Dossier
Un setting “da campo” in Bosnia Erzegovina
21/01/14
Un setting “da campo” in Bosnia Erzegovina
Maria Chiara Risoldi
Premessa
Nel 1994, durante la guerra in Bosnia, alcune psichiatre di Tuzla, avevano organizzato un Poliambulatorio per le donne, Casa Amica, con il sostegno politico di Spazio pubblico di Donne, un’associazione bolognese che aveva agito con il sostegno economico del Gruppo di Volontariato Civile non appena erano emerse le prime notizie relative agli stupri di massa (l’arma di guerra peculiare del Governo serbo-bosniaco contro la Bosnia mussulmana).
Il lavoro presentava quotidianamente problemi così drammatici, inesplorati, urgenti da fare avvertire la necessità di aiuti specialistici. Le terapeute pertanto chiesero a Spazio Pubblico di essere messe in contatto con colleghe in Italia, che potessero fornire supervisioni del lavoro clinico.
Una domanda molto specifica che esse chiamarono “supervisione”, da intendersi come la metafora per uno sguardo diverso che permettesse loro di vedere al di là dell’inevitabile accomodamento alla condizione d’urgenza. Uno sguardo “dal di fuori” portato da altre psicoterapeute, con esperienza clinica diversa, in grado di fare un’anticipazione e una previsione sulla ricostruzione e sulla riparazione psichica di persone tanto maltrattate. E soprattutto in grado di mantenere una distanza, uguale a quella del setting analitico, che non significa né indifferenza né ambiguità ma possibilità di oscillazione dalla posizione schizoparanoidea, in cui si precipita inevitabilmente quando ci si avvicina emotivamente alla sofferenza causata dalla distruttività umana, alla posizione depressiva, quando, allontanandoci dalla guerra, potevamo osservare gli orrori che colpivano tutte le popolazioni e drammaticamente segnavano il destino delle nuove generazioni di bambini serbi oltreché bosniaci.
I civili e i militari locali hanno bisogno di cure. I primi a poterli curare sono i professionisti locali, ma questi stessi vivono nel trauma e sono traumatizzati e dunque a loro volta hanno bisogno di cure, delle cure di chi stia abbastanza lontano da poter compiere, nel tempo e nello spazio, concretamente, il tragitto dalla posizione schizoparanoide a quella depressiva, per potere svolgere una continua funzione di reverie (Bion), di holding (Winnicott), di testimonianza (Miller).
Il Gruppo
Con il mio gruppo, assieme, noi siamo state testimoni di una vicenda eccezionale: donne che curano donne in guerra e poi donne che diventano punto di riferimento anche per uomini che curano uomini, donne, bambini, dopo la guerra. Scrive Parthenope Bion Talamo: “ Sembra abbastanza probabile che il singolo individuo non possa gestire una situazione mentale, in cui deve accogliere il pensiero della distruttività totale, in isolamento e occorre che si affidi al gruppo, nella speranza che questo, con una funzione analoga a quella del seno originale, possa contenere “l’urlo” e renderlo pensabile. Ma a quale gruppo può affidarsi e che cosa può fare il gruppo?” (“L’impensabilità della guerra nucleare”, Parthenope Bion Talamo, pag.41, in “Immagini dell’impensabile”, a cura di Patrizia Messori e Elena Pulcini, Marietti, Genova, 1991 Là si era formato un gruppo per contenere l’urlo, noi avevamo formato un gruppo per contenere il gruppo che conteneva l’urlo. Scrivo per testimoniare che è indispensabile, che si può fare e mostrare un modo psicoanalitico per poterlo fare. La nostra esperienza è durata dal 1994 al 2000. Dal 1994 al 1997 il progetto fu finanziato da diverse Ong, dal 1998 al 2000 dalla Regione Emilia Romagna. Il lavoro delle psicoterapeute italiane è stato volontario e gratuito. Pur non essendo terapeutica tout-court e muovendosi al di fuori dell’ortodossia psicoanalitica, la nostra esperienza si inserisce in quelle “ricerche” che mostrano i danni delle lacerazioni sociali sulla psiche individuale usando le teorie psicoanalitiche necessariamente articolate al “campo esterno”.
Un primo uso della teoria e pratica analitiche è stato la formazione di un gruppo che raccoglie le differenti voci dei singoli. Nel nostro gruppo c’erano le voci delle donne, di (pochi) uomini, dei bambini e adolescenti raccontati nei casi clinici, delle diverse nazionalità e religioni. Il gruppo come microcosmo che contiene e riflette il macrocosmo. Il gruppo, visto da questo vertice di articolazione al campo sociale, ha cercato di ricreare il “quadro” sociale frantumato e disorganizzato attraverso la costituzione di un’istanza di convivialità – convivenza che fuori non c’era più o cominciava appena a nascere. Quando un vicino attacca il suo prossimo, uccide i membri di una famiglia, e distrugge la sua casa, la vittima non perde solo i membri della famiglia, la casa, l’amicizia del prossimo, ma perde anche ciò in cui in genere si fa riferimento con “fiducia nell’umanità”. Non è una fiducia astratta o un’ideologia irrilevante, senza di essa una persona non può più credere che valori umani quali l’amicizia, la lealtà, il rispetto, la decenza, l’amore, possano veramente esistere e questo tipo di perdita ha una vasta portata….
Il secondo tipo di perdita che queste persone sperimentano è collegata alla prima e ha a che vedere con la nostra capacità di prevedere la vita. In una guerra con le caratteristiche assunte nei Balcani, l’attentato alla fiducia negli altri, nelle istituzioni che garantiscono i legami sociali, assieme alla capacità di prevedere la quotidianità sono crollate e ricostruire il cerchio di convivenza a partire dalla speranza che il vicino non diventi un nemico è il primo passo per trovare identità personale e umana, per permettere il ripristino del senso di realtà. Nella presentazione e discussione dell’esperienza clinica dei colleghi bosniaci, nei riferimenti alle storie personali, esperienze segnate da lutti e cambiamenti, abbiamo colto difficoltà e rischi assieme a uno sforzo continuo di trovare le parole, di costruire ipotesi. Noi stesse abbiamo attraversato momenti di accecamento, di dubbio, di inadeguatezza, di impotenza. Ci siamo chieste se alcuni aspetti della guerra, i più umilianti, vergognosi, nascosti, non potevano venire alla luce proprio per una specie di momentanea afasia che ci rendeva tutti incerti e dubbiosi su “come” trattare certi argomenti.
Era necessario un tempo lungo perché un pensiero, una parola nuovi ripristinassero la pensabilità dell’esperienza. Chi ascoltava non poteva far altro che aspettare e contemporaneamente andare a proprie differenti esperienze che potessero fare da “ponte” senza confondersi le une nelle altre. Abbiamo cercato di costruire un legame con persone lontane, geograficamente e non solo, caratterizzato da un continuo rimando di pensieri ed emozioni per cominciare a rappresentare anche la novità di nuove situazioni sociali, ma anche psichiche. Abbiamo condiviso una difficile realtà: alle ferite da guerra con cui erano a diretto contatto i colleghi bosniaci hanno fatto da contrappunto le nostre sensazioni di impotenza, stanchezza, paura.
Durante i primi incontri di gruppo i pazienti che ci venivano presentati avevano sintomi che apparentemente non differivano da quelli dei bambini che vivono in pace. Forse era questo l’unico modo per iniziare a pensare l’impensabile. Era necessario partire da qualcosa di conosciuto, le fobie scolari, per arrivare a ricostruire un contesto ben differente: quello della rottura della continuità di esistenza che per un bambino riguarda anche la vita nel gruppo dei pari, del rapporto con gli adulti che in poco tempo e in modo assolutamente imprevisto era andato in pezzi. Chi ha lavorato con le persone traumatizzate ha descritto la particolare fase della “buona” rimozione, quando, per riprendere a vivere, è necessario dimenticare, prendere distanza dalle situazioni drammatiche per preservare un sufficiente controllo e metabolizzazione delle angosce catastrofiche scatenate dall’evento e procedere a un’elaborazione successiva.
Abbiamo pensato a quella sorta di accecamento che ha preso noi italiane alla fine dell’esperienza, quando non siamo riuscite a cogliere, dire e restituire al gruppo bosniaco la separazione imminente. In questi casi le separazioni, da un luogo all’altro, da una lingua all’altra, da un conteso a un altro, da una cultura all’altra, da una situazione di pace a una di guerra rendono molto difficile un buon equilibrio, una giusta distanza. Sono separazioni per le quali è necessario inventarsi nuove parole, nuovi pensieri. Ciò non vuol dire che bisogna inventare tutto ex-novo, ricominciare da capo: le migliaia di parole della lingua dovranno essere risistemate in un diverso ordine, il nostro umano funzionamento mentale dovrà attivarsi creativamente per accogliere altre rappresentazioni e altri simboli.
Dopo ogni viaggio ci siamo confrontate con le diverse sensazioni ed emozioni che ci avevano abitate: come se in quelle particolari situazioni fosse necessario un orientamento che rischiavamo ad ogni viaggio di perdere. In una situazioni così specifica ci siamo a volte perse: ci chiediamo ora se un certo disorientamento non sia necessario per poter comprendere quello che succedeva fuori e dentro il gruppo. Si potrebbe pensare a un’inconscia condivisione con lo spaesamento totale vissuto da chi vede crollare il proprio Paese. Questo incessante lavoro sulle nostre emozioni ci ha permesso di avvicinare l’impensato della guerra balcanica; non ci siamo mosse per rispondere ad una domanda di cura a che non ci era stata richiesta, ma abbiamo cercato di trovare parole che “curino” capaci di rendere conto di alcuni aspetti della catastrofe.
Gennaio 2014
Bibliografia
1) Bion Talamo P., L’impensabilità della guerra nucleare sta in Messori P., Pulcini E. ( a cura di), Immagini dell’impensabile, Marietti, 1991
2) Dal 1994 al 19997 il progetto fu finanziato da diverse Ong, dal 1998 al 2000 dalla Regione Emilia Romagna. Il lavoro delle psicoterapeute italiane è stato volontario e non retribuito
3) Brunori P., Candolo G., Donà dalle Rose M., Risoldi M.C. Traumi di guerra. Un’esperienza psicoanalitica in Bosnia – Erzegovina , Manni, Lecce, 2003 (I Had a Mummy too. War traumas: a Psychoanalytic Experience in Bosnia – Herzegovina. Free Association Books, London, 2006)