Dossier
Intervista a Alessandro Politi
21/01/14
A cura di Silvia Vessella
Alessandro Politi è un analista politico e strategico. Direttore della NATO Defense College Foundation e ricercatore senior del CeMiSS per l’America Latina e le prospettive globali, dirige il progetto Prospettive Globali 2014. È docente di geopolitica, geoeconomia ed intelligence presso la SIOI e facilitatore del gruppo Global Shapers del WEF.
–Cosa ti ha spinto verso questa professione e come essa nel tempo è cambiata?
Mi ha spinto la necessità profonda di capire il conflitto nelle sue dimensioni più forti. Perché si è in guerra anche tra singoli e che dinamiche ci sono nelle collettività? Si può capire e dunque disinnescare?
Da giovane era la passione per la storia della guerra, specie la II GM, poi la comprensione della grande strategia ed infine lo sguardo olistico su politica, grande strategia, conflitto crisi e pace. Il cambiamento è dovuto in parte alla maturazione, in parte ad esperienze forti come le guerre di dissoluzione jugoslave, il Rwanda e la guerra del Quwait, in parte all’esperienza d’analisi strategica globale.
–Hai parlato di una vertigine che coglie chi parla professionalmente di Guerra: Guerra è bello?
Sì, la guerra può avere una sua terribile bellezza, specie quando si è portati dall’onda della vittoria irresistibile. Ci sono vari modi di percepirla ed in genere chi è in prima linea vede soprattutto la durezza, fatica, ottundimento, orrore e cruda sopravvivenza. Basta spostarsi fisicamente e psicologicamente, e la guerra assume altri colori e caratteri, come si vede facilmente in molti film di guerra.
–Quando si progetta la guerra gli esseri umani uccisi entrano nel conto oppure per poter organizzare tutto si considerano, la battaglia e i morti, come in una simulazione, una sorta di “gioco di guerra” ?
È molto difficile capire cosa passa per la testa di un decisore reale quando si prepara alla guerra od alla battaglia, anche perché dipende molto dalle culture. In genere le persone che si occupano davvero di questi affari di vita e di morte non pensano affatto ad un war game, sanno che, nonostante le difese psicologiche, quei morti, in ispecie quelli propri, sono maledettamente veri. Vera è la reazione del nemico, vera è l’opinione pubblica scossa dai morti e dai feriti, veri sono i funerali ed il rischio di essere uccisi in un’incursione mirata.
–Le guerre hanno sempre mostrato una faccia ideale. Ma forse l’unica guerra ideale è quella che fanno i popoli oppressi. Che tipo di strategia quella della Resistenza oppure oggi del terrorismo?
Le guerre non mostrano una faccia ideale, ce l’hanno per necessità, sia politica che comunicativa che di tenuta del proprio morale, e perché tutte le guerre difensive rispetto ad un’aggressione si presentano idealmente bene. La guerra di un oppresso contro un oppressore è facile da qualificare come guerra giusta, a meno che non ci si accorga della forza della pratica della non violenza. La strategia di una Resistenza è molto diversa da quella di un gruppo terrorista: la prima ha bisogno del consenso popolare, i secondi hanno bisogno di una frangia connivente anche se, spesso s’accorgono che senza un consenso più vasto, perdono la partita.
–Le popolazioni oggi sembrano ancor più entrare nella guerra, mi riferisco alle migrazioni forzate, che spesso riguardano i deboli o gli ultimi (madri e bambini). Sono i simboli di una guerra che si è fatta, nelle sue diverse forme, mondiale, oppure sono ambasciatori di pace?
Più che ambasciatori, sono supplici di pace. La guerra coinvolge le popolazioni o perché ha perso le sue regole civilizzatrici di limitazione nello ius in bello oppure perché la posta in gioco è così grande che la popolazione è un’ovvia componente della posta. È terribile.
–Il tema della rimozione della guerra, delle sue motivazioni e dei risultati ottenuti, è fondamentale per un lavoro di pace. Se ne è parlato molto per la Germania nazista. È qualcosa che riguarda chi prepara la guerra?
Sì, tocca qualunque capo e codecisore responsabile perché non è difficile rendersi conto la guerra è una colossale devastazione e dissipazione, i cui risultati sono spesso al di sotto delle attese e di frequente messi in discussione dai negoziati di pace. Tuttavia è anche vero che, nonostante il tentativo di mantenere viva la memoria, lunghi periodi di pace fanno dimenticare le dinamiche disumanizzanti della guerra specie nei confronti del prossimo nemico. Aggiungo che oggi c’è una disumanizzazione strisciante nella narrazione dei conflitti che divengono, attraverso l’uso impreciso e standardizzato di luoghi, persone e situazioni fuori contesto, dei non-luoghi, non-persone e fattoidi (ex. “Ieri in Iraq è scoppiata a Baghdad un’autobomba provocando 20 morti. I presunti attentatori sono qaedisti”)
–Il fotografo Eugene Richards ha prodotto un libro fotografico pluripremiato “War is personal”. Pensi che sarebbe utile una variazione di senso della parola guerra?
La guerra è maledettamente personale, tanto quanto sono impersonali (in apparenza) le decisioni dei grandi capi. È più facile sostenere la vista dei morti orrendamente sfigurati che non lo sguardo del reduce mutilato o della donna straziata o del bambino spezzato. Non so come variare di senso la guerra e la sua parola, non so nemmeno se abbia senso oppure non sia una mistificazione per sé e gli altri.
–Pensi che Guerra sarà fino alla distruzione dell’essere umano oppure al contrario che i progressi di civilizzazione porteranno a scomparsa delle guerre come portato del “disagio della civiltà” giunto a soluzione?
Io penso che un lato Pòlemos sia ineliminabile e che eppure i progressi compiuti nel corso di sei decadi siano tangibili. Io credo che la civilizzazione possa aiutare molto i popoli ricchi e bene armati ad introdurre sempre maggiori elementi di regolazione con lo ius in bello in modo da favorirne le progressiva limitazione e scomparsa, in prospettiva.