Dossier
Il contributo della psicoanalisi al problema della guerra: riflessioni e interrogativi sul fenomeno guerra
21/01/14
Barbara Piovano
I contributi degli psicoanalisti alla comprensione dei problemi che riguardano la collettività – le guerre, il terrorismo, l’immigrazione, la bomba atomica – sono oggi numerosi, così come tanti sono gli analisti che si sono impegnati e si impegnano sul fronte nei paesi devastati da guerre civili, dittature, situazioni di esiliati traumatizzati. Circa le cause della guerra Freud riteneva che l’aggressività fosse una componente essenziale della natura umana e che quindi fosse irrealistico ricondurre la violenza esclusivamente al regime politico o a ragioni di tipo sociale ed economico. Pur ritenendo che non esistesse alcuna speranza di poter sopprimere le inclinazioni aggressive degli uomini, suggeriva delle vie indirette per contrastare la guerra.
Sebbene la sua esperienza ed osservazione dell’Europa tra le due guerre non lo spingesse a essere ottimista, sembrava, tuttavia, che mostrasse uno spiraglio di fiducia quando sosteneva che l’aggressività può essere gradualmente interiorizzata grazie all’impatto evolutivo del processo di civilizzazione e allo sviluppo delle identificazioni fondate sui ‘legami emotivi tra gli uomini’ e sulla ‘condivisione del valore della ragione’ e del pensiero.
Gli psicoanalisti, pur avendo mostrato interesse nei confronti del problema della guerra, mostrano un tipo di approccio cauto che discute da sempre sull’opportunità o meno di applicare gli insight della psicoanalisi a processi sociali esterni e su larga scala, processi che sono determinati da una molteplicità di fattori biologici e sociopolitici.
La psicoanalisi non ha mai sostenuto di essere una teoria sociale o politica e si è sempre concentrata sul mondo interiore dell’individuo: tuttavia essa è l’unica scienza a poter offrire intuizioni riguardo all’inconscio in quella particolare attività che chiamiamo guerra. Già Franco Fornari si chiedeva se e in che misura la conoscenza psicoanalitica potesse essere concretamente applicata al controllo della guerra come fenomeno collettivo (Fornari, 1970, pag 41).
La guerra offre innumerevoli opportunità per mettere in atto le fantasie distruttive dell’individuo o per vederle riattualizzate nel palcoscenico del mondo. Tutto ciò che per rendere possibile la convivenza sociale era stato relegato nella sfera della fantasia riaffiora in tempo di guerra e la guerra ha effetti devastanti sulla psiche della persone.
I questi teorici che la psicoanalisi si pone quando si confronta con l’impatto della guerra sull’individuo sono: cosa accade nel paziente quando la realtà conferma le peggiori fantasie dell’individuo? Cosa accade quando sulla scena mondiale irrompono immagini di distruzione o di dissoluzione personale precedentemente contenute nella sfera delle fantasie private?
Nella pratica psicoanalitica, tuttavia, può essere dannoso ritenere gli eventi esterni come semplici indizi per l’analisi del mondo psichico (Heike Inze, 1986). Gli effetti traumatici degli eventi esterni – guerre, abusi, torture, attentati terroristici, genocidi – sono adesso al centro dell’attenzione degli analisti e l’analisi di pazienti traumatizzati è andata incontro a modifiche nella tecnica e nel tipo di ascolto analitico. Bohleber ( 2007) sostiene che quando il transfert-controtransfert è analizzato in terapia solo nel qui ed ora – partendo dal presupposto che il presente contiene il passato e che la verità narrativa sostituisce la verità storica – si corre il rischio di non distinguere tra fantasia e realtà ( e tra bugie e verità) e di ritraumatizzare il paziente: districare la fantasia dalla realtà richiede un reminiscenza (remembrance) e una ricostruzione nel trattamento psicoanalitico. Egli sottolinea con forza che il lavoro analitico con il paziente traumatizzato da gravi eventi sociali va affiancato a un discorso politico che denunci con forza la verità storica degli eventi traumatici e il diniego e il ripudio degli stessi.
Nella pratica psicoanalitica forme patologiche di narcisismo sono un sintomo di un Sé fragile che si sente minacciato dalla differenza e ha bisogno di escludere tutto ciò che è diverso e nuovo attraverso la costruzione di rigidi confini. Come potrebbe questa esperienza clinica essere utilizzata per comprendere il fenomeno sociale e politico della avversione e chiusura nei confronti della immigrazione?
Stefania Nicasi (2008) pone un importante interrogativo che lascia aperto, ma al quale sarebbe utile che gli psicoanalisti tentassero di dare una risposta se vogliono dare un contributo a una riflessione sui gruppi terroristici sui genocidi e sulla guerra nucleare: “E’ sufficiente una teoria dell’aggressività individuale per spiegare il fenomeno della guerra o è necessario fare riferimento a una teoria dei gruppi? La guerra può essere considerata un qualsiasi conflitto tra gruppi o si deve tenere conto che a condurla siano gli Stati? E’ davvero possibile, come avviene nella teorizzazione di Fornari, equiparare lo Stato al gruppo?”.
Hanna Segal (1987) e Franco Fornari ( (1970) insistono rispettivamente sulla necessità che venga accresciuta la consapevolezza sociale rispetto alla paura che ognuno di noi prova nei confronti della guerra e sulla necessità che individui e gruppi su riapproprino della responsabilità nei confronti della guerra.
La responsabilità presuppone che l’individuo o il gruppo abbiano la fiducia che il proprio contributo è importante ai fini di evitare che i conflitti si traducano in guerre. E’ proprio questa fiducia nell’importanza del contributo di ogni cittadino che un regime democratico dovrebbe sostenere. Concludo il rapido excursus su autorevoli analisti che hanno pensato sul fenomeno guerra con interrogativi che lascio aperti e che vorrebbero essere uno stimolo alla ricerca di soluzioni collettive orientate al mantenimento della pace, ispirate dalla ragione.
Nell’individuo l’onnipotenza e la paranoia si riducono nella misura in cui la terapia promuove cambiamenti strutturali interni della personalità che lo aiutino a integrare aspetti di negatività e distruttività interna, a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni sugli oggetti amati e a sviluppare attitudini e gesti riparatori.
Ma come può un maggiore insight sulla distruttività presente in ognuno di noi tradursi in un maggiore responsabilizzazione di quegli organismi nazionali e internazionali che sono preposte al mantenimento della pace?
Gennaio 2014