Dossier

Il sognatore sublime

21/01/14

Cono Aldo Barnà

Occorre applicare il dubbio alla Civiltà, dubitare della sua necessità, della sua permanenza

Charles  Fourier        

I nuovi venti di guerra destati dalla crisi siriana hanno ancora una volta inquietato i pacifisti di tutto il mondo e tra di essi gli psicoanalisti, da sempre sensibili al tema della violenza e della distruttività umana. Proposte e riflessioni, che procedono dallo sgomento del profilarsi, ancora una volta, della guerra come “soluzione” e della “rottura di civiltà” che essa rappresenta, vengono oggi raccolte dal nostro sito istituzionale che si prefigge di raggiungere, con esse, lettori attenti e disponibili a portare avanti con noi una battaglia etica e di civiltà. Convinto della giustezza politica di tale iniziativa, non posso, al contempo, evitare di richiamare alla memoria letture e riflessioni che ribadiscono il pessimismo tradizionale della psicoanalisi e di tanta parte del pensiero critico, sul progresso dell’uomo e della civiltà verso l’utopia della pace. Ciò per cui considero questo mio contributo come una “praemeditatio malorum”: una paradossale memoria del futuro al fine di disinnescarlo prima ancora che accada. Concordando in questo con l’insegnamento di S. Natoli quando afferma che “per fronteggiare il destino dobbiamo simulare mondi possibili” (Natoli S. 2010).

Quasi tutti i saperi si sono interrogati sulla violenza e la distruttività dell’uomo adoperando vertici diversi e non sempre convergenti. La psicoanalisi ha dato in proposito un contributo significativo adoperando le potenzialità euristiche dei suoi strumenti teorico-clinici per quanto riguarda l’individuo, i gruppi, le organizzazioni sociali e le realtà istituzionali (Freud, Ròheim, Money-Kyrle, Strachey, Jacques, Fornari, Anzieu, Marcuse, Fromm, Bion, Menzies, Roussillon, Kaes etc.). Valutare infatti ciò che la riflessione psicoanalitica ha da dirci sulla guerra implica un difficile viaggio tra i modelli psicoanalitici del sociale e dei suoi eventi, ai margini della legittimità propria della disciplina e della sua validità scientifica. Artificialmente avulsi dalla dimensione clinica e dall’insieme della teoria, i suoi contributi hanno potuto esser visti, infatti, come superficiale sociologia o come psicologismo gratuito. In questo sforzo la psicoanalisi ha invece potuto giovarsi dell’aggiornamento continuo dei suoi stessi strumenti, delle teorie di riferimento e della loro revisione, così come della relazione sempre più aperta al confronto e finanche alla contaminazione con altre branche del sapere inerente l’uomo. Per quanto riguarda la guerra e la distruttività, così massicciamente presenti da sempre nella storia dell’uomo, in termini di radicale difformità con la vita degli altri animali, ritengo che la nostra riflessione a proposito debba procedere a partire dagli interrogativi di carattere antropologico sull’inevitabilità della violenza in quanto caratteristica specifica dell’animale uomo in una dialettica inesausta natura/cultura, finalizzata al suo contenimento imperfetto (Hobbes 1642, 1651). I giudizi sull’imperfezione di tale contenimento essendo peraltro soltanto in parte mitigati da letture alternative “dell’antefatto” (lo stato di natura) proposte da altri autori (Rousseau, 1755; Locke, 1690). La modernità inoltre avrebbe prodotto, in tale dialettica, la violenza burocratizzata come nuova, insidiosissima trasformazione della stessa (Arendt, 1951, 1963, 1970).La cultura avrebbe quindi, in sostanza, mancato il suo compito malgrado il procedere della civilizzazione: il fatto che siano potute accadere Auschwitz e Hiroshima certificherebbe infatti il novecento come il “secolo più violento nella storia dell’umanità” (W. Golding).

La cultura viene dunque accusata non solo di essere stata impotente di fronte al prodursi dell’orrore, ma addirittura di esserne stata complice (Adorno, 1966). Malgrado la realizzazione iconica dell’orrore nell’elevazione geometrica del fungo atomico, nonostante Hiroshima saremmo ancora pericolosamente “ciechi” all’immensità della minaccia nucleare, afflitti da un “analfabetismo dei sentimenti” che ci declinerebbe al massimo come “utopisti invertiti”, ciò per cui, secondo alcuni autori, dovremmo tentare quindi “esercizi di estensione morale” (Anders, 1962, 1963, 1993, 1995).

Mi chiedo anche quanto possiamo considerare l’esperienza psicoanalitica come un esercizio di “estensione morale” da rivendicare quindi per il nostro lavoro e la sua etica euristica. Alcune riflessioni non lasciano comunque spazio alle speranze che la violenza possa essere inscindibile dalla stessa civiltà lo stesso pacifismo essendo reo di coltivare un’illusione molto pericolosa (Sofsky, 1995, 1998; Bobbio, 2009). Forse la nostra specifica formazione potrebbe reclutarci tra quanti auspicano un pacifismo “finalistico” mirante cioè a una trasformazione delle coscienze, da attuare come una conversione, mediante mezzi pedagogici, oppure come una guarigione, mediante mezzi terapeutici; essendo in quest’accezione la violenza e la guerra una malattia prima ancora che un male morale e un’aberrazione politica (Bobbio, 2009).

Dovremmo anche ricordare sempre che restare umani non è cosa facile, perché “nell’umano abita il disumano delle Erinni” e perché Priebke, come nel racconto di Borges, è simbolo di una “detestata zona” della nostra anima (Repubblica). Nutriamo comunque, come intellettuali e come cittadini, la speranza che la lettura storico-clinica e la stessa teorizzazione morale possano essere propedeutiche alla riflessione giuridico-politica che forse rimane sostanziale nel dare strumenti a un avanzamento della specie umana verso il meglio. Ci si può così, forse, consolare, credendo con Kant alle “disposizioni naturali” del soggetto destinate ad un completo sviluppo: a quei “germi” (Keime) di un programma virtuale dell’uomo, animale razionale, che lascia sospeso, in un divenire potenziale, il rapporto tra natura, libertà e moralità. Il processo relativo allo sviluppo, fino al compimento, delle disposizioni naturali dell’uomo, corrisponderebbe in realtà sia al percorso di graduale costruzione di sé dell’uomo, sia al percorso di costruzione della società-storia, nella quale il genere umano giungerebbe a realizzare un progressivo avanzamento della sua socializzazione-civilizzazione e della sua moralizzazione (Kant, 1795, 1798).

Resta comunque da comprendere il veicolo che la natura adopera in ordine al raggiungimento del fine, cioè la stessa struttura antropologica dell’uomo (Lorens, 1963, 1973). Si giunge così alla domanda di partenza relativa all’origine e all’ineluttabilità del male. Qualcosa che appare in fondo riconducibile alla finitudine umana, alla limitazione, fragilità e ineluttabile imperfezione della costituzione della natura dell’uomo, impotente ad erigere a leggi universali le proprie massime (Cassano, 2011). E’ nella costituzione dell’ordinamento sociale che si potrebbe e si dovrebbe realizzare il passaggio dalla condizione naturale, in cui i rapporti sono governati dal principio della forza, alla condizione civile, dove gli stessi rapporti sono invece governati dal principio del diritto. L’interpretazione della guerra e l’utopia della pace tornano quindi continuamente e correttamente a interrogare non tanto la natura dell’uomo, laddove il retaggio istintuale trattiene nell’individuo e nei gruppi la sublimazione dell’aggressività, ma la sua civiltà, dal punto di vista del perseguimento dell’ideale razionale del progresso globale attraverso il miglioramento delle costituzioni politiche (Cimatti, 2013; Kant,  1793).

La “confederazione mondiale” tra gli stati di Grozio, l’idea della “pace perpetua” di kant, la “comunità globale di nazioni” di Bahà’u’llàh, il “programma costruttivo” di Gandhi, “l’organismo sovranazionale” auspicato da Bobbio, tante idee e tanti progetti si sono succeduti nel tempo, scorrendo, instancabilmente ma insufficientemente, accanto al rinnovarsi continuo ed inesausto delle guerre, della violenza, della sperequazione e dell’ingiustizia nella vita dell’uomo (Bauman,  1989, 2000, 2010). Sullo sfondo di una critica naturalistica allo storicismo e al modello del progresso, la civiltà e le strutture sociali appaiono in fondo come il fragile contenitore d’impulsi aggressivi che aspettano solo l’occasione propizia per scatenarsi, se non all’interno del gruppo, almeno contro lo straniero e il nemico.

La guerra è l’occasione istituzionalizzata per questa liberazione legittima dell’aggressività: «essa elimina le successive sedimentazioni depositate in noi dalla civiltà e lascia riapparire l’uomo primitivo”. Queste dinamiche elementari di Eros e Thanatos si intrecciano con il processo di incivilimento, cui spetta di regolamentarle socialmente. La spinta ad aggredire nasce dalla deflessione esterna di una presenza negativa interna percepita inconsapevolmente come una minaccia mortale. Se il gruppo è dunque incapace d’esame di realtà, impotente di fronte alle angosce depressive e inerentemente distruttivo verso gli altri gruppi, come ci si può aspettare che esso possa controbilanciare il desiderio di guerra o che possa addirittura farsi portatore di un progetto di pace?

Gennaio 2014

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