Dossier
Segni dai Lager
21/01/14
A cura di Renata Rizzitelli
Il testo che segue è una riduzione a cura di Renata Rizzitelli dal saggio inedito di Francesco Fait ed Anna Krekic i quali hanno curato l’edizione del seguente volume: Giovanni Guareschi e Nereo Laureni. Segni dai Lager.Testimonianze di due internati militari. Edizioni Comune di Trieste, 2011 Tra i 650000 internati nei Lager, ci sono anche l’internato numero 103575 e il 6865, rispettivamente Nereo Laureni e Giovannino Guareschi. Nereo Laureni è un triestino nato nel 1919, sottotenente di complemento freschissimo di nomina al momento della cattura (“Due giorni ufficiale e poi… prigioniero! Bella carriera, vero?” scriverà alla futura moglie Bruna Orell il 13 febbraio 1944 dall’Oflag di Beniaminowo1). Giovannino Guareschi è del 1908, e al momento della cattura è già giornalista e scrittore affermato: Richiamato alle armi nel 1943, dopo l’armistizio si trova ad Alessandria, dove accetta la cattura da parte dei tedeschi, anche se forse sarebbe possibile darsi alla fuga: “Durante la notte molti riescono a scappare. È relativamente facile: tutti ci provano, ad esempio, il famoso vestito da prete lasciato da un sacerdote. Io non voglio essere ridicolo, né tento in altri modi. Seguo la sorte dei soldati che ho visto questa sera passare in fondo alla strada scortati dai tedeschi col parabellum sotto il braccio. Era una fila che non finiva mai. C’è da morire di vergogna.”2
Gli Oflag e le opere della prigionia di Laureni e Guareschi
Negli Oflag gli ufficiali, costretti a inedia, promiscuità, fame e sporcizia, correvano il rischio, non essendo obbligati a lavorare, di sprofondare nell’inazione e nell’abulia. Seppero in gran parte, al contrario, reagire sul piano morale e intellettuale, dando vita sovente a una “discussione collettiva e a un riesame al tempo stesso politico e culturale del passato nazionale”3 Scrisse a tale proposito un sottotenente dall’Oflag di Fallingbostel: “Non si era mai parlato fra noi – e le poche volte lo si era fatto un po’ a caso – di libertà, di democrazia, di diritti alla persona, di rispetto dei popoli: tutti concetti che la nostra generazione non ha avuto modo di approfondire e che avevano appena cominciato a profilarsi nella quaresima estiva del regime badogliano. Si sente che quelle petizioni di un’altra prospettiva in cui porsi per giudicare le cose della politica non risultano inapplicabili e anzi combaciano con profondi motivi di umanità, oltre che con i precetti religiosi.4
Ma gli Oflag furono soprattutto incredibili cantieri di attività culturali, nei quali, scrisse Guareschi:“… la cultura rivendicò i suoi diritti e cominciarono le conferenze storiche, letterarie, scientifiche, artistiche, le lecturae Dantis, le serate di poesia moderna. Furono istituiti corsi di lingue, corsi di diritto, corsi di agraria, corsi di ingegneria, ed ecco l’università con docenti e programmi quasi regolari. Indi si organizzarono serate di musica, di canto, di arte varia ed ecco il teatro, che quando fu possibile ebbe orchestre, orchestrine e compagnie di prosa e rivista …”5
Fu dunque così che nei lager per ufficiali italiani venne prodotto un corpus notevolissimo di espressioni artistiche. C’è chi suona, chi disegna, chi scrive, chi dà vita al giornale parlato, chi organizza una mostra d’arte (con tanto di attestati di partecipazione, ironici e quasi impertinenti),una rappresentazione teatrale, un’assemblea, una conferenza, una funzione religiosa. Gli Oflag sono campi per ufficiali, gente istruita, che sa scrivere, dipingere, recitare, che conosce i meccanismi delle cose, come quelli che fanno funzionare una radio. E che la costruisce, capta le trasmissioni di Radio Londra, Radio Berlino e Radio Bari, apprendendo le notizie dai vari fronti prima dei tedeschi.
C’è anche chi gioca a carte, e c’è chi fa nulla e si ferma a pensare davanti a una finestra vuota. Nel campo, comunque, un giorno vale l’altro. Nei disegni di Laureni lo sguardo è distaccato. Raramente ironico (il disegno intitolato Mode autunno-invernali nel quale sono ritratti due prigionieri in piedi vicino a un recinto vestiti di indumenti raccogliticci, è un esperimento isolato, probabile frutto dell’influenza della serie Grottesco di Arturo Coppola), mai troppo malinconico o rabbioso. La sentinella tedesca è immobile nel suo cappotto e cappello, una statua con le mani in tasca, in piedi davanti a un recinto. Non fa paura, non urla, non picchia. Sul versante della parola scritta, l’apice dell’attività creativa negli Oflag fu raggiunto dai lavori di Giovannino Guareschi; egli, nel lager di Beniaminowo scrisse anche, nel dicembre del 1944, La favola di Natale, ispirata dalle Muse Freddo, Fame e Nostalgia, che narra di un bambino di nome Albertino che, stanco di aspettare il ritorno a casa del padre internato, decide di andarlo a trovare con una combriccola composta dalla nonna, dal cane Flick e da una lucciola.6
La creatività e l’arte di Guareschi nel periodo della prigionia vennero affidate a linguaggi differenti, pur essendo accomunate come trait-d’union dall’umorismo, inteso sia come elemento capace di arrecare svago, divertimento o sollievo, sia come elemento “in grado di frapporre fra l’individuo e quel che gli capita una distanza tale da poter guardare a quegli avvenimenti col distacco necessario a ridimensionarne l’importanza”, in modo da riuscire a “dominare le passioni, per non farsi coinvolgere dall’emotività o dai sentimenti, per mantenere insomma quel distacco che permetta una serenità di giudizio.”7
Differente il discorso che riguarda i taccuini e le agende, che il parmigiano vergò e tenne per sé durante la cattività. L’umorismo, che pure non manca, è costretto a convivere con sentimenti cupi come desolazione, dolore, disperazione, sfiducia, che sono capaci però di ribaltarsi, a tratti, nei sentimenti opposti.
Fu lo stesso Guareschi, nelle “Istruzioni per l’uso” del Diario clandestino, a svelare cosa fece di questi scritti non appena arrivato a casa dopo la liberazione: “E appena a casa misi un nastro nuovo sulla macchina da scrivere e cominciai a decifrare e sviluppare i miei appunti, e dei due anni di cui intendevo fare la storia non dimenticai un solo giorno. Fu un lavoro faticosissimo e febbrile: ma, alla fine, avevo il diario completo. Allora lo rilessi attentamente, lo limai, mi sforzai di dargli un ritmo piacevole, indi lo feci ribattere a macchina in duplice copia, e poi buttai tutto nella stufa: originale e copia. Credo che questa sia stata la cosa migliore che io ho fatto nella mia carriera di scrittore: tanto è vero che essa è l’unica di cui non mi sono mai pentito.”8
In realtà, le pagine del “diario completo” non vennero date alle fiamme, ma riciclate nel verso opposto e utilizzate per altri scritti. Della gran parte di esse si sono perse le tracce, ma una carpetta con un centinaio di fogli è stata fortunosamente ritrovata e il suo materiale utilizzato per essere pubblicato, insieme al contenuto di taccuini e agende, nel recente Il grande diario. Giovannino cronista del Lager 1943-1945.
Perché no, perché sì
Le ragioni che indussero 650.000 soldati italiani a preferire la prigionia alla “libertà” che veniva loro offerta furono varie: motivazioni di tipo politico ed etico (come la possibilità di prendere le distanze dal fascismo ora che veniva data facoltà di scegliere – e per i militari più giovani, la cui vita era coincisa con quella del ventennio, era la prima volta – o il rifiuto di ripudiare il giuramento prestato al re, che fu atteggiamento diffuso soprattutto tra gli ufficiali di carriera e i più anziani di quelli di complemento, o ancora l’indisponibilità a combattere una guerra civile contro altri italiani); stanchezza di combattere e scoramento nel continuare una guerra avvertita come sbagliata e perdente. Considerazioni opposte avrebbero al contrario consigliato di dare il proprio assenso a una adesione militare in una prima fase e – per gli ufficiali – a uno dei vari servizi lavorativi proposti successivamente: volontà di sottrarsi alle condizioni durissime di vita nel lager; lusinghe di un migliore trattamento immediato in termini di vitto più ricco, condizioni più confortevoli di prigionia in una prima fase e invio a casa in una fase successiva; interferenze dei familiari che in molti casi rivelavano nella corrispondenza difficoltà di comprendere a distanza le ragioni degli Imi nel permanere in prigionia.
Alla fine occorreva soppesare vantaggi e svantaggi e prendere una decisione, come fece il ventitreenne Nereo Laureni quando pronunciò, per la prima e non unica volta, il proprio “no”. In una lettera alla futura moglie Bruna da Bremervörde datata 27 maggio 1944 scrisse in proposito:
“Tutto questo ozio forzato, tutta questa esasperante monotonia fanno pensare a tante cose, vedere il “pro” e il “contro” di esse, ragionare sopra, riragionare ancora, così cara mia ho preso la decisione di resistere e l’ho presa coscientemente, preferendo (con un quasi stoicismo) la quasi fame (perché allora pativamo di questa brutta malattia), il freddo e tutti gli annessi disagi (non pochi) all’allettante invito di ritornare in patria ecc. (quando ritornerò a voce i particolari) e l’ho fatto per il grande amore che ho per te e per il bene che voglio ai miei. Ho giocato una carta, alla fine vedremo chi avrà avuto ragione!!”
Le sofferenze che il giovane sceglieva consapevolmente di accogliere erano dunque, a suo avviso, il corrispettivo per onorare l’amore dei suoi cari e meritarne il rispetto: si manifestava cioè in queste parole una concezione dei rapporti personali e familiari profondamente etica, che implicava automaticamente atteggiamenti e contegni rivolti al giusto piuttosto che al conveniente. Il 9 maggio 1945, in un’altra lettera, stavolta dal campo liberato di Fallingbostel, Laureni scriveva: “Sono contento di un’altra cosa: l’aver resistito a tutte le lusinghe, minacce, privazioni, tormenti, disagi fattici durante i 20 lunghi mesi di prigionia”.
Giovannino Guareschi, in merito alle motivazioni della sua scelta, fu apodittico:
“E se tu mi chiederai perché io non ho aderito io ti risponderò semplicemente: ‘Perché sì’.
Perché si vuole bene ai figli? Perché sì.
Perché si vuole bene alla propria madre? Perché sì.
Perché non potevo aderire all’idea fascista repubblicana e al nazismo ora che mi era concesso di scegliere?
Perché sì.
Ci sono delle cose, grazie a Dio, che non si possono spiegare.
Ripensandoci sopra con calma, posso dirti che allora ho risposto di no in quanto inconsciamente ero spinto ad agire secondo il mio dovere di soldato e di cittadino e secondo il mio tornaconto personale.
Perché, figlio mio, quando il tuo utile si avvera a danno degli altri, ciò è immorale, ma quando il tuo utile si identifica con l’utile comune, ciò è morale.”9
Ma il Comando tedesco distribuisce tre vasi portafiori
“Due sole pompe per tremila persone e l’acqua è inquinata. Lavarsi è un sogno. Bere è un rischio.
Non c’è modo di sedersi nelle camerate e quattro tavole sbilenche debbono servire per ottanta persone. Il rancio è terrificante. Le carote da foraggio che ci danno ora sono completamente marce.
Le pulci viaggiano a miliardi nella coperta e negli abiti. Piove sui letti. Pidocchi. Topi che rovinano tutta la poca roba negli zaini.
Ma il comando tedesco distribuisce tre vasi portafiori per ogni baracca, con annessi rametti fioriti.”10
Così Guareschi, con la consueta comunicativa chiara ed efficace, rende conto dei disagi e delle sofferenze inflitti agli ufficiali italiani negli Oflag. Questi disagi e sofferenze, sempre presenti nelle opere sulla prigionia dell’emiliano, non traspaiono invece né nei disegni né nelle lettere di Laureni: nei disegni la scelta di prediligere soggetti “neutri” (ambienti e oggetti soprattutto) poteva essere dettata dalla vigilanza delle autorità del campo, che su ogni forma espressiva prodotta decretavano approvazione oppure, al contrario, censura e conseguente sequestro, mentre per le lettere spedite alla famiglia si aggiungeva come ulteriore motivazione la volontà di non ingenerare preoccupazioni e ansie in chi leggeva.
Le lettere subivano il controllo di una doppia censura, tedesca e italiana. Erano scritte a matita, in modo da poter cancellare facilmente le frasi “sospette”.
Sempre in tema di pacchi-viveri la lettera alla fidanzata del 17 aprile 1944:
“…ti prego di dire ai miei che con la prossima cedola che io invierò mettano pane ben secco o galletta, marmellata (possibilmente scatole cartone) o frutta secca, formaggio (qualsiasi tipo), dadi, latte condensato, bustine di spezie, qualche tubetto di vitamine, zucchero e cosa strana un pacchetto tabacco, io non fumo, ma può servire.”
L’arrivo dei pacchi negli Oflag creava disparità tra chi li riceveva e chi no, e le ragioni di tali disparità erano individuali, dovute alla disponibilità di mezzi delle famiglie e alla capacità delle stesse di procurare i vari generi da spedire in Germania e in Polonia, e collettive, dal momento che dopo l’attestarsi della Linea gotica tutti gli Imi che avevano le famiglie a sud di essa smisero di riceverli. Il mercato nero del lager forniva tipi umani che sarebbero rimasti immortalati per sempre, come ad esempio l’operaio polacco entrato nella baracca di Guareschi tenendo nascosta nelle mutande una “mezza tonnellata di fagioli” e ritratto nell’atto di distribuirli in una coperta distesa sul pavimento:
“Questa sera uscirà dal campo con aria di tonto e indosso tre camicie, quattro paia di calze e la mia terza e ultima cosa commerciabile: il cinturone.”11
Talvolta le autorità del campo intervenivano vietando transazioni commerciali illegali, ma il mercato nero riaffiorava, seppure in forme più discrete, ingegnose e talvolta piuttosto impressionanti per chi fosse di gusti delicati: “Il mercato nero è morto ma non è seppellito: qualche pagnotta riesce a rompere il cerchio di ferro della Gestapo. I polacchi entrano tutti i giorni nel campo con i loro carri-botte e vengono a vuotare la fossa delle latrine. Un bidoncino di latte viene nascosto dentro la botte, e nel bidone ci sono le pagnotte. I polacchi scendono nelle fosse per riempire di sterco le loro secchie, e di là sotto, allungano le pagnotte ai prigionieri attraverso il buco del cesso.”12
Gli italiani sanno arrangiarsi meravigliosamente bene
Laureni è un disegnatore che predilige gli interni, e le baracche che ritrae sono piene, pullulanti di oggetti. Recipienti, piatti, bottiglie e brocche per mangiare e bere. Stivali, indumenti e cappotti per camminare e vestirsi. Stufe, letti, botti, tavoli e sedie. E zaini, valigie, perché ci si sposta di campo, e per la tenace speranza di fare ritorno, un giorno o l’altro, a casa. Gli oggetti sono appesi, accatastati, appoggiati su mensole e tavoli. Tra le cose del quotidiano compare talvolta un violino, o un cavalletto da pittore, segno che tra le necessità vitali, col cibo e il sonno, c’è l’arte. La massima espressione della creatività dei prigionieri fu rappresentata dalla Caterina, la radio ricevente costruita dagli italiani dell’Oflag X di Sandbostel. Diverse furono le radio introdotte segretamente negli Oflag e utilizzate per ricevere Radio Londra, Radio Berlino e Radio Bari, e alcune vennero scoperte nel corso delle perquisizioni. La Caterina fu speciale, sia perché non venne mai catturata (riuscendo persino a evadere da Sandbostel per ricomparire a Fallingbostel), sia in quanto venne costruita con materiali di fortuna..13
L’“arte di arrangiarsi”, tratto proverbiale del carattere degli italiani, abituati da secoli a soluzioni contingenti e improvvisate in grado di supplire a carenze organizzative, diventò nei lager una risorsa imprescindibile: “Gli italiani sanno ‘arrangiarsi’ meravigliosamente bene, e questa è la qualità negativa che più ci danneggia: ma allora risultava un fattore positivo perché, per esempio, gli apparecchi radio nascevano dal niente. Bastava una valvolina: il resto lo si faceva tutto in casa, compresa la cuffia e le pile, e il complesso stava comodamente dentro una gavetta e funzionava in tal modo che, quando ad esempio il signor Churchill ancora parlava, per le baracche giravano già i fogliettini con la prima parte del discorso tradotto in italiano.”14
Sto diventando come i fachiri
Le attività culturali degli Oflag servivano a rendere più lievi i disagi e meno lunghe le ore, e da esse i prigionieri potevano trarre motivo di un certo orgoglio, come emerge da una lettera scritta da Laureni alla fidanzata Bruna (30 luglio 1944): “Per dimostrare il nostro spirito che mai si abbatte abbiamo fatto una mostra di pittura e architettura, ho partecipato, dunque vedi che da qualsiasi bruttura ci sappiamo innalzare, nessuna umiliazione ci fiacca.” Nel contesto eccezionale del lager, ogni sentimento e stato d’animo poteva però diventare abnorme, crescere d’intensità fino a deformarsi, e lo stesso poteva accadere ad alcuni valori, come la fede, e persino a quelle attività culturali che pure, abbiamo appena visto, potevano essere di grande conforto:
“Qui tutto si esaspera. La nostalgia diventa disperazione, l’inattività diventa inerzia, la povertà diventa miseria, il desiderio diventa spasimo. La fede diventa mania …Tutto si esaspera, qui. E anche la lodevole iniziativa delle conferenze è diventata in poco tempo frenesia oratoria. Tre, quattro, dieci conferenze in una stessa sera: in qualunque baracca si entri, dopo le otto, si trova qualcuno in piedi sopra un tavolo che parla di qualcosa. Musica, poesia, tecnica, pittura, economia politica, storia, filosofia, teatro, cinematografo, varietà, letteratura, chimica, religione, finanza.”15
Dal punto di vista emotivo, il lager era dunque un caleidoscopio, nel quale c’era posto anche per l’opposto della frenesia e dell’iperattività, ovvero apatia, inazione, abulia: stati d’animo che ottenevano l’effetto di creare una corazza che rendeva inavvertiti dolori e disagi: “.. il lungo periodo di questa [‘vitaccia che sto conducendo’, dice poco prima] m’ha fatto dimenticare la vita normale d’un uomo normale. Sto diventando come i fachiri, nessuna cosa più mi tocca, gioia mi danno la posta, i pacchi e gli aerei alleati che passano e bombardano.” (lettera di Nereo Laureni a Bruna, senza data).
La permanenza in lager, così protratta nel tempo, comunicava talvolta un senso di perdita irreparabile, avvertita tanto più intensamente quanto più si percepiva che fuori, nel mondo, e a casa, in Italia, le vite degli altri andavano velocissime:
“ ‘Fermatevi!’ io grido con angoscia: ma i miei bambini continuano a crescere, mia madre si fa sempre più curva, mia moglie sfiorisce ogni giorno di più, mio padre invecchia d’ora in ora. E ognuno di questi giorni persi mi ruba ventiquattro ore della mia vita e della vita dei miei e la mia sofferenza si moltiplica per cinque.”16
E c’era anche la dolorosa consapevolezza dello stridente silenzio che proveniva dall’Italia, da quella metà di Paese che stava combattendo il nazismo, ma che non dava segnali di apprezzare o anche solo di essere a conoscenza dei sacrifici, dolori e lutti che ogni giorno centinaia di migliaia di militari italiani affrontavano nei lager di Germania e Polonia:
“Tutti si dimenticarono di noi. Nessuno ci rivolse mai una parola, nessuno dimostrò di accorgersi della nostra cupa situazione. Avevamo bisogno di qualcosa per coprirci, avevamo fame, eravamo senza notizie di casa nostra, molti soffrivano né potevano curarsi per completa mancanza di medicinali: nessuno si sentì di mandarci un pezzettino di pane, una pasticca per la tosse, che significassero qualsiasi interessamento.”17
E ancora:
Eppure talvolta, inaspettatamente, la vita in cattività poteva riservare i colori caldi di gesti generosi, disinteressati e sorprendenti, capaci di gonfiare il cuore di riconoscenza e commozione, gesti con cui compagni di sventura, anche sconosciuti, cedevano il bene più prezioso per l’economia del lager – il cibo – senza pretendere nulla in cambio e senza secondi fini. Guareschi ha riferito diversi episodi del genere nelle sue opere della prigionia: il russo piccolo che da dietro il reticolato lancia una pagnotta e di corsa con un sorriso, le bambine polacche che passano frutta, focacce e pane con la marmellata, il capitano Novello e i suoi compagni di baracca che mantengono in vita l’amico con lo stomaco devastato dall’ulcera per mezzo delle patate sottratte alle loro magre razioni, unico cibo che l’ammalato è in grado di tollerare.18
In una lettera scritta a casa nel luglio del 1945, a liberazione avvenuta, Laureni condensa il senso dell’esperienza che sta per esaurirsi con questa frase: “La prigionia mi ha insegnato una cosa: sperare nel domani anche se l’oggi è nero!”
Per Guareschi, la prigionia è stata una grande occasione per ritrovare un altro se stesso, un se stesso migliore anche se più fragile e debole, il se stesso che era stato da bambino, riemerso “sotto quei trenta chili di carne perduti”, un se stesso capace di riscattare la sua anima limpida, fino a quel momento “coperta di grasso”.19
Un altro Giovannino, “fatto di aria e di sogni”, cioè liberato dalla tirannide delle cose terrene e carnali eppure, forse proprio per questo, proiettato con slancio nel futuro, che dal passato recente ha tratto lezioni fondamentali: ha imparato a dire di no, ha imparato che il “dovere è tale soltanto se tale lo si riconosce alla luce del ragionamento e della morale”. Ha imparato che “non è vero che gli ordini non si discutono: gli ordini bisogna discuterli con se stessi”.20
Da qui la conseguente premonizione del non riconoscimento del sacrificio di 650000 Internati militari italiani, della sottovalutazione di questa pagina gloriosa di “resistenza senz’armi”, per molti anni neppure raccontata o quanto meno fortemente ridimensionata e compressa dalla raffigurazione epica della lotta partigiana:
Alla fine del mese di agosto del 1945 Nereo Laureni poté finalmente tornare a casa.
Giovannino Guareschi, tornato a casa a riabbracciare la moglie, il figlio Alberto e la figlia Carlotta che non aveva mai veduto essendo nata dopo il suo internamento.
NOTE
1 Tutte le lettere scritte o ricevute da Nereo Laureni durante la prigionia sono conservate, insieme a carte e documenti, dalla famiglia Laureni, Trieste.
2 G. Guareschi, Il grande diario. Giovannino cronista del Lager, 1943-1945, Milano, Rizzoli, 2008, p. 221.
3 N. Labanca, Internamento militare italiano, in E. Collotti, R. Sandri e F. Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. I Storia e geografia della Liberazione, Torino, Einaudi, 2000, p. 117.
4 Avagliano, Palmieri, Gli internati militari…, cit., p. 85.
5 G. Guareschi, Ritorno alla base, Milano, Rizzoli, 1989, p. 28.
6 Di La favola di Natale esiste anche un’edizione con documento audio in cui la favola è recitata da Gianrico Tedeschi, che fu compagno di prigionia di Guareschi e che la mise in scena nell’Oflag.
7 S. Bartolini e G. Parlato (a cura di), Guareschi. L’umorismo e la storia, Trieste, Edizioni Comune di Trieste, 2008, p. 21.
8 G. Guareschi, Diario clandestino. 1943-1945, Milano, Superbur, 1996, p. VII e VIII. [1] Guareschi, 9 Il grande diario …, cit., p. 75-76.
10 Ibid., p. 272.
11 Idem, Il grande diario…, cit., p. 320.
12 Ibid., p. 311
13 G. Guareschi, Occhio segreto nel lager. Storia della famosa “Caterina”, “Oggi”, 11, 1946.
14 Guareschi, Diario clandestino…, cit., p. 183-184.
15 Ibid., p. 132-133.
16 Guareschi, Ritorno alla base, cit., p. 83.
17 Guareschi, Il grande diario…, cit., p. 74-75.
18 Ibid., p. 272, 283, 421.
19 Ibid., p. 404 e Id., Diario clandestino…, cit., p. 111.
20 Ibid., p. 216..