Dossier
Note per una rilettura del pensiero di Franco Fornari sulla guerra
21/01/14
Lidia Leonelli Langer
Era la primavera del 1964 quando, a Milano, al XXV Congresso degli Psicoanalisti di lingua romanza, Franco Fornari presentava per la prima volta in forma sistematica il suo pensiero sulla guerra in un rapporto dal titolo “Psychanalise de la guerre” che venne poi pubblicato in Francia. Questo testo, pubblicato con il titolo “Psicoanalisi della guerra” nella Rivista di Psicoanalisi nel 1964, venne rielaborato e conobbe diverse edizioni. La cronologia e i titoli dei volumi, le cui edizioni si rincorrono in rapido susseguirsi negli anni, indicano lo svolgersi di un pensiero che si va formando e ampliando e che esige di essere condiviso. Nel 1966 esce “Psicoanalisi della guerra atomica”, nel 1969 “Dissacrazione della guerra”, nel 1970 “Psicoanalisi della situazione atomica”: titoli simili, rielaborazione dello stesso argomento che sembrano parlare dell’urgenza di condividere un pensiero su un tema che incalza portandolo nella comunità psicoanalitica europea e mondiale, ma anche nella comunità civile e politica, fino alla Conferenza dell’ONU sulla pace a New York, e al Comitato Mondiale di ricerca sulla pace di cui Fornari diventa membro.
Convinto che rispetto al male della guerra è necessario interrogarsi e formulare ipotesi, ma anche cercare di fare concretamente qualcosa per evitarlo, Fornari contribuì alla nascita in Italia di un movimento di educazione alla pace che si concretizzò nel 1965 nel Gruppo Anti H e nel 1967 nell’Istituto Italiano di Polemologia. Ma la sua riflessione teorica sulla guerra, che sarebbe continuata negli anni evolvendo continuamente fino al suo ultimo giorno, era iniziata molto prima, forse assieme alla formazione psicoanalitica, immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale. Aveva infatti vissuto lo sgomento e la disperazione di fronte a un evento distruttivo di così enorme portata, ma anche, con lo scoppiare della bomba atomica, la certezza attonita che l’umanità era arrivata a un punto di non ritorno segnato dalla possibilità di distruggere contemporaneamente senza distinzione il nemico e l’amico e che da questo, paradossalmente, nasceva la speranza per l’umanità che diventasse possibile cercare vie alternative.
Il suo pensiero prende il via dall’esperienza traumatica della guerra e dall’anelito alla pace, si evolve e si dipana poi faticosamente fino alla fine, nel tentativo di cercare una risposta, forse impossibile, alle domande fondamentali circa il bene e il male, che incontriamo nella vita e nell’esistenza umana. “Mi è caduto addosso il male del mondo….. Volevo fare qualcosa per la pace perché mi sentivo colpevole della guerra” dice Michele, il protagonista del romanzo “Angelo a capofitto”, pazzo di dolore di fronte alla distruzione causata dalla guerra e pazzo d’amore nel suo vano cercare di salvare il mondo dalla prospettiva di distruzione totale resa possibile dalla bomba atomica. Nella vicenda che si svolge tra Michele e Mario, il suo psichiatra, in questo romanzo giovanile di Fornari, sono già contenuti in nuce tutti gli argomenti che verranno a costituire la teoria sulla guerra. Leggendo gli scritti più tardi, quelli sui sogni delle madri in gravidanza, sul parto-nascita, sulla lettura onirica del mondo e sulla simbolizzazione affettiva dell’esperienza, fino alla “Riscoperta dell’anima”, ne incontreremo gli sviluppi e ne potremo seguire le tracce che attraverso vie e sentieri diversi riportano sempre al mistero della vita e della morte. Per questo è utile vedere la riflessione sulla guerra non come uno sviluppo di pensiero lineare nel tempo, ma come il cercare la via in un labirinto dove l’entrata e l’uscita sono collegate in modo nascosto e si sa che non è possibile arrivare all’una senza passare per l’altra.
E se oggi la teorizzazione di Fornari continua a parlarci, a interrogarci e a fornirci strumenti di comprensione, è proprio perché non si è mai fissata e stabilizzata in se stessa, ma ha continuato ad evolvere, in una ricerca incessante di amplissimo orizzonte che non si è forse ancora conclusa e che ha bisogno anche del nostro contributo per proseguire. Perché la guerra? Già Freud e Einstein si ponevano nel 1931 questa domanda nel loro carteggio, promosso dall’ Istituto internazionale per la cooperazione intellettuale, su invito di un Comitato permanente della Società delle Nazioni, che riteneva che il loro contributo potesse essere utile per la prevenzione dei conflitti mondiali e per il mantenimento della pace. Nel testo, tradotto in varie lingue e diffuso nel mondo, alla domanda di Einstein se sia possibile che gli uomini diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione, Freud risponde che non c’è speranza di sopprimere totalmente le inclinazioni aggressive e distruttive dell’uomo che provocano la guerra perché derivano dalla deflessione all’esterno della pulsione di morte, sempre presente e operante in ogni azione assieme a quella di vita. Aggiunge però che si può trovare un antidoto da opporre alla guerra nelle relazioni d’amore, nella possibilità di identificarsi nell’altro e “in tutto ciò che favorisce l’incivilimento”.
La teorizzazione di Fornari prende le mosse da qui, accettando la sfida di contribuire con la psicoanalisi alla costruzione della pace, tentando di comprendere la follia della distruttività umana e di cercarne un rimedio, avvicinandosi al mistero del male. Del suo pensiero sulla guerra è conosciuta principalmente la teorizzazione contenuta in “Psicoanalisi della guerra” del 1964, in cui la guerra è vista come risultato del meccanismo di elaborazione paranoica del lutto. Ma quale è il lutto che l’uomo non riesce ad accettare, l’angoscia che non può sopportare e che lo spinge a cercare un nemico esterno in cui mettere ogni male per liberarsene? In “Thanatos e la guerra assoluta”, prefazione ad “Angelo a capofitto” ancora nel cassetto, pubblicata sulla Rivista di Psicoanalisi nel 1958, Fornari aveva formulato l’ipotesi, sviluppata a più riprese negli scritti successivi, che il lutto impossibile sia quello relativo alla propria morte, immanente alla vita, di cui abita ogni istante. Il pensiero di cominciare a morire nel momento stesso in cui si nasce è infatti insopportabile e per questo percepiamo il nostro esistere come se fossimo solo vivi e ci rappresentiamo la morte come un fatto totalmente esterno a noi. Sentiamo la vita come il bene e la morte come il male che dobbiamo espellere da noi per salvare la vita in ogni modo e a ogni costo, anche cercando un colpevole da uccidere, un nemico da sconfiggere e annientare.
In “Psicoanalisi della guerra”, all’angoscia per la morte propria si aggiunge, secondo il modello kleiniano, l’angoscia per la morte della madre. Poiché la vita del neonato dipende in tutto dalla madre, ogni sua minima assenza viene vissuta illusoriamente come una presenza cattiva che può dare la morte è che è necessario eliminare per sopravvivere. Da qui deriverebbe al neonato la necessità, per poter continuare ad attaccarsi alla madre, di sdoppiarla, scindendola in una madre che dà la vita e in una che dà la morte. Qui starebbe, in un’esperienza legata alla frustrazione sentita come minaccia di morte, e nella spinta a sopravvivere, l’esperienza psichica che la psicoanalisi chiama posizione schizo-paranoide, posizione inconscia, non abitata dal pensiero, sempre pronta a ripresentarsi in occasione di ogni evento vissuto come minaccioso. Qui starebbe anche l’origine dell’aggressività, non quindi innata, ma tentativo di difesa, attivata dall’angoscia di morte e dall’istinto di sopravvivenza.
Ma quando il bambino si rende confusamente conto che questa scissione ha radici illusorie e che la madre che gli dà la vita, e che egli fantastica gli dia anche la morte, sono una sola e stessa cosa, allora vive in sé la simultaneità dell’amore e dell’odio rivolti allo stesso oggetto e viene a trovarsi nella condizione di temere, in modo dereale, di poter uccidere e far morire chi più gli è indispensabile per vivere, con conseguente morte anche e di sé. Questo sarebbe il “terrificante”, nemico interno assoluto non pensabile, senza uscita e senza pensiero, in cui, cercando di garantire la propria sopravvivenza, ci si perde.
Ecco allora, per sopravvivere, entrare in azione quel meccanismo di difesa che è l’elaborazione paranoica del lutto, attraverso il quale, per salvarsi dall’angoscia e dalla colpa, si usa di nuovo la scissione, per mettere tutto il bene e tutta la vita in sé e nel proprio oggetto d’amore e tutto il male e la morte in un nemico esterno, un po’ come succede nell’angoscia dell’estraneo, considerato pericoloso e nemico non perché lo sia realmente, ma perché in esso, in quanto non madre, viene illusoriamente messo il nemico interno. Questa è la radice affettiva dello schema amico-nemico, che sta alla base delle guerre, seguendo il quale l’uomo uccide senza riconoscere in sé i desideri di far morire, ma solo quelli di fare vivere, tratta la morte e l’odio come se non gli appartenessero, come se fossero sempre di qualcun altro, arrivando alla grande illusione che siano i nemici quelli che vogliono farci morire.
In questa prospettiva, la guerra è un’ istituzione sociale che, accanto alla funzione di sicurezza rivolta verso un nemico esterno, ne esercita anche un’ altra, nascosta, inconscia e invisibile, volta a difendersi dal “terrificante” nemico interno. Paradossalmente, chi va in guerra è spinto da una necessità di vita, pronto ad accettare il proprio sacrificio purché l’oggetto d’amore viva. Ma la bomba atomica mette in crisi la guerra come istituzione sociale atta a difendere dalle più profonde angosce, perché oltre al nemico uccide anche l’amico e distrugge la vita stessa così che l’incubo diventa realtà e il terrificante interno illusorio viene a coincidere con un terrificante esterno reale. Diventa così necessario, per continuare a vivere, imparare a stare alle regole del gioco della morte.
O meglio, secondo la successiva riflessione di Fornari, diventa necessario imparare a conoscere e a stare alle regole del gioco della vita. Da questo punto di vista, la teoria coinemica porta la riflessione sulla guerra a un punto di svolta, collocando il terrificante alle soglie della vita e individuando il modo in cui la natura se ne libera. Fornari avanza l’ipotesi che il bambino nasca predisposto a conoscere il mondo, perché porta in sé, inscritti nel corpo, i coinemi, un bagaglio innato comune a tutti gli uomini, punto di congiunzione tra il somatico e lo psichico, che costituiscono un programma predisposto alla sopravvivenza e alla vita dell’individuo e della specie. Attraverso di essi, per vivere, inizia a conoscere il mondo come in sogno, familiarizzandolo in una conoscenza onirica che accompagnerà ogni evento della vita (ed è per questo che la psicoanalisi può leggere ogni realtà, anche la guerra, interpretandola come se fosse anche un sogno e riportandola alla famiglia interna).
Tra i coinemi sono fondamentali, proprio in funzione della sopravvivenza, quello della nascita e quello della morte, pronti ad agire in ogni istante, per distinguere ciò che è bene perché dà la vita da ciò che è male perché dà la morte. Ma il coinema nascita, in una tautologia primaria, si incarna nel parto-nascita, evento drammatico e violento, in cui vita e morte si toccano e in cui tutto sembra andare distrutto. E’ qui, in questo paradosso racchiuso nella nascita, che trova origine, secondo questa lettura, il terrificante come equipotenza di nascita e di morte. Durante il travaglio, madre e bambino lottano come in una tempesta che li tiene in sua balia e che pare avere il potere, come l’atomica, di distruggere tutti i personaggi della scena del parto: questo fa sì che la vita inizi in un clima di estrema persecuzione reciproca. La madre partorisce tra angosce persecutorie e depressive, tra timore di morire e di far morire, mentre contemporaneamente il bambino fa esperienza dell’angoscia primaria legata alla perdita della condizione intrauterina, in una catastrofe totale, che vive nel proprio corpo e che non sa pensare. Stretto nel canale del parto, vive un’ esperienza drammatica, improvvisa e non controllabile, cui non sa dare un senso, che gli proviene da un interno-esterno non differenziato, che lo sradica dal luogo originario, per scaraventarlo in un altrove abitato solo dall’assenza del bene perso, che si trasforma in male.
E qui, vissuto direttamente nel corpo e non pensabile, prototipo di ogni terrore senza nome, si scatena quell’affetto terrificante che è l’angoscia e la disperazione primaria, prototipo di ogni successiva esperienza terrificante, di ogni angoscia e disperazione. La morte e la violenza abitano quindi la natura fin dall’inizio e coesistono alla vita stessa fin dall’origine, ma necessarie e funzionali alla vita stessa che solo attraverso di esse si perpetua. Paradossalmente, infatti, senza l’esperienza catastrofica del parto, madre e bambino morirebbero. Ma chi viene al mondo non lo sa e ha bisogno che qualcuno lo pensi al posto suo, facendosi garante per lui della necessità di quel travaglio, che è un dolore ma non un male assoluto, e che anzi può essere pensato come un bene, perché introduce a una nuova forma di esistenza. Ecco allora che entra in scena la paranoia primaria, figura inconscia, che mobilizza l’inconscio di tutti i personaggi coinvolti. Per liberare il campo dalla persecutorietà e rendere possibile l’instaurarsi della simbiosi, necessaria alla sopravvivenza del bambino, la paranoia primaria fa sì che il padre si assuma la responsabilità del male del parto e gli attribuisca un senso. La duplice funzione paterna, che separa e avvia alla vita simbolizzandola e dandole una direzione, non annulla e non nega la violenza contenuta nel parto, ma la assume su di sé, la bonifica come necessaria e le dà un senso. E’ quindi solo attraverso l’attribuzione di un senso e di una direzione, che il terrificante come indistinzione di vita e di morte viene tacitato.
Ma che fare del peso di lutto e di morte assunto dal padre? Se, seguendo questo tipo di lettura, ci chiediamo di nuovo, assieme a Fornari, il perché della guerra, vediamo che il padre ha bisogno di esportare sul nemico esterno la quantità del male di cui si è fatto carico durante il parto-nascita e di cui si fa continuamente carico. Si tratterebbe ancora di una elaborazione paranoica del lutto. Anche il padre avrebbe bisogno di qualcuno o qualcosa che attribuisca un senso e indichi una direzione. Avrebbe forse bisogno di continuare a sentirsi a sua volta figlio. Un’altra risposta alla domanda sul perché la guerra ci viene dall’interpretazione dei sogni delle madri in gravidanza, sogni nei quali si vedono tutti i coinemi e tutti i codici affettivi decisionali deputati alla sopravvivenza, contemporaneamente all’opera per preparare l’evento del parto nascita. In questi sogni, in cui la madre spesso si identifica con il bambino o rappresenta la paranoia primaria, compare anche un elemento nuovo e fondamentale. Spesso la famiglia viene rappresentata come un collettivo e l’evento della nascita come vicenda di gruppi contrapposti. Il bambino viene cioè rappresentato come gruppo di bambini o di animaletti in pericolo, assaltato da un gruppo di nemici crudeli, ma protetto e salvato da un gruppo amico che fa loro la guerra. Troviamo cioè, in collegamento alla nascita di un bambino, una rappresentazione del sociale immaginario ed intrapsichico allo stato nascente, che si muove secondo lo schema amico-nemico.
Il gruppo, come collettivo interno, la cui radice corporea potrebbe forse essere ipotizzata nelle contrazioni uterine con il loro carattere molteplice e subentrante, si attiverebbe come risposta affettiva e simbolica all’angoscia genetica, cioè a quel timore angoscioso, specifico di ogni progetto creativo, che il prodotto del concepimento possa essere deteriorato o morire. La vicenda del parto quindi, in questa prospettiva, provoca ancora elaborazione paranoica del lutto, ma in forma collettiva. La morte viene esportata su un collettivo, che può trovarsi all’esterno della famiglia, come avviene nella guerra, oppure, come nelle rivoluzioni, può essere interno all’istituzione stessa. Questo tipo di gruppo è predisposto alla guerra e in esso l’istinto di conservazione non funziona più a livello individuale, ma a livello collettivo. In esso funziona il “tutti per uno, uno per tutti”, in quanto tutti sono compartecipi di una realtà illusoria, rappresentata dalla necessità di salvare il bambino dalla morte voluta dal nemico. Questo tipo di gruppo può, nella realtà, trarre forza e ideologizzarsi, appoggiandosi all’istanza paterna o a quella materna, diventando dispotico e dittatoriale o pronto al sacrificio fino alla morte. In ogni caso, il suo obbiettivo è comunque quello di salvare l’oggetto d’amore, sia esso la madre patria o la propria verità, entrambe simbolizzate deboli e fragili, come un bambino inerme. E ben sappiamo quanto la verità sia debole.
Ancora una volta quindi vediamo come la violenza contro il nemico attingerebbe non a una distruttività insita nella natura umana, bensì al desiderio di proteggere a tutti i costi un progetto o una verità, sentiti fragili come un bambino.
Attraverso il gruppo i singoli individui alienano da sé la morte e la violenza e le delegano, sempre in funzione di difesa dall’angoscia, sia essa paranoide, depressiva o genetica, ad un ente superiore, come può essere lo Stato, che autorizzano a fare la guerra.
Ma il sistema della guerra, entrato definitivamente in crisi con l’era atomica, coinvolge nella crisi anche la vita dei gruppi. E se questo può sembrare disperante, è proprio in questo fallimento della guerra come difesa dalle angosce psicotiche che Fornari vede, paradossalmente, fondarsi la speranza che l’umanità, per necessità di sopravvivere, trovi altre strade. Egli pensa che l’umanità possa finalmente esprimere un’attitudine riparativa, basata sulla capacità di convivere con il dolore per la morte e sulla diffusione del sentimento di responsabilità individuale. Questo potrà, secondo lui, avvenire non a partire dalla disperazione e dal peso della colpa per la distruzione totale causata dalla distruttività, ma a partire dalla spinta propulsiva al cambiamento che deriva dal senso di colpa, inteso e utilizzato come segnale di pericolo di dare la morte.
Colpa quindi non per una distruttività originaria, non rivolta al passato, ma come segnale di rischio di uccidere credendo di amare, rivolta al futuro.
“Mi è caduto addosso il male del mondo” diceva Michele, divenuto pazzo.
Se la bomba atomica è la pazzia da evitare, a partire dalla quale trovare altre strade, l’uomo non può però impazzire schiacciato dalla colpa, o da illusori sogni maniacali di salvare il mondo o dal peso di vivere ogni momento a stretto contatto con il Terrificante interno.
Diventare consapevole di avere una parte di responsabilità in ogni guerra ha il compito di aiutarlo a preparare il terreno a nuove istituzioni sociali, nelle quali poter vivere, collaborando sul piano politico-sociale alla costruzione di un nuovo modo di convivenza pacifica, basata sulla capacità di elaborare il lutto in modo sano e funzionale alla vita.
La legge diventa il principale aiuto in questo difficile compito. Essa dice quello che si deve e quello che non si deve fare per controllare la propria aggressività – che comunque non scompare – e le proprie angosce e per preservare il proprio oggetto d’amore. Dice che la riparazione di un oggetto realmente deteriorato va fatta dall’autore stesso del deterioramento e che chi si rende colpevole di deterioramento va punito. Di fronte alla legge tutti sono, tendenzialmente, uguali,fratelli, liberi.
Anche gli Stati sono uguali di fronte alla legge cui devono sottostare e rispondere. Fornari ipotizza che si possa costituire un’istituzione sovranazionale che, di fronte al pericolo di distruzione totale, aiuti l’umanità a mantenere la pace, nuovo simbolo materno, contenitore nel quale i nostri oggetti d’amore possano vivere.
Egli immagina una istituzione che funzioni come terapia per impedire che la messa in crisi della guerra esponga alla dispersione nell’individuale, all’anarchia assoluta, alla desocializzazione, ma anche e soprattutto al pericolo di cadere negli incubi del terrificante interno, e la chiama Istituzione Omega.
Essa, a differenza dello Stato sovrano, basato sulla necessità di esportare la morte, sarebbe basata sulla elaborazione autentica del lutto e avrebbe il compito di aiutare ciascuno, come membro della società civile, a sentirsi in grado di tollerare la sofferenza, fiducioso nelle proprie capacità riparative, convinto della forza insita nella competenza affettiva di cui l’uomo è naturalmente dotato fin dalla nascita.
Fare la pace con la morte propria e con la morte insita nella vita, nostra grande madre, vuole allora dire poterla lasciare alle proprie spalle, proprio come avviene alla nascita, dopo il travaglio, quando la funzione paterna la bonifica, simbolizza il presente e indica il futuro in funzione della vita. Di fronte a ogni novità che, se è veramente tale e si protende sul totalmente ignoto, non può essere priva di angoscia, non sarà più necessario esportare il pericolo e la morte in un altrove, facendo la guerra.
Il cambiamento, dal più impercettibile a quello più catastrofico, potrà infatti essere letto come un travaglio e un nascere a nuova vita, lasciandosi la morte alle spalle.
I singoli ed i gruppi, consapevoli della natura mortale propria e dell’intero creato, potranno allora adoperarsi, in un ritrovata dimensione di collaborazione fraterna, per la salvaguardia della vita propria e della specie e sapranno costruire istituzioni storiche che tendano a rendere possibile la vita, accettando di portarla avanti e di conoscerla, senza pretendere di saperne svelare il mistero.
Gennaio 2014