Dossier
Uno sguardo psicoanalitico alla violenza contro le donne
5/03/13
Stefano Bolognini
I grandi mutamenti storici degli ultimi cento anni, come la parità di diritti, di opportunità e di indipendenza economica per le donne, il diritto di voto, l’istruzione, il movimento femminista, l’estensione di orizzonti culturali dei giornali femminili, il nuovo riconoscimento sociale ufficializzato, la parità professionale effettiva, hanno ridisegnato lo status femminile conferendogli piena dignità civile, alla pari con quello maschile. Questo non sembra avere affatto eliminato il fenomeno della violenza psicologica, fisica e sessuale: la cronaca riporta in continuazione notizie drammatiche che oltrepassano la normale frequenza dei delitti generici e che segnalano invece una notevole specificità delle aggressioni contro rappresentanti del genere femminile.
Naturalmente, per lo psicoanalista queste notizie non si differenziano del tutto e in assoluto da tutte quelle che parlano di violenza tra le persone: la frase di Money Kyrle relativa ad un “tradizionale commercio di infelicità tra gli esseri umani” mantiene una sua validità generale anche quando si entra nello specifico delle violenze di genere. Eppure non è realistico disconoscere tale specificità. Il rapporto tra uomini e donne è per sua natura così viscerale e carico di fantasmi da mobilitare con forza estrema tutta la gamma delle possibili angosce e tutto il repertorio dell’aggressività. Umiliazioni, svalutazioni, desideri di controllo e di dominio, occupazioni della mente altrui fino allo spossessamento del Sé, si sviluppano e rimbalzano senza tregua non appena il rassicurante regime fusionale che illude le persone all’inizio delle loro unioni viene poi messo in crisi dalla inquietante percezione dell’alterità. Va chiarito subito un punto cruciale, quando si parla di violenze sessuali: di sessuale, in esse, non c’è quasi niente. Non è sesso, è aggressività, e spesso o quasi sempre aggressività distruttiva.
Tale aggressività può essere diretta ed esplicita, come nella sua forma estrema, lo stupro di guerra, in cui la violazione dell’altro con il “fallo-baionetta” altro non è che un trafiggere e occupare anche i territori interni del corpo altrui, oltre che i territori geografici esterni, come sfregio al nemico. La donna, in tal caso, è puro territorio, e la guerra è contro i maschi nemici. Ma vi sono forme meno clamorose, eppure non meno sostanziali, di violenza. Ricordo il racconto di una paziente molto disturbata che diceva di “lasciare al marito lacarcassa” quando lui intendeva possederla, nonostante il loro pessimo rapporto personale; di fatto la paziente si dissociava durante i rapporti (che non poteva rifiutare per complesse ragioni) “osservando se stessa da due o tre metri di distanza”.
Nell’infinito campionario delle violenze possibili, vi sono tanto le ferite dirette quanto i più subdoli avvelenamenti “goccia a goccia”, paragonabili all’infusione di polonio. Le umiliazioni possono essere massive e sferzanti oppure progressive, inapparenti e basate su microtraumi cumulativi, come ad esempio tutti quei casi in cui il patrimonio narcisistico naturale e necessario di una persona viene attaccato, disciolto e svuotato per gradi, senza ferite frontali. Una differenza opportuna per la comprensione di quanto accade va stabilita tra le situazioni nelle quali si assiste a episodi di violenza occasionale dovuta a scompenso psichico e a destrutturazione momentanea dell’organizzazione mentale dell’uomo (ad esempio, in seguito ad accessi d’ira di varia origine) e quelle basate invece su assunti “culturali” e presupposti narcisistici “sacri” che l’uomo ritiene siano fuori discussione e dai quali si sente legittimato a una condotta aggressiva. Rientrano in questo ambito tutte le forme di violenza fondate su presupposti ideologici e/o religiosi che escludono il dubbio e la comprensione delle ragioni altrui dalla mente del maschio.
Per un analista non è difficile riconoscere, in molti casi, la radice profonda di molte violenze maschili nella vendetta per la dipendenza infantile dalla madre, per l’esclusione edipica, per le ferite narcisistiche. Personalmente credo di poter differenziare, ad esempio, due diverse tipologie di “delitto edipico”. Secondo me, i delitti passionali in cui l’uomo uccide il rivale hanno prevalentemente a che fare con un livello fortemente edipico di odio contro l’equivalente paterno, in una dimensione triadica; mentre quei casi in cui l’uccisore sopprime la moglie o fidanzata mostrano un livello ancora più regressivo, nel quale il soggetto vive ancora in una dimensione fortemente diadica di cui non può tollerare la smentita e l’interruzione: qui il terzo quasi non c’è, se non come occasionale evidenziatore della inaffidabilità dell’oggetto di base (la madre diadica), vero ed unico oggetto di tutti i movimenti emotivi nel campo. La regressione massiccia, la smentita della dipendenza e il bisogno di controllare l’oggetto creano spesso forme di violenza di cui il soggetto non coglie l’aspetto infantile estremo: l’espressione della supremazia fisica anzi serve a rassicurarlo circa la propria superiorità rispetto all’oggetto dal quale è invece così dipendente.
In linea di massima, oltre alla confusione tra la sessualità e l’aggressività distruttiva, va segnalata anche una confusione non meno importante tra il codice fallico e il codice genitale. La fallicità illude il soggetto circa la propria perfetta e indefettibile integrità narcisistica, priva tanto di affetti quanto di periodo refrattario: il pene/baionetta è sempre teso e pronto al combattimento. La genitalità invece, basata su una integrazione di affetti e pulsioni, su considerazione per lo stato e la sorte dell’oggetto e sulla accettazione della propria non-onnipotenza, richiede la disillusione rispetto agli ideali narcisistici più rozzi e primitivi e il raggiungimento di una dimensione relazionale con-vivibile. Lo scambio e la condivisione del piacere sono desiderati, permessi e non temuti, in un regime che potremmo concepire come “intersoggettivamente democratico”. Un capitolo a parte meriterebbero: la trasmissione transgenerazionale dei traumi e della violenza; l’identificazione con l’aggressore (far soffrire per non soffrire); il vincolo sadomasochistico, come via di appagamento di pulsioni inaccettabili e come garanzia di non separatezza e di non abbandono; il riconoscimento consapevole della violenza, come primo vero passo verso la libertà; e infine la strategia del “pugno di ferro in guanto di velluto”, cioè la dissimulazione – apparentemente flautata e gentile – del “consiglio” mafioso.
Anche nella relazione tra uomo e donna la violenza può essere allusa, minacciata o annunciata in modo collaterale, insinuante e con toni melliflui. Tutte queste varianti fanno da corollario inquietante allo scoppio della violenza franca, e ne complicano i codici e il linguaggio non verbale, in una dimensione vecchia come il mondo che la civiltà non è riuscita fino ad oggi ad eliminare, e molto spesso nemmeno a limitare.