Dossier
Di cosa parliamo quando parliamo di femminicidio?
28/02/13
Cristina Saottini
La violenza sulle donne, il femminicidio, ha contorni ampi, investe realtà differenti, è espressione di una crisi profonda e non solo dei ruoli, una crisi che cerca nell’esercizio di un dominio primitivo, di una imperante valorizzazione della contrapposizione come espressione di potenza, una illusoria via d’uscita. Ho parafrasato il titolo della raccolta di novelle di Raymond Carver, in cui è narrata la follia di storie ordinarie, perché penso che la possibilità di narrare e ascoltare narrazioni sia la condizione indispensabile per avvicinarci alla violenza, per sua natura quasi indicibile, e per poterne ricostruire il senso. Come psicoanalisti entriamoin contatto con la violenza attraverso la narrazione o rendendone possibili le narrazioni. A volte la realtà che ci sta intorno sembra, invece subito ed esclusivamente consumata dentro la prepotenza dell’immagine oppure svuotata dall’ambiguità di un linguaggio che suona spesso come affabulazione coatta, intenzionalmente a tesi. Un linguaggio che ha perso la possibilità di raccontare e di costruire uno spazio per le emozioni, proprie e di chi ascolta.
Prenderò come esempio due testi dove il linguaggio narrativo, eticamente teso, permette di immedesimarsi e di partecipare a ciò che descrive superando la barriera del sensazionalismo: due testi che in forma e per ragioni diverse toccano la coscienza e lasciano un segno. Sono scritti molto diversi fra loro: il primo è un dialogo per il teatro di Dacia Maraini “Per proteggerti meglio figlia mia” (Perrone Editore), il secondo è il resoconto giornalistico, in realtà una narrazione struggente, della testimonianza processuale di una donna vittima di violenza a Seattle negli Stati Uniti d’America. L’autore, Eli Sanders editorialista del sito web di Seattle “The Stranger”, è stato premiato con il Pulitzer per questo articolo, tradotto daMatteo Colombo su D di Repubblica.
In entrambi questi i lavori si parla di una violenza sulle donne che si conclude con l’omicidio.
Nel testo della Maraini viene data voce diretta ai protagonisti, un padre e una figlia che, rimasti soli dopo la morte della madre, quando la bimba era piccola, conducono una vita chiusa nella casa che va lentamente in rovina, annullando la realtà del tempo che scorre. La figlia, che bambina si era ammalata ed era stata curata teneramente dal padre terrorizzato dal poter perdere anche lei, resta per lui sempre una piccola bimba. Il padre se ne occupa dapprima con amorevole tirannia, comprandole fiori e brioche alla panna e impedendole di evolvere e di vivere, di affacciarsi alla finestra per vedere un mondo esterno divenuto ora depositario del suo terrore. Il padre mette in bocca alla figlia i propri pensieri, così come prima la imboccava con il cucchiaino, e da ultimo, quasi senza soluzione di continuità, le appoggia la pistola alla tempia e spara. Poi si suicida, incapace anche lui di reggere il “tutto” alienante nel quale il loro rapporto si è trasformato. In questo caso la violenza è dentro il legame padre-figlia, il frutto di una distorsione dell’amore, che ne impedisce lo sviluppo.
La prosa scarna di Dacia Maraini che fa parlare il padre e la figlia, quest’ultima con voce incerta e non realmente propria, riesce magistralmente a farci seguire il percorso di trasformazione dall’amore paterno alla follia dell’impossessamento. Procediamo, grazie un linguaggio sempre più allucinato ed estraniato, che via via perde il suo legame con la realtà della vita e delle emozioni, dentro la lenta decostruzione di senso che dà forza alla follia di questa vicenda. Vicenda paradigmatica, oltre che di abuso sulle figlie, di molte storie di stupro e omicidio di donne un tempo amate, dove l’uomo risponde con violenza all’angoscia di un abbandono assimilato alla perdita della propria stessa identità.
Agli occhi del padre la violenza si giustifica come atto d’amore, il dichiarato desiderio di protezione è la maschera della fragilità e dell’impotenza, dell’impossibilità ad accettare un legame libero che, proprio perché libero, potrebbe anche essere perduto. Perché ci sia violenza è necessario che l’altro sia ridotto a merce, preziosa o di scarto che sia, ma comunque una merce che consente l’esercizio di un possesso che ha preso il posto della relazione. La volontà di possesso, che è alla base della violenza, segnala il totale smarrimento del senso di sé e della propria possibilità di attribuirsi un valore, valore che può essere illusoriamente riaffermato solo attraverso il gesto rapace. Tra volontà di possesso ed esercizio di un potere arbitrario il passo è breve e necessitato.
In realtà questo processo di deumanizzazione dell’altro riguarda per primo l’attore stesso del gesto violento, che non è in grado accettare i propri limiti, le proprie perdite, i propri lutti, il dolore delle proprie trasformazioni. È questa l’impossibilità che sta alla base della alienazione, che si fa impossibilità a muoversi dentro storie a più voci: quando la parola, chiusa in un rifugio solipsistico, perde ogni possibile senso di verità. Senza l’Altro non c’è comunicazione e il discorso si riduce a un monologo allucinato.
Il secondo testo racconta un terribile fatto di cronaca nei confronti di due donne che si amavano e che progettavano il proprio futuro insieme, assalite nella loro casa di Seattle durante la notte da uno sconosciuto, un giovanissimo uomo di colore, che le ha violentate brutalmente, minacciandole per ore con un coltello, uccidendone una e ferendo gravemente l’altra. Il testo è il resoconto della testimonianza resa al processo dalla donna sopravvissuta. Per quanto racconti fatti brutali e strazianti, la qualità della narrazione, che esprime la tensione della testimonianza resa e ascoltata, dai giudici, dalla giuria, dal pubblico di amici e parenti delle vittime e dall’avvocato che difende l’imputato, consente, attraverso la ricostruzione della vita e dei sentimenti delle protagoniste, di umanizzare, in gran parte almeno, il disumano. La sopravvissuta senza nome, “la compagna di Teresa” come è chiamata nell’articolo, che nella versione inglese ha titolo “The Bravest Woman in Seattle”, la donna più coraggiosa di Seattle, dice: “Dovete ascoltare. È successo a noi. Dovete capire chi abbiamo perduto. Ascoltare che cosa ha fatto quell’uomo. Dovete sapere come Teresa gli ha tenuto testa. Cos’era che amavo di lei. Dovete capire che cosa quell’uomo ci ha portato via. Ecco cos’è successo….. Piangendo, ogni tanto. Stringendo i denti e tirando dritta anche quando diventava sfiancante rivivere quel calvario durato circa un’ora e mezza, ma che per essere ricostruito in tribunale ha richiesto quasi sei ore nel corso di due giorni. Ha espresso rimpianto e terrore e umiliazione e dolore e rabbia. Ha mostrato di rendersi conto di quanto tutta la vicenda fosse orribile, davvero orribile e assurda, e accolto di buon grado ogni occasione che si presentava per sorridere di se stessa, delle cose bizzarre che la sua compagna assassinata aveva fatto in vita, di una domanda goffa e involontariamente scortese rivoltale dal pubblico ministero…”
In un articolo successivo, dopo la sentenza di ergastolo per l’accusato, trova la forza di riprendere il proprio nome, la propria parlante identità e scrive: “Le parole di Eli Sanders hanno portato identità al mio personale orrore e sarò sempre grata per essere stata interpretata dalla sua voce onesta. Sono anche grata a tutte quelle persone, che non ho mai incontrato, che sono state così coraggiose da leggere quelle parole scomode e vere. A tutti quelli che sono stati testimoni del nostro viaggio attraverso le parole si Eli dico: grazie del vostro ascolto, il vostro coraggio mi rende meno sola.” (Jennifer Hopper: “I would like you to know my name” )
La violenza è innanzitutto attacco al legame umano. Possiamo cercare di capirne le radici antropologiche, possiamo darle un contorno sociologico, possiamo cercare di produrre una diagnosi che dia senso psichiatrico ai gesti, vedere nel possesso incestuoso della figlia il tentativo di annullare l’irreparabilità della morte o riconoscere nell’esclusione dell’uomo dal legame tra le donne, evocatrice di altre forse terribili esclusioni, il pretesto alla base del gesto folle. Ma la perdita del legame, che porta l’uomo ad ammazzare con la donna che muore anche la propria speranza e capacità di amare e di essere amato, la propria speranza di essere autenticamente creativo, è anche una delle espressioni, forse la più terribile, della distruzione del legame generativo tra l’uomo e la donna. In questa funzione anti-vita la parola perde il suo senso autenticamente comunicativo e affettivo. Come esseri umani dobbiamo mantenere alta la nostra capacità di conoscere senza paura, di farci sconvolgere senza scandalizzarci, di chiedere giustizia e di operare per la giustizia. Come psicoanalisti possiamo cercare di dare voce, non solo alla vittima, ma anche al perpetratore, e di trattare la parola con il rispetto che le dobbiamo, in quanto portatrice di verità affettiva. La parola svuotata di senso con la quale troppo spesso dobbiamo confrontarci non descrive e non significa più nulla, dentro una logica immaginaria che non sperimenta ma illude, che pretende di creare senza processo creativo, che assimila senza riconoscere e che, con qualche enfasi, potremmo chiamare parola che uccide, nella sua funzione di misconoscimento radicale dell’altro. Credo che la psicoanalisi possa in questa prospettiva, dare testimonianza, nell’ampio senso etico del termine, che è anche giuridico e letterario, per permettere di ritrovare il senso della parola, metterla al servizio della verità, libera dai lacci corruttori nei quali è tanto spesso imprigionata.