Dossier
Perché la guerra? Riflessioni teorico-cliniche
21/01/14
Alberto Semi
Con questo scritto, condivido il tentativo – doloroso ma anche stimolante e non in senso masochistico – di ripensare sulla guerra. Si tratta di un argomento che ritengo necessario affrontare. E’ necessario farlo anche per ricordare che la guerra continua, non solo in Iraq ma anche in Congo, Liberia, Mauritania, Israele e Palestina e in tanti altri paesi. Tuttavia si tratta di un’area di pensiero difficile, nella quale inevitabilmente sono implicati non solo i nostri diversi punti di osservazione, ma anche i nostri valori, le nostre idee. L’imbarazzo che sento nasce dal fatto che una discussione di questo tipo è un “campo minato” e, usando questa metafora, stiamo già entrando nel tema. Il rischio è quello da un lato di fare le mosche cocchiere, quando sappiamo che il peso specifico di una riflessione quale quella che possiamo fare noi è purtroppo molto piccolo, dall’altro quello di sembrare di sostenere una tesi fatalista. Tutti sappiamo infatti che la guerra è sempre esistita e che, benché per ciascuna guerra si possano e si debbano trovare cause specifiche, il fatto che l’umanità si sia dedicata a quest’attività in ogni epoca e in ogni luogo, pone l’interrogativo se la guerra non sia comunque un modo di fare tipicamente umano e difficilmente eliminabile.
Se dunque la nostra specie non dimostri periodicamente una intollerabilità della ragione, proprio di quella attività psichica, cioè, di cui va tanto fiera, ma che ha anche la caratteristica di differire l’azione e di mediare tra esigenze interne e condizioni esterne. E se dunque la nostra specie non necessiti, di quando in quando, di passare all’azione motoria proprio per mettere da parte il differimento e tentare una soddisfazione. Di quale tipo di soddisfazione si tratti in questo caso, poi, è tutto un altro paio di maniche. Porre la questione in questi termini è appunto rischioso. Perché potrebbe far pensare alla inutilità di qualunque sforzo per evitare la guerra e potrebbe anzi spingerci a pensare che, in un certo senso, la guerra sia nella nostra natura, se questo termine si potesse adoperare per l’uomo. In realtà, già a partire dal famoso carteggio tra Einstein e Freud dal quale ho mutuato il titolo di questo scritto (appunto: “Perché la guerra?”), il problema posto non è stato tanto quello della apparente inevitabilità della guerra, quanto quello della inevitabilità della violenza. Freud sottolinea, rispondendo a Einstein, come la guerra sia una manifestazione – e certo una delle peggiori – di una tendenza alla scarica distruttiva della pulsione aggressiva ma sottolinea anche – ciò che dovrebbe essere tenuto sempre presente – che la gestione della violenza è costitutiva della società umana.
Questa gestione avviene per deleghe successive a organizzazioni più complesse (l’individuo delega la gestione della violenza alla famiglia, al clan, alla tribù, allo stato, questo può delegarla alla comunità delle nazioni ecc.), ma – come aveva messo in evidenza lo stesso Freud ne “Il disagio della civiltà” – il prezzo che l’individuo deve pagare per queste deleghe è importante e tale da non essere sempre sopportabile. Di più: la delega dell’uso della forza, la rinuncia all’azione violenta individuale, avviene all’insegna di Eros, che tende a creare unità sempre più grandi ma che, per fare ciò, sacrifica quelle più piccole. L’azione di Thanatos, che viceversa tende a frammentare le grandi unità, a ricondurre progressivamente verso il meno organizzato o addirittura l’inanimato, ha un effetto paradossale, perché consente così all’individuo di riappropriarsi di valenze cui aveva dovuto rinunciare.
Intendo dire che il gioco pulsionale insensato disegnato da Freud è alquanto più complesso di quel che si tende a immaginare e che le interazioni tra le grandi pulsioni di vita e di morte hanno spesso effetti paradossali. E’ bene dunque tenere presente che questa dinamica – sulla quale anche Freud ha del resto lungamente esitato – non è direttamente e semplicemente riconoscibile. Per così dire, non è che, se c’è un morto, lì ci sia la pulsione di morte. Sappiamo anzi, dallo studio delle perversioni, che un evento mortifero può essere l’effetto di una tendenza amorosa.
Non è giustificata dunque né una tendenza fatalista né una “naturalista”, ma soprattutto non è possibile pensare di fare le mosche cocchiere, di sputare sentenze su questa o quella guerra usando unicamente e a sproposito il nostro strumento teorico, magari applicato a stampo. Anche perciò le congetture di Freud nel carteggio con Einstein sono intrise di prudenza e di dichiarazioni non retoriche di incompetenza. Anche perché nel 1932, quando fu scritto il carteggio, non esisteva una “clinica della guerra”. Non esisteva cioè una pratica psicoanalitica orientata psicoanaliticamente al trattamento degli esiti o delle conseguenze della guerra. Anche se, già nella grande guerra del ’15-’18, erano stati tentati trattamenti terapeutici di combattenti traumatizzati e le nevrosi belliche e in generale le nevrosi post-traumatiche erano conosciute già da ben prima della psicoanalisi, ma queste attività cliniche avvenivano allora nell’ambito dello studio delle nevrosi traumatiche e si rivolgevano perlopiù ai soldati combattenti.
Viceversa, alla fine del secolo scorso e – purtroppo – anche in questo secolo, il problema si è diversificato e con esso l’approccio degli psicoanalisti. Cos’è accaduto? E’ cambiata la guerra ed è cambiato l’atteggiamento verso di essa. Direi innanzitutto che è divenuta pressocchè regolare – nel senso di abitualmente praticata – una scissione tra dichiarazioni verbali e comportamenti pratici. Da un lato abbiamo avuto progressive modificazioni e restrizioni del comportamento bellico “legittimo” e un aumento delle garanzie e tutele per le popolazioni implicate direttamente da eventi bellici :
-le Convenzioni di Ginevra sull’uso delle armi, sulla tutela delle vittime e dei prigionieri di guerra,
-la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che sta alla base della Carta dell’ONU e così via .
Da un altro lato, abbiamo assistito ad una modificazione pratica delle guerre, a un passaggio progressivo da un implicito diritto (uso un’espressione contraddittoria non a caso, ovviamente), a un manifesto attacco alle popolazioni civili, soggette ai peggiori trattamenti. Abbiamo anche assistito a una “deregulation” nel trattamento dei prigionieri; prigionieri che divengono tanto più difficili da classificare come prigionieri di guerra quanto meno le guerre assomigliano alle guerre “tradizionali” europee che sono notoriamente caratterizzate da battaglie in campo aperto tra due eserciti contrapposti.
Per certi versi, può sembrare – anche se non è così, in quanto è necessario schematizzare per mettere in rilievo il fenomeno – che le limitazioni e le protezioni normative stabilite dai trattati internazionali possano estendersi all’infinito proprio perché si riferiscono ad eventi che in pratica non accadono più.
Si pensi solo alle conseguenze che ne derivano a livello della comprensibilità dei fatti che accadono. Al semplice fatto che esitiamo a parlare di guerra, quando azioni terribili di attacco a un paese vengono condotte da gruppi che non hanno lo statuto di “Stato” ma restiamo altrettanto perplessi quando vengono definite “terroristiche” le azioni di sconosciuti contro un esercito occupante, perché questi sconosciuti possono essere benissimo ciò che resta di un esercito che è passato dalla strategia della battaglia in campo aperto a quella della guerriglia.
Tutta la questione del grande “terrorismo”, e la questione delle risposte a esso (ivi compresa la gestione delle carceri per terroristi) deriva anche da questo tentativo di conservare una idea di guerra che oggi esiste sempre meno. Si pensi al rifiuto attuale degli Stati Uniti di considerare prigionieri di guerra i reclusi di Guantanamo – sottoposti a condizioni che certamente non soddisfano le richieste delle convenzioni di Ginevra – sulla base della dichiarazione che l’impresa afgana non è stata una guerra contro l’Afganistan ma un’operazione di polizia internazionale contro il terrorismo. Oppure si osservi come oggi si oscilla tra il parlare di una “resistenza” irachena e il parlare invece di “attacchi terroristici” contro le truppe anglo-americane in Iraq.
Il fatto è che in tutte queste situazioni – e da qualunque parte le si consideri – la distinzione tra forze armate e popolazione civile diventa sempre più fragile. E che, nella pratica, la popolazione civile ne fa le spese in maniera sempre più grave.
Si ha l’impressione, in altri termini, che le dichiarazioni di diritto sempre più altisonanti, siano l’altra faccia della medaglia di pratiche sempre più ributtanti.
E’su questo punto che si può misurare la differenza rispetto al 1932 – data del carteggio Freud – Einstein – e che ci si può chiedere se non si sia al cospetto di una nazificazione di fatto del comportamento di gruppi, organizzazioni e stati.
Se cioè il limite tragicamente superato dai nazisti non sia divenuto un limite continuamente superabile.
Regioni del globo come il Viet-Nam, la Cambogia, l’Afganistan, la ex-Yugoslavia, il Ruanda, il Vicino Oriente ne sanno qualcosa, di questo superamento!
A fronte di questo andazzo, si sono però moltiplicate le iniziative che vengono chiamate “umanitarie” e che sono state attuate sempre più dalle cosiddette Organizzazioni Non Governative.
Anche questo è un dato nuovo ed è un dato importante nella sua realtà pratica ma importante anche dal punto di vista più generale e teorico, perché segnala come si siano costituite delle unità più piccole degli Stati, meno diversificate al loro interno, anche meno controllabili – se volete – da un punto di vista democratico. Cioè che a tipi di guerra non convenzionali si affiancano tipi di risposte umanitarie altrettanto non convenzionali.
Se ritorniamo per un attimo alla riflessione sulla complessità della dialettica Eros/Thanatos, dovremmo ritenere che queste organizzazioni siano frutto – positivo – di un lavorio di Thanatos che ha consentito di regredire da organizzazioni assai complesse ( per esempio la Croce rossa) e spesso assai vincolate nel loro agire, ad organizzazioni più piccole e diversificate che possono meglio esprimere la carica di Eros e che quindi sono spesso più libere e creative, più flessibili e duttili, a fronte di bisogni anch’essi in via di cambiamento.
E, oltre all’utilità pratica, l’interesse di queste organizzazioni nel campo dell’assistenza alle popolazioni colpite dalla guerra sta nel fatto che esse si costituiscono non solo come unità a-statali ma come unità che si riferiscono proprio a quei principi che gli Stati hanno sottoscritto e che però, in gran numero, violano continuamente.
Sarebbe opportuno inoltre riflettere sul senso di quella estesissima galassia che viene inserita nel contesto e sotto il nome “volontariato”. Questo per dimostrare che la frammentazione e diversificazione delle strutture sociali è un fenomeno che si sta verificando anche in tempo e in situazioni di pace.
E’ nell’ambito delle attività di queste ed altre organizzazioni che è nata la possibilità di una clinica della guerra diversa dalla clinica classica cui accennato prima. Ed è a questa attività che è dovuta una riflessione anche teorica che riguarda innanzitutto l’individuo colpito dalla inversione di regole che caratterizza la guerra.
Proprio per questi motivi, sarebbe opportuno lasciare spazio a voci di persone che hanno potuto riflettere su queste realtà, perché la guerra non è un fatto metaindividuale, impersonale, anche se tende a spersonalizzare gli individui, a ridurli a oggetti. Solo affrontandola sui due versanti, della realtà umana che manifesta (la distruttività) e della realtà umana che nega (l’individualità, la persona) possiamo sperare di cercare di capirla in un modo più sfaccettato, più complesso, ma anche più affrontabile, con la speranza di portare un piccolo contributo alla sua evitabilità.
Gennaio 2014