Dossier
Fronteggiare il terrore: psicoanalisi e antropologia
5/03/15
Intervista di Alfredo Lombardozzi a Fabio Dei
L’intervista approfondisce temi attinenti alle attuali manifestazioni della violenza e intende sottolineare l’importanza di un confronto interdisciplinare, che attivi uno sguardo che si orienti al contempo verso i contesti psichici e sociali. Fronteggiare le realtà attuali del terrore, della violenza, sia sul piano individuale che collettivo comporta una complessità di analisi antropologica che si integri, attraverso il dialogo, alla dimensione psicoanalitica.
Alfredo Lombardozzi è psicoanalista Spi e Ipa, socio ordinario con funzioni di training dell’Istituto Italiano di Psicoanalisi di Gruppo (IIPG). Antropologo di formazione si è occupato della relazione tra psicoanalisi e antropologia. Ha pubblicato: Figure del dialogo tra antropologia e psicoanalisi, Borla, Roma, 2006, Antropologia e dinamica culturale, Studi in onore di Vittorio Lanternari, (a cura di A. Lombardozzi e L. Mariotti), Liguori, Napoli, 2008, Psicoanalisi di gruppo con bambini e adolescenti, (a cura di A. Lombardozzi), Borla, Roma, 2012, Sconfinamenti. Escursioni psicoantropologiche (a cura di S. Beggiora, M. Giampà, A. Lombardozzi, A. Molino), Mimesis, Milano, 2014.
Fabio Dei insegna Antropologia culturale presso l’Università di Pisa. Si occupa fra l’altro di antropologia medica e di studi sulla cultura popolare e di massa. Fra le sue pubblicazioni Beethoven e le mondine. Ripensare la cultura popolare (Roma, 2002); Antropologia della violenza (Roma, 2005), Culture del dono (con M. Aria, Roma, 2008); Ragione e forme di vita (con A. Simonicca, 2.a ed., Milano, 2008), La materia del quotidiano (con. S. Bernardi e P. Meloni, Pisa, 2011), Antropologia culturale (Bologna, 2012).
Alfredo Lombardozzi – Marc Augé nel suo libro ‘Le nuove paure’ descrive uno scenario di incertezza dovuto alla crisi ambientale, precarietà economica e terrorismo. Personalmente ritengo che il sentimento della paura sia su un piano individuale che sociale, consente ancora margini di pensiero propositivo in grado di ricreare condizioni di coesione e integrazione sociale. Ci sono situazioni, però, come quelle relative ad azioni distruttive come l’11 settembre o gli attentati di gennaio a Parigi, che fanno superare il confine per cui la paura esita decisamente nel ‘terrore’ e saltano tutti gli equilibri che si erano costituiti. A tuo avviso si può pensare ad una definizione sul piano antropologico, del sentimento del ‘Terrore’?
Fabio Dei – Si può pensare forse al “terrore” come al confine-limite della cultura. Cultura è la costruzione di un mondo addomesticato, familiare, nel quale sappiamo più o meno cosa aspettarci sia dal mondo naturale che dai legami sociali. Il terrore è il venir meno di queste condizioni, lo sprofondare in un caos dove non ci sono più punti d’appiglio. La cultura si costruisce in tempi molto lunghi e si imprime nei corpi oltre che nelle menti, per mezzo dell’habitus. Il terrore in pochi istanti distrugge questo lavoro di anni e secoli. Proprio per questa sua capacità il terrore è una tecnica consapevolmente usata nell’esercizio del potere (a sua volta “culturalmente” prodotta, si potrebbe dire). La si trova impiegata in situazioni chiuse come i campi e le prigioni di tortura, e in tutti quei contesti in cui un gruppo è totalmente sottomesso all’arbitrio violento di un altro gruppo, senza margini né riferimenti giuridici o morali. L’antropologo Michael Taussig ha impiegato la suggestiva espressione “cultura del terrore” in relazione alle “guerre sporche” sudamericane e ad alcune situazioni di dominio coloniale. Questa accezione “forte” del concetto di terrore è naturalmente abbastanza diversa rispetto agli effetti creati oggi dal terrorismo fondamentalista, come da quello politico degli anni Settanta. Tratti comuni sono tuttavia quella che percepiamo come arbitrarietà e incontrollabilità delle azioni violente, e l’impossibilità di sentirsi al sicuro in qualsiasi situazione. Gli attentati suicidi sono da questo punto di vista il fenomeno più inquietante. In Europa e negli usa, malgrado l’11 settembre e Charlie Hebdo, si tratta di episodi per fortuna ancora occasionali. Vi sono parti del mondo in cui fanno invece parte della realtà quotidiana – rappresentano una possibilità costante. Quando si può sospettare ogni persona che ti passa accanto, ciascuno che si siede in treno accanto a te, etc., di essere una bomba umana, la cultura del terrore comincia svolgere il suo lavoro di distruzione sistematica delle relazioni umane e delle categorie culturali.
A.L. – Nella stanza di analisi e nei setting psicoanalitici di gruppo sempre di più gli eventi traumatici della realtà culturale e politica esprimono spazi di sofferenza. Patologie collegate a senso dell’incertezza, di dispersione e frammentazione del Sé, angosce paniche di morte e di sparizione sono sempre più diffuse. Il senso del ‘terrore’ diviene qualcosa quasi di ‘troppo’ reale per essere affrontato. Infatti attiene ad una difficoltà di integrazione sul piano personale e, allo stesso tempo, esprime ‘l’intrusione’ di una realtà la cui complessità e contraddittorietà fa vacillare il senso di agency da parte dell’individuo. Pensi che una riflessione che avvicini la dimensione antropologica a quella psicoanalitica possa essere utile per un più ampio inquadramento delle manifestazioni attuali del terrore?
F.D. – Qui tocchiamo un problema diverso. Non so dire se la realtà di cui abbiamo oggi esperienza sia più patogena rispetto ad altre epoche storiche o a diversi contesti culturali. Non c’è dubbio che l’individualizzazione delle società occidentali contemporanee, che sta alla base di una “libertà” cui non potremmo rinunciare, produce al tempo stesso un indebolimento delle relazioni primarie e dei legami comunitari: indebolimento tanto più avvertito in situazioni dominate dalla “crisi”, dalla precarietà, dall’incertezza. Il che può ben condurre a quelle difficoltà di “integrazione” e allo sbriciolamento del senso di agency a cui ti riferisci. Sono convinto che il terreno elettivo di collaborazione tra psicoanalisi e antropologia culturale consista proprio nel tentativo di definire l’agency, ovvero le forme della soggettività contemporanea. La tradizionale divisione del lavoro, per cui il soggetto sta “dentro” e la cultura o il potere stanno “fuori”, non regge più. Abbiamo bisogno di una teoria complessa del soggetto per capire i comportamenti culturali e sociali; ma abbiamo anche bisogno di comprendere le categorie culturali e le dinamiche del potere per penetrare nell’ “intimo” dei soggetti. Dunque la “stanza di analisi” e il “campo etnografico” non possono più esser così nettamente separati.
A.L. – Lo psicoanalista W. R. Bion facendo riferimento alla relazione madre bambino ha descritto la condizione psichica di ‘terrore senza nome‘, che si verifica quando il neonato è lasciato solo con le sue angosce di morte e di frammentazione a causa di un deficit nella relazione primaria, per cui non funziona adeguatamente quella che viene definita la ‘rêverie materna’, che consente di contenere, elaborare queste angosce restituendole al bambino in una forma bonificata e tollerabile. Fatte le dovute differenze, ho la sensazione che fatti gravi come i recenti attentati creino una sorta di implosione che rischia di creare corti circuiti di pensiero ‘sociale’ tali da indurre prevalentemente reazioni ad azioni, il tutto senza un pensiero. Cosa pensi a riguardo?
F.D. – L’accostamento che proponi è affascinante ma complesso. Per Bion in effetti il passaggio dagli elementi beta a quelli alfa mette in gioco la capacità di pensare. Cosa fa la “buona madre”, capace di favorire questo passaggio? Che cos’è la rêverie materna? Si può dire, forzando un po’, che la madre trasforma le emozioni-senza-nome in pensiero raccontando storie. Di fronte all’angoscia e al terrore abbiamo sempre bisogno di storie che ci consentano di dare un volto e un senso al pericolo. Non credo che reagiamo senza pensare: ma il nostro pensiero è assorbito da schemi narrativi o drammatici forti, sui quali si fondano riconoscimenti e appartenenze identitarie (lo si può notare in modo ancora più forte in relazione ai disastri naturali, la cui fatale casualità dev’esser ricondotta a ragioni umane e a storie moralmente dense per essere sopportabile: le recenti vicende successive al terremoto abruzzese lo dimostrano in modo esemplare). Il problema, con le reazioni al terrorismo, consiste nel tipo di narrazioni pubbliche in cui esso viene inglobato. Gli attentati contro Charlie Hebdo, ad esempio, sono stati incapsulati in due principali e contrapposte narrazioni: quella identitaria, che parla di scontro di civiltà e di un compatto Islam in guerra contro di noi, e quella postcoloniale, seconda la quale i terroristi altro non sarebbero che il frutto dei crimini dell’Occidente, che si ritorcono in forma mostruosa contro noi stessi. Il problema è che le cose sono molto più complesse e sottili: le due master-narratives condividono di fatto un assunto essenzialista su “noi” e “loro” che non aiuta a capire il problema, anzi fa parte del problema stesso.
A.L. – Appadurai riprende alcune tematiche da lui trattate precedentemente e riferisce l’aumento della violenza sociale ed etnica ai processi di globalizzazione che generano incertezza identitaria e forte senso dell’ineguaglianza. Focalizza poi l’attenzione sull’accentuazione di quel fenomeno già descritto da Freud del narcisismo delle piccole differenze, che determina nei rapporti di potere tra differenze ‘maggiori’ e ‘minori’ una conflittualità esasperata. Fabietti, che nei suoi lavori aveva molto evidenziato i processi di negoziazione nelle costruzioni identitarie, nel suo ultimo libro sulla ‘Materia sacra’, propone un legame diretto e costitutivo tra violenza e sacro che si riproduce in forme diverse.
Dal tuo punto di vista, e alla luce degli sviluppi più recenti, che tipo di relazione individui tra religione, identità e violenza?
F.D. – Intanto sarà banale dirlo, ma si tratta di un problema troppo grande perché si possa dare una risposta univoca o generale. Umberto Eco ha sostenuto che sono le religioni del libro – i tre grandi monoteismi, di fatto – a condividere una tendenza al proselitismo che utilizza la violenza come mezzo legittimo. Ma per quanto la violenza si leghi al libri nella storia di tutti e tre i monoteismi, mi sembra difficile sostenere che ciò dipende da una essenza della religione. Certo, la religione è un potente fattore identitario, ed è irriducibile – nel senso che non può mai essere interamente ricondotta ai criteri di una “conversazione razionale” di tipo habermasiano. Ciò non significa che è in sé violenta, ma che può essere usata – e viene di fatto costantemente usata – come strumento di dinamiche di potere, di dominio e sopraffazione che passano attraverso la violenza. È uno strumento di grande efficacia perché incorporato, legato a emozioni e a “fedeltà” culturali profonde: ma sarebbe un errore pensare che queste fedeltà (ad esempio il senso musulmano di ciò che è halāl, lecito o corretto) “generano” o “causano” la violenza. Prendiamo il caso di Charlie Hebdo, appunto: l’attentato è stato causato dalla spontanea reazione di alcuni fedeli islamici all’offesa blasfema delle vignette? Oppure una strategia politico-militare e terroristica ha scelto come bersaglio i disegnatori delle vignette “blasfeme” per il valore simbolico che poteva garantire, strumentalizzando dunque proprio quella fede e quelle profonde fedeltà? Fraintendere questo punto, invertendo la priorità causale, può portarci esattamente a fare il gioco dei fondamentalismi.