Campaña Admirable”, sfaldarsi sotto i colpi della “Legión Infernal” di José Tomás Rodríguez Boves. Da un lato l’esercito della élite “criolla” (“los criollos” erano i bianchi di origine spagnola nati in America Latina) che, guidato da Bolivar, aveva liberato la Colombia e la parte occidentale del Venezuela dal giogo coloniale. E, dall’altro, le bande di diseredati, i cosidetti “llaneros”, che Boves – un soldataccio spagnolo meglio noto come “la Bestia a cavallo” – aveva organizzato facendo leva sull’odio degli schiavi e dei meticci verso la classe economicamente dominante, da loro considerata (e non del tutto a torto) vera protagonista della guerra per l’indipendenza. Da un lato il decreto di “Guerra a Morte” di Bolivar. O, più specificamente: il patibolo garantito a tutti gli spagnoli, militari o civili, che non avessero apertamente aderito alla nuova Repubblica. Dall’altro, la pratica della terra bruciata (bruciata là dove più esseri umani erano concentrati) che faceva seguito ad ogni vittoria della Legione Infernale. E, da entrambi i lati, il sistematico uso del terrore, i massacri di civili, le esecuzioni di massa e le teste mozzate esposte, come macabro ammonimento, nelle pubbliche piazze….
Ma non solo. Molti dei fenomeni guerriglieri che, di norma, vengono considerati un prolungamento della rivoluzione cubana, non sono in realtà che il residuale prodotto di guerre civili che – ben più antiche dell’entrata dei “barbudos” all’Avana nel giorno di capodanno del ’59 – a loro volta si radicano in terrificanti violenze ed in croniche ingiustizie. Come ben sanno tutti coloro che hanno letto i “Cento anni di solitudine” di Gabriel García Márquez, in Colombia la lotta armata (frutto di un’estremamente iniqua distribuzione della terra ed ancora in pieno corso) è una sorta di permanente stato delle cose. E, oltre un decennio prima d’incontrarsi con le illusioni socialiste innescate dal castrismo, aveva trovato la sua più attuale ed irrisolta ragion d’essere negli orrori della cosiddetta “Violencia”, la lunga stagione di indicibili mattanze aperta, nell’aprile del ’48, dall’assassinio del leader liberale Jorge Eliécer Gaitán.
In Nicaragua, la guerra di guerriglia – culminata con la caduta della tirannia dinastica dei Somoza, nel luglio del 1979 – porta il nome di Augusto César Sandino, “el general de los hombres libres”, che tra il 1927 ed il 1933 s’oppose, con le sue bande armate di contadini, all’invasione dei marines statunitensi. E che venne poi assassinato, nel 1934, dalla Guardia Nazionale di Anastasio Somoza, il militare che, con la benedizione Usa, si sarebbe di lì a poco impossessato del paese. In Salvador – il “Pulgarcito (Pollicino) de la America Central”, dove la lotta armata giunse, nei primi anni ’80, ad un passo dalla vittoria – impossibile risulterebbe capire il corso degli eventi senza risalire all’insurrezione indigeno-contadina del 1932, ed alla feroce repressione che la domò: almeno 20.000 morti (in un paese che aveva, allora, meno d’un milione di abitanti). Tutti passati sommariamente per le armi dall’esercito al servizio del dittatore militare di turno, il generale Maximiliano Martínez, a sua volta al servizio delle 14 grandi famiglie che componevano la oligarchia “cafetalera”. Ovvero: quella che il più grande poeta salvadoregno, Roque Dalton, a suo tempo aveva, in una sua poesia, molto opportunamente chiamato “asna con garras”, l’asina con artigli. Tra i fucilati anche il leader comunista Farabundo Martí, al cui nome si sarebbe ispirato, decenni più tardi, il FMLN, quel fronte Farabundo Martí de Liberación Nacional che, negli anni ’80, fece da ombrello alle cinque organizzazioni guerrigliere che operavano nel paese. Dettaglio di non secondaria importanza per quanti intendano cogliere l’ambiguità del rapporto storico lotta armata-terrorismo in America Latina. Anche Roque Dalton, grande cantore della ribellione contro le ingiustizie e le violenze dell’ “asina con gli artigli”, morì fucilato. Non dai sicari dell’oligarchia “cafetalera” che tanto disprezzava, ma (nel maggio del 1975) dai compagni dell’organizzazione guerrigliera nella quale militava, del tutto arbitrariamente convintisi, a causa della sua molto eterodossa libertà di pensiero, che fosse un agente della Cia.
L’elenco potrebbe molto opportunamente continuare con l’aggiunta di quella che è indiscutibilmente stata la più feroce e “terrorista” tra le esperienze di lotta armata in America Latina: quella di “Sendero Luminoso” che – guidata da un gruppo di intellettuali dell’Università di San Cristóbal de Huamanga ed ispiratasi non all’esempio cubano, ma ad una reinterpretazione “indigenista” della rivoluzione culturale cinese – insanguinò il Perù lungo tutti gli anni ’80 e parte dei ’90, aprendo la strada, in un reciproco alimentarsi di violenze, alla semi-dittatura di Alberto Fujimori (che oggi sta scontando una condanna a 25 anni per due orrende stragi, quella di La Cantuta e di Barrios Altos, eseguite proprio nel nome della lotta a “Sendero Luminoso”). E certo è che di “terrore” – terrore allo stato puro – è fatta anche la storia, tanto attuale da essere cronaca quotidiana, della violenza criminale che da anni, in un progressivo sfaldarsi d’ogni forma di Stato di diritto, scandisce in Messico ed in quasi tutti i paesi centroamericani (Honduras, Salvador, Guatemala) la lotta per il predominio territoriale tra bande di narcotrafficanti. Ultimo, orripilante esempio: la “desaparición” di 43 studenti in quel di Iguala, nello stato messicano di Guerrero, non lontano dalla splendida mondanità delle spiagge di Acapulco…
Tornando tuttavia al Che ed a quella che – semplificando – viene di norma considerata la vera fonte della lotta armata latinoamericana. Fu un terrorista il “guerrigliero eroico”? No. Ma certo è che alcune delle cose che il Che a suo tempo disse e teorizzò potrebbero tranquillamente uscire, oggi, dalla bocca di quanti vanno perorando – in parti del mondo geograficamente ed ideologicamente anni luce lontani dal Che – le azioni più nefande contro nemici ed “infedeli”. “L’odio come fattore di lotta – scrisse nel 1967 Guevara nel suo molto celebrato messaggio alla Tricontinentale (quello del “uno, due, tre, molti Vietnam”) –; l’odio per il nemico, l’odio che spinge l’uomo molto oltre le sue limitazioni naturali e lo trasforma in una effettiva, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. I nostri soldati devono essere così: un popolo senza odio non può trionfare su un nemico brutale….Al nemico occorre togliere ogni istante di tranquillità e di pace, fuori dalle sue caserme e persino nella sua vita intima…attaccarlo dovunque si trovi, far sì che si senta come una belva intrappolata…”.
Il Che non fu un terrorista. E di certo si è meritato – anche una volta spogliato dai molti orpelli della mitologia e del marketing – la sua fama di lottatore per la libertà. Ma certo è anche che, nella misura in cui senza ritegno predicò la necessità della violenza e dell’odio (destinati a nutrirsi l’un l’altro), il Che a suo modo amò il terrore. Ed ancor più profondamente amò quella che del terrore è la vera madre: la morte. La sua morte (non pochi sono gli analisti convinti che proprio la ricerca del martirio sia stato il vero motore della sua ultima disastrosa avventura boliviana) e la morte degli altri. Impressionante è, nei suoi diari della guerriglia nella Sierra Maestra, il gelido compiacimento col quale narra l’esecuzione di Eutimio Guerra, un guerrigliero sospettato di tradimento. “…alla fine il problema (il problema era capire se quel guerrigliero fosse o meno colpevole n.d.r.) venne da me risolto con un unico di pistola calibro .32 alla tempia…”. E questo tralasciando il racconto delle centinaia di fucilazioni che, a rivoluzione vittoriosa, il Che personalmente diresse al termine dei sommarissimi “processi popolari” che si consumarono nello stadio del baseball dell’Avana…
Molti giustamente ricordano come, alla base dell’odio del Che – e della sua convinzione che senza violenza non potesse esserci giustizia – vi fosse in realtà un’altra e ben più radicata, antica violenza: quella del potere oligarchico ed imperiale, da lui direttamente vissuta nel 1954 in Guatemala, dove lavorava come medico quando il molto moderatamente progressista governo di Jacobo Arbenz – colpevole d’aver varato una modesta riforma agraria – venne rovesciato nel sangue dal golpe del generale Carlos Castillo Armas, apertamente sostenuto dalla Cia. Un golpe che fu certo opera di un “nemico brutale”. Così come brutale – tremendamente brutale – fu il terrorismo che gli Stati Uniti immediatamente scatenarono contro la rivoluzione cubana vittoriosa. La più famosa delle immagini del Che, quella che oggi campeggia su magliette, portachiavi e tatuaggi – vale la pena ricordarlo – è tratta da una foto che venne scattata da Alberto Korda il giorno in cui, nel porto dell’Avana, una bomba made in USA devastò “La Cubre” (una nave belga che trasportava armi) uccidendo decine di persone…Ma vero è anche che la “violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere” ideata dal Che per rispondere a quel “nemico brutale” non ha, a conti fatti, intrappolato che se stessa. O meglio: ha finito per diventare, semplicemente, una funzione moltiplicatrice della brutalità nemica.
In Cile – nel Cile di Allende, della Unidad Popular e della “via parlamentare al socialismo” – le azioni del Mir (Movimiento de Izquierda Revolucionaria) hanno accelerato i tempi del bombardamento della Moneda e dell’avvento di Pinochet. In Uruguay la “propaganda armata” dei Tupamaros (dettaglio curioso: in questo caso contro i consigli del Che) hanno tagliato le gambe a quella che era considerata, pur con tutti i suoi limiti e le sue ingiustizie, la più solida democrazia latinoamericana. Ed in Argentina il contrapposto terrorismo dei Montoneros e della “Alianza Anticomunista Argentina” (la famigerata “Triple A”) – frutti avvelenati, entrambi, del comune albero peronista – rapidamente distrusse le speranze create, dopo anni di dittatura militare, dal ritorno dall’esilio di Juan Domingo Perón. E non si trattò, in tutti e tre i casi, soltanto dell’ “oggettivo” prodotto di scelte politiche sbagliate. La distruzione della “maschera democratica” e l’avvento d’un regime autoritario e violento non era in realtà, per Mir, Tupamaros e Montoneros che l’indispensabile premessa d’una insurrezione popolare vittoriosa…
La maschera cadde. Arrivarono infine, uno dopo l’altro – sotto l’amorosa regia del Dipartimento di Stato Usa, allora diretto da Henry Kissinger – gli auspicati regimi autoritari e violenti. Macchine per uccidere molto più fredde, selettive ed effettive di quelle preconizzate dal Che. E Vinse il terrore. Vinse l’odio. Non quello che “spinge l’essere umano oltre i suoi limiti naturali”, ma quello che distrugge ogni forma di umanità. E proprio questa, probabilmente, è la vera eredità della lunga stagione della lotta armata (terrorista o meno) latinoamericana.