Dossier
Approfondimento – Il contributo della psicoanalisi al problema della guerra
21/01/14
Il contributo della psicoanalisi al problema della guerra : riflessioni e interrogativi sul fenomeno guerra.
Barbara Piovano
I contributi degli psicoanalisti alla comprensione dei problemi che riguardano la collettività – le guerre, il terrorismo, l’immigrazione, la bomba atomica etc.- sono numerosi, così come tanti sono gli analisti che si sono impegnati e si impegnano sul fronte nei paesi devastati da guerre civili, dittature, situazioni di esiliati traumatizzati
Freud ha trattato il problema della guerra e della violenza, in diversi suoi scritti [ Il disagio della civiltà (1930), Lutto e malinconia (1915),Compendio di Psicoanalisi (1940), Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915),Totem e tabù (1913)]
Circa le cause della guerra Freud riteneva che l’aggressività fosse una componente essenziale della natura umana e che quindi fosse irrealistico ricondurre la violenza esclusivamente al regime politico o a ragioni di tipo sociale ed economico.
Nella sua lettera di risposta a Einstein, che poneva alcuni quesiti a Freud; ‘perché l’uomo alberga in sé il bisogno di odiare e distruggere ?’ ‘ vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino più capaci di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?’, Freud, pur ritenendo che non esista alcuna speranza di poter sopprimere le inclinazioni aggressive degli uomini, suggeriva delle vie indirette alla lotta alla guerra.
Sebbene la sua esperienza ed osservazione dell’Europa tra le due guerre non lo spingesse a essere ottimista, sembrava, tuttavia, che mostrasse uno spiraglio di fiducia quando sosteneva che l’aggressività può essere gradualmente interiorizzata grazie all’impatto evolutivo del processo di civilizzazione e allo sviluppo delle identificazioni fondate sui ‘legami emotivi tra gli uomini’ e sulla ‘condivisione del valore della ragione’ e del pensiero.
Per Freud anche il diritto, la legge, sono figli della violenza. La nascita della società non deriva dall’estinzione della forza e della violenza ma dal suo uso al servizio di un ordine morale. Il diritto poggia sul potere della società di farlo rispettare, in sintesi è la forza che crea il diritto. La forza e la violenza sono gli strumenti reali della morale.
Freud scrive: ‘ violenza e diritto sono oggi per noi termini opposti’..ma ‘è facile mostrare che l’uno si è sviluppato dall’altro’. La strada che conduce dalla violenza al diritto viene rintracciata nell’unione dei deboli contro il forte. ‘ La violenza viene spezzata dall’unione di molti, la potenza di coloro che si sono riuniti rappresenta ora il diritto’… vediamo così che ‘il diritto è la forza di una collettività, ma anche questa è violenza. La differenza sta realmente solo nel fatto che non è più la violenza dell’individuo a trionfare, ma quella della collettività’…… ‘ La violenza della collettività, però, sarebbe impotente a mantenere lo stato giuridico, provvedendo alla esecuzione degli atti di violenza conformi al diritto, se la comunione di interessi non determinasse quei legami emotivi, quei sentimenti condivisi sui quali si fonda la vera forza della collettività’. ‘La società governata dal diritto potrebbe essere stabile solo in quanto gli individui fossero uguali e il diritto uguale per tutti. La società governata dal diritto è però in equilibrio instabile a causa della ineguaglianza dei vari individui….Si troveranno gruppi di dominanti, che tenderanno ad asservire con la violenza il diritto al proprio interesse, creando un diritto ineguale: e per converso i dominati saranno spinti da una forza opposta a riguadagnare i diritti che i dominanti tendevano a sottrarre per reclamare il passaggio dal diritto ineguale al diritto uguale per tutti. Di qui la insurrezione, la guerra civile, quindi la soppressione provvisoria del diritto e manifestazioni di violenza, dopo le quali si insatura un nuovo ordinamento giuridico’(Carteggio Freud –Einstein , 1932)
Gli psicoanalisti pur avendo mostrato interesse nei confronti del problema della guerra mostrano un tipo di approccio cauto che discute da sempre sull’opportunità o meno di applicare gli insight della psicoanalisi a processi sociali esterni e su larga scala, che sono determinati da una molteplicità di fattori sociopolitici biologici e sociopolitici.
Già Fornari si chiedeva se e in che misura la conoscenza psicoanalitica potesse essere concretamente applicata al controllo della guerra come fenomeno collettivo (Fornari, 1970, p. 41)
La psicoanalisi non ha mai sostenuto di essere una teoria sociale o politica e si è sempre concentrata sul mondo interiore dell’individuo.
Tuttavia la psicoanalisi è l’unica a poter offrire intuizioni riguardo all’inconscio in questa particolare attività che chiamiamo guerra. Se la distruttività interiore non può essere gestita all’interno della psiche è molto probabile che si esprima attraverso forme esteriorizzate e cicli di violenza fisica e psicologica. Queste ultime sono ben note quando si lavora con famiglie patologiche nelle quali la patologia interattiva è, per cosi, dire inversamente proporzionale alla presenza in ciascun membro della famiglia ( o almeno nei genitori) di una struttura psichica (simbolizzante) che contenga e trasformi angosce, impulsi, affetti e fantasie.
La guerra offre innumerevoli opportunità per mettere in atto le fantasie distruttive dell’individuo o per vederle riattualizzate nel palcoscenico del mondo. Tutto ciò che per rendere possibile la convivenza sociale era stato relegato nella sfera della fantasia riaffiora in tempo di guerra e la guerra
ha effetti devastanti sulla psiche di persone sottoposte ad eventi terrificanti.
Tuttavia, nella pratica psicoanalitica può essere dannoso ritenere gli eventi esterni come semplici indizi per l’analisi del mondo psichico (Heike Inze, 1986).
Gli effetti traumatici degli eventi esterni –guerre, abusi, torture, attentati terroristici, genocidi- sono adesso al centro dell’attenzione degli analisti e l’analisi di pazienti traumatizzati è andata incontro a modifiche nella tecnica e nel tipo di ascolto analitico.
Bohleber (2007) sostiene che quando il transfert-controtransfert è analizzato in terapia solo nel qui ed ora- partendo dal presupposto che il presente contiene il passato e che la verità narrativa sostituisce la verità storica – si corre il rischio di non distinguere tra fantasia e realtà ( e tra bugie e verità) e di ritraumatizzare il paziente. I ricordi traumatici costituiscono una sorta di corpo estraneo nella rete psichica associativa, ma anziché essere una esatta replica delle esperienze traumatiche vanno incontro a specifici rimodellamenti: districare la fantasia dalla realtà richiede un reminiscenza (remembrance)e una ricostruzione nel trattamento psicoanalitico. Bohleber sostiene anche che l’individuo non può integrare situazioni traumatizzanti in un conteso narrativo su basi idiosincratiche, ma che è necessario un discorso sociale che denunci la verità storica degli eventi traumatici e il diniego e il ripudio degli stessi.
I questi teorici che la Psicoanalisi si pone quando si confronta con l’impatto della guerra sull’individuo sono : cosa accade nel paziente quando la realtà conferma le peggiori fantasie dell’individuo? quando sulla scena mondiale irrompono immagini di distruzione o di dissoluzione personale precedentemente contenute nella sfera delle fantasie private?
In tempo di guerra gli uomini tendono a regredire a strutture psichiche più primitive (la posizione schizoparanoide della Klein)) o a liberare contenuti psichici rimossi (come nella teoria edipica): nel nemico l’individuo proietta l’aggressività verso il padre edipico (Freud) che è stata rimossa all’inizio della socializzazione oppure l’aggressività verso l’oggetto primario materno cattivo, scisso dall’oggetto buono (Klein). Il nemico diventa il depositario di tutte le pulsioni negative e viene vissuto come aggressivo e persecutorio.
Di fronte a un nemico violento è giustificata ogni forma di aggressività e di barbarie. I membri dell’esercito, delegati a difendere la nazione dagli stati totalitari o democratici possono negare i propri impulsi sadici e la propria aggressività nel nome di un compito che stanno svolgendo per l’intera comunità di appartenenza
Anche in tempi di pace tuttavia ‘in via generale i popoli e le nazioni si denigrano si odiano si detestano’(Freud 1915, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, in Op.,8, p 135).
Freud collega i sentimenti di ostilità e estraneità degli uomini al narcisismo delle piccole e grandi differenze, all’intolleranza verso il diverso (Il tabù della verginità, 1917) .
Nella pratica psicoanalitica forme patologiche di narcisismo sono un sintomo di un sé fragile che si sente minacciato dalla differenza e ha bisogno di escludere tutto ciò che è diverso e nuovo, attraverso la costruzione di rigidi confini. Il clima di guerra che permea le sedute di analisi con questi pazienti è connesso al fatto che l’analista viene reclutato nell’organizzazione narcisistica difensiva del paziente (nel sistema autoreferenziale del paziente), fino a che quest’ultimo non arriva a
1- sperimentare una relazione autentica (raggiunta cioè attraverso esperienze emotive piuttosto che attraverso una comprensione intellettuale) con l’analista riconosciuto come separato, per certi versi uguale e per altri diverso da sé,
2- accettare la differenza tra sé e gli altri
3- distinguere il presente dal passato.
Come potrebbe questa esperienza clinica essere utilizzata per comprendere il fenomeno sociale e politico della avversione e chiusura nei confronti della immigrazione? E’ ovvio che intervengono altre considerazioni di ordine socio-economico e politico e che non si può pensare, ad esempio, che i Francesi siano cosi contrari ad accogliere li immigrati a causa del loro narcisismo grandioso cioè di una sopravvalutazione difensiva della loro identità.
Nicasi(2008) pone un importante interrogativo che lascia aperto, ma al quale sarebbe utile che gli psicoanalisti tentassero di dare una risposta se vogliono dare un contributo ad una riflessione sui gruppi terroristici sui genocidi e sulla guerra nucleare.
‘‘E’ sufficiente una teoria dell’aggressività individuale per spiegare il fenomeno della guerra o è necessario fare riferimento a una teoria dei gruppi? La guerra può essere considerata un qualsiasi conflitto tra gruppi o si deve tenere conto che a condurla siano gli Stati?
E’ davvero possibile come avviene nella teorizzazione di Fornari equiparare lo Stato al gruppo?
I colleghi che lavorano con i gruppi e che usano l’approccio psicoanalitico per comprendere le dinamiche e i comportamenti dei gruppi hanno un’esperienza che consente loro di dire qualcosa sulle dinamiche gruppali e intergruppali che coinvolgono Stati, gruppi di potere, e cittadini.
I gruppi gestiscono il conflitto all’interno del gruppo e il senso di colpa rispetto all’aggressività proiettandoli su un gruppo esterno.
Alcuni gruppi, quando funzionano a livello di ‘assunto di base’, anziché come ‘gruppo di lavoro’, possono abbracciare ideologie e scegliere leader che alimentano fantasie distruttive e autodistruttive che nell’individuo sarebbero considerate psicotiche. I gruppi contengono e aiutano a trattenere le fantasie le angosce le difese psicotiche (Bion 1952; Jaques,1965; Menzies 1970) ma il funzionamento psicotico, se non viene contenuto nel gruppo, può tradursi in condotte irrazionali e distruttive come guerre, azioni terroristiche, genocidi.
Alcuni leader occidentali, secondo la Segal condividono concezioni religiose di gruppi evangelici che attendono una guerra nucleare come se fosse il giorno del giudizio universale come avviene nella psicosi.
Aktar (2002) fa un paragone tra alcuni pazienti che nutrono la speranza patologica che l’analista cancellerà completamente le conseguenze dei traumi infantili, e le organizzazioni terroristiche che affrontano qualunque sofferenza nella speranza di esser ricompensati in futuro.
La promessa di ottenere in paradiso l’amore delle hoor (le vergini celesti) fatta ai suicidi-bomba Hezbollah (Volkan 1997) assomiglia alla insistenza con cui certi pazienti accettano tutta la sofferenza autoindotta perché ci sarà un giorno in cui i loro traumi infantili saranno completamente risolti(pag. 116)
Hanna Segal nel suo scritto ‘Il vero crimine è il silenzio’ denuncia i governi e la collettività di non fare una politica efficace per fermare la corsa agli armamenti. L’esistenza delle armi atomiche mobilita la fantasia onnipotente psicotica(fisiologica nel mondo interno del bambino) che ‘premendo un bottone’ si può distruggere se stessi e il mondo e la trasforma in una realtà possibile, rispetto alla quale vengono mobilitate potenti difese. Di fronte al terrore di potenze distruttive gli individui si liberano della paura, della colpa e della sofferenza nei confronti della guerra e delle sue terribili conseguenze: la responsabilità viene frammentata e proiettata sui governi, sull’esercito, sugli scienziati e infine su macchine al di fuori del controllo umano, anziché essere assunta responsabilmente dall’’individuo e, magari, esercitata nella società attraverso i normali canali accessibili ad ogni cittadino dell’azione politica e giuridica.
Fornari sostiene con forza che ‘ la guerra è ‘un delitto individuale’consumato collettivamente’ e insiste sulla necessità di non considerare la guerra come ‘la sporca faccenda dei grandi’(Nota 1) nello stesso modo in cui i rapporti sessuali dei genitori fantasticati come guerre, vengono vissuti dai bambini come un segreto di competenza dei grandi, e sulla necessità che individui e gruppi si riapproprino della colpa e della responsabilità nei confronti della guerra (Nota 2)perché possa verificarsi all’interno degli stati quel processo di formazione morale comune a tutti, quel Superio culturale, insito nella Legge e nell’Etica, che porti tutti i paesi a conformarsi ai valori sociali richiesti dalla necessità di pace e di sopravvivenza in era atomica.
Riguardo alla minaccia atomica anche la Segal insiste sulla necessità che venga accresciuta la consapevolezza sociale rispetto alla paura che tutti proviamo rispetto alla bomba atomica e sostiene che più le persone sono in grado di raffigurarsi i terribili effetti della guerra nucleare, più si riducono il meccanismo difensivo che consiste nell’esteriorizzare nella minaccia nucleare il desiderio di ‘premere il bottone’ e l’angoscia di frammentazione e annientamento presente all’interno di ogni individuo.
Il pericolo incombente reale della guerra atomica,infatti, se, da una parte, fa entrare in risonanza angosce primitive di frammentazione e annientamento nell’individuo, dall’altra consente che queste ultime vengano ‘tenute a bada’ attraverso il meccanismo difensivo della esternalizzazione nella minaccia nucleare. E’ un po’, mi sembra, come quando il temporale spaventa o terrorizza il bambino, ma al tempo stesso gli consente di localizzare in cielo ‘il diavolo che va in carrozza’, mentre lui se ne sta al calduccio della sua casa.
La consapevolezza della paura nei confronti di un pericolo reale, quale è quello della bomba atomica, potrebbe essere un importante stimolo alla ricerca di soluzioni personali e collettive orientate al mantenimento della pace, ispirate dalla ragione e dal pensiero. L’ideale,come scriveva Freud, sarebbe una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione.
La responsabilità presuppone che l’individuo o il gruppo abbiano la fiducia che il loro contributo è importante ai fini di evitare che i conflitti si traducono in guerre.
Ed è proprio questa fiducia nell’importanza del contributo di ogni cittadino che un regime democratico dovrebbe sostenere.
A conclusione di questo excursus su autorevoli analisti che hanno pensato sul fenomeno della guerra mi restano alcuni importanti interrogativi che pongo all’attenzione di chi mi legge:
Nell’individuo l’onnipotenza e la paranoia si riducono nella misura in cui la terapia promuove cambiamenti strutturali interni della personalità che aiutano l’individuo a integrare aspetti di negatività e distruttività interna, a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni sugli oggetti amati e a sviluppare attitudini e gesti riparatori.
Un cambiamento interno, nel senso di un allargamento dell’area della pensabilità e del raggiungimento della posizione depressiva, produce una maggiore apertura mentale verso l’altro, una accettazione del diverso, un superamento dei pregiudizi e della diffidenza, e una propensione a dialogare anziché combattere con le armi.
Ma, come può un maggiore insight sulla distruttività presente in ognuno di noi tradursi in un maggiore responsabilizzazione di quegli organismi nazionali e internazionali che sono preposte al mantenimento della pace?
Una organizzazione giuridica internazionale (ONU) ha il potere effettivo di creare le condizioni per comporre i contrasti che possono sorgere tra gli stati?
Come si può trasmettere l’idea, basata sulla teoria e la pratica psicoanalitica con individui e gruppi, che la teoria della deterrenza lungi dall’assicurare la pace attraverso il mantenimento di un equilibrio di terrore tra le potenze che possiedono armamenti nucleari, può invece portare alla distruzione? Il messaggio che perfino ‘le crociate contro il terrorismo’ possono essere altrettanto illusorie e pericolose quanto le ideologie fondamentaliste per le quali il paradiso si raggiunge distruggendo il male attribuito agli altri?
Nota 1- La prassi psicoanalitica quotidiana dimostra che, nelle fantasie infantili e nell’inconscio degli adulti, la guerra si trova ad essere fantasticata nell’universo dei rapporti sessuali tra i genitori; universo altamente tinto di sadismo distruttivo,che il bambino immagina come ‘il segreto di competenza dei grandi’ e cioè ‘come le cose che non lo riguardano’. I rapporti sessuali tra i genitori vengono sognati sotto forma di bombe che colpiscono case, aerei che, precipitando sulle città, le mandano in frantumi.( Fornari 1970, pag 107)
Nota 2. Di fronte alla guerra l’individuo prova la stessa impotenza che prova un bambino quando è testimone e vittima di un conflitto permanente tra i genitori. Un conto sono le fantasie del bambino sui rapporti trai genitori, un conto è il trauma che il bambino subisce quando i genitori sono davvero in guerra e non nelle fantasie tinte di sadismo del bambino. In questo caso, al bambino viene chiesto di giudicare chi ha ragione, di mantenere la pace, di prendere posizione per l’uno, di scegliere tra l’uno o l’altro quando la separazione diventa inevitabile.
Non è la stessa cosa quando al cittadino comune viene chiesto di riempire un questionario per esprimere il suo parere sulla guerra?
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——– (1915) b) Considerazioni attuali sulla guerra e la morte», in Opere, vol.VIII, cit.
——– (1917), Il tabù della verginità, in Contributi alla psicologia della vita amorosa, in Opere, vol. VI, cit..
——– (1930a), Il disagio della civiltà, in Opere, Vol X, cit
——- (1930 b), lettera a Arnold Zweig (26 novembre 1930), in S. Freud, A. Zweig, Lettere sullo sfondo di una tragedia (1927-1939), (a Cura di) D. Meghnagi,Venezia, Marsilio, 2000.
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