Dossier
Essere bambini a Gaza: il trauma infinito
21/01/14
Maria Patrizia Salatiello
Nell’autunno del 2011 il responsabile del CISS (una ong italiana: Cooperazione Internazionale Sud Sud) per la Palestina mi chiese di collaborare a un progetto di aiuto ai bambini e alle famiglie che avevano subito traumi durante Piombo fuso. Penso che sappiate di cosa si tratti. Il 27 dicembre 2008 le forze di occupazione israeliane iniziarono un improvviso e intensivo attacco aereo sulla striscia di Gaza. I bombardamenti iniziarono approssimativamente alle 11,30 e continuarono per tre ore. Furono distrutti la maggior parte degli uffici della sicurezza, comprese le stazioni di polizia, più di 220 Palestinesi furono uccisi e 770 feriti. L’operazione militare continuò per 23 giorni, culminando con l’ingresso dei carri armati nella striscia. Alla fine furono uccisi 1320 Palestinesi fra cui 446 bambini, 108 donne e 108 anziani. Furono ferite 5320 persone fra cui 1855 bambini e 795 donne. Un numero notevole di uomini, donne e bambini furono uccisi o feriti nelle loro case e ben 4000 abitazioni furono distrutte e altre 16.000 furono danneggiate.
Gli israeliani hanno chiamato questo sanguinoso attacco “Operazione piombo fuso”. Durante la mia terza missione, il 14 dicembre 2012 inizia un altro massacro che dura per otto giorni e che questa volta ha un nome biblico: “Colonna di difesa”. L’aviazione israeliana comincia a bombardare pesantemente, mentre la marina, schierata a meno di cinquecento metri dalla costa, comincia a cannoneggiare pesantemente.
Anche questa volta il bilancio è gravissimo: 164 vittime di cui 43 bambini; i feriti sono 1235 e i dispersi in numero imprecisato. Ma fra queste due sanguinose operazioni israeliane a Gaza non c’è mai stato un attimo di vera pace.
Classicamente la Sindrome post traumatica da stress, di maggiore o minore gravità, ha un posto preciso nel tempo e nello spazio. Accade in un particolare posto e ha un inizio e una fine. A Gaza vi sono sempre bombardamenti, sia pure sporadici, che portano morte, feriti e distruzione. Con ogni esplosione, che di solito avviene nella tarda serata o di notte, il trauma si riattiva di nuovo. L’assedio poi, l’impossibilità di entrare e uscire da Gaza, che dura dal 2006, rende l’intera vita quotidiana problematica. L’elettricità è distribuita soltanto per poche ore e spesso le sere sono illuminate soltanto dalle candele. La disoccupazione ha un tasso altissimo e si stima che almeno metà della popolazione sopravvive soltanto grazie agli aiuti internazionali.
Il progetto di cooperazione internazionale a cui mi è stato chiesto di partecipare – nel corso di tre missioni – è diretto a bambini le cui case sono state del tutto o parzialmente distrutte durante “Piombo fuso”, ma accanto a questo trauma spesso ne hanno subiti altri molto gravi.
Sono stati identificati 416 bambini. Sessantasei bambini, con una situazione più traumatica, sono seguiti dagli psicologi. Il mio ruolo è stato duplice. Da un lato mi è stato chiesto di fare formazione con gli animatori e gli psicologi, dall’altro vedere in prima persona alcuni dei bambini scelti dagli psicologi.
Il materiale delle mie tre missioni è ricchissimo, ma in questa sede vorrei proporre l’effetto tristemente peculiare che i traumi che non finiscono mai hanno sui bambini, ma anche sugli operatori, me inclusa. Racconterò della mia esperienza in una situazione di guerra illustrandola con due frammenti clinici dei bambini. Vorrei innanzitutto proporre una definizione di trauma presa da un interessante lavoro di Anna Sabatini Scalmati sulle vittime di tortura: “Il trauma è uno shock violento, un’improvvisa accelerazione quantitativa e qualitativa di esperienze sensoriali ed emotive. Si ha trauma psichico quando la quantità\ qualità degli stimoli esterni, forzata la barriera protettiva, tracima nell’apparato psichico determinandovi una disorganizzazione più o meno reversibile”.
Se un evento, irruzione di esterno nella psiche, è talmente violento da abbattere le funzioni integrative ed esecutive dell’Io ne consegue la formazione di aree scisse, di aree fissate al trauma. E’ pur vero che in situazioni traumatiche isolate, che hanno un inizio e una fine, è possibile « disincistare » l’esperienza traumatica permettendo che rientri nei normali flussi di pensiero, ma, come dicevo all’inizio, a Gaza i traumi non finiscono mai e la loro evoluzione assume caratteristiche specifiche. Due dopo la mia seconda missione, non ricordo bene, a sera sono nella foresting house della mia organizzazione e dopo una giornata di lavoro sto chiacchierando tranquillamente con la cooperante del CISS e una giovanissima stagista. All’improvviso due boati terribili squarciano l’aria, per fortuna i vetri sono aperti e non si sono rotti, non so ancora quanto può essere pericoloso essere colpiti dalle schegge.
Il mio sonno stranamente tranquillo e il risveglio altrettanto tranquillo dovrebbero mettermi sull’avviso, ma invece resto del tutto inconsapevole. Al mattino dopo devo vedere tre bambini. Per primo arriva Ahmad, un ragazzino dai capelli rosso fuoco, così rari fra i palestinesi. Ha undici anni e quindi durante la guerra aveva sette anni. Ha vissuto i bombardamenti, l’invasione dell’esercito israeliano. Quasi tutti i vicini hanno lasciato le case, il padre di Ahmad continuava a dire che se doveva succedere qualcosa sarebbe successo ovunque, che non c’era motivo di scappare. A casa c’erano papà, mamma e sei figli, Ahmad è il quinto. Sono rimasti chiusi a casa per dieci giorni. Alla fine il papà s’è deciso e sono usciti per andare dai nonni. Appena fuori dalla casa il bambino ha visto un uomo con tutte e due le gambe tagliate, con il sangue che scorreva e che chiedeva aiuto, Ahmad avrebbe voluto che la mamma facesse qualcosa, ma la donna non ha fatto nulla e per il bambino è stato terribile. Hanno raggiunto la casa dei nonni e hanno vissuto lì senza luce e senza acqua. Una notte, mentre dormivano, è entrato un missile che ha fatto un buco nel muro, ha attraversato la stanza ed è uscito esplodendo fuori: Ahmad s’è fatto la pipì addosso e non ha più smesso di farla quando dorme. Dopo alcuni giorni sono arrivate le ambulanze della croce rossa e li hanno portati in una scuola, lì un giorno il bambino è svenuto, quando ha ripreso conoscenza non riconosceva la mamma, diceva che era la zia, poi pian piano si è ripreso ma sono passate ben due ore.
Dopo la guerra sono tornati a casa e alla vita normale, che normale per Ahmad non è stata mai più. Quando sente il rumore dei bombardamenti urla, ogni notte ha incubi, si sveglia gridando, da quattro mesi ha dolori alle gambe, è stato visto dai medici che hanno escluso qualcosa di organico. L’incontro è fallimentare, il bambino è palesemente in tensione, angosciato e andrà via molto presto. Soltanto dopo, quando inizio la discussione con il gruppo riuscirò a capire cosa è accaduto, come io non sia stata capace di accogliere la sua angoscia perché anch’io ero angosciato e ho colluso con lui nel fare un atto di negazione di quello che era successo la sera prima. Ma vediamo in dettaglio l’incontro con Ahmad, mi dice che vuol parlare, ma non sa di cosa. Gli chiedo di raccontarmi di se stesso.
A: Io non avevo mai avuto paura, prima della guerra, adesso sì e poi faccio la pipì a letto. Durante la guerra stavo sempre in braccio a mamma, soprattutto quando c’erano i bombardamenti.
P: e continui ad avere paura anche adesso.
A: sì.
P: hai paura che bombardino ancora.
In questo momento sto negando a me stessa e ad Ahmad che ieri sera ci sono stati i bombardamenti, che lui ne deve essere stato di nuovo terrorizzato e io con lui. Ho davvero dimenticato.
Ahmad mi dice che non ha altro da raccontare e vuole disegnare.
Ha un tratto delicato, sembra abbia in mano un pennello, disegna un albero, molto stilizzato, prende il colore verde e colora la chioma dell’albero, ma solo in parte, poi fa dei tondi rossi, forse dei frutti, il tutto occupa soltanto una parte della chioma che per lo più resta bianca. Poi fa dei fiorellini, aggiunge delle figure umane e una casetta.
Gli chiedo di raccontarmi il disegno.
A: C’è un albero con dei frutti, sono arance, poi c’è una casa e dei bambini.
P: e cosa fanno questi bambini?
A: giocano.
P: e sono contenti mentre giocano e non hanno paura.
La discussione in gruppo è interessantissima, faccio subito notare a tutti la mia negazione del trauma, che è del bambino, ma anche mia e di come è molto importante che tutti gli operatori siano consapevoli che anche loro, come i bambini, vivono situazioni traumatiche.
Discutiamo a lungo di tutto ciò ed è palese il sollievo che tutti i giovani psicologi provano nel vedere accolte le loro di angosce e nel poterle condividere con me e fra di loro.
Il secondo incontro della giornata è con Maram, una ragazzina che vedo in tutte e tre le mie missioni a Gaza, con lei farò cinque incontri, seguendone l’evoluzione nel tempo.
E’ la quinta di otto figli, ha tre sorelle e un fratello più grandi, dopo di lei c’è una sorellina di sei anni, di cui parlerà spesso, un fratellino e una neonata che torna e ritorna nelle osservazioni.
Durante la guerra una bomba al fosforo bianco è entrata in casa e Maram si è terrorizzata. Sono scappati tutti in un’altra casa. Maram ha cominciato ad avere incubi, durante il giorno spesso si isolava e si isola ancora adesso e si mette a piangere.
Cinque mesi dopo la mamma s’è accorta che Maram cominciava a perdere i capelli e ha iniziato a girare un sacco di medici che hanno prescritto cortisonici, vitamine, gocce e shampoo che non hanno avuto alcun effetto. E’ poi diminuito anche il rendimento scolastico della bambina, che prima era davvero brava. Tutta la situazione della bambina ha un rebound sull’intera famiglia. Qualche mese fa è morto il nonno, a cui era molto legata e gli incubi sono aumentati. La sua casa è in un edificio dove abitano anche alcuni zii e parecchi cuginetti che la prendono sempre in giro per la perdita dei capelli. Guarda moltissimo la televisione, che però spesso si rompe e la mamma l’accusa d’essere lei a danneggiarla. Da poco alla mamma è stato diagnosticato un tumore e Maram si sente molto in colpa per le preoccupazioni che le da, temendo così di aggravare le sue sofferenze.
Ha poi tanti timori per il suo futuro, vorrebbe sposarsi, avere dei figli, ma teme che tutto ciò non accadrà mai a causa dei capelli. La famiglia è molto povera, vivono soltanto dell’indispensabile e tutti devono sopportare molte privazioni.
Ecco in dettaglio il nostro incontro.
P: Ciao Maram, cosa vuoi fare oggi?
M: Voglio disegnare.
Fa tre nuvole, il sole con un tratto m
olto deciso.
M: c’è un righello?
P: no, ma puoi usare una delle costruzioni di legno.
Comincia a fare una casa usando il mattoncino come righello, prende poi il colore verde e fa l’erba.
E d’improvviso un boato spaventoso squarcia il silenzio della stanza. Io e Youssif, il mio interprete, ci guardiamo sgomenti, Maram resta indifferente, il capo chino sul foglio, continua a disegnare l’erba e aggiunge un fiore. Youssif mi chiede di accendere il cellulare, come sempre ad ogni bombardamento il suo pensiero corre immediato alla moglie e alla bambina. In quel momento non possiamo sapere che è soltanto una sonic bomb, i cui danni sono minimi e il cui unico scopo è tenere alto il livello di tensione di tutta la popolazione. Il boato è identico a quello di tutte le bombe.
P: Maram, non hai avuto paura per l’esplosione?
M: No.
Non le dico nulla, è evidente che ha bisogno di negare la sua angoscia, anche se continuo a pensare che questo le fa molto male.
Aggiunge un altro fiore, un albero gli uccellini, cancella e poi ridisegna e così via.
Mi viene di pensare che forse Maram ha capito che anche questa volta gli incontri saranno due e di conseguenza è come se non avesse voglia di mettersi in gioco, poiché sto per lasciarla di nuovo.
Inizia poi a colorare.
P: prima di continuare a colorare mi racconti il disegno?
M: questa è una bambina che arriva alla sua casa attraverso il giardino ci sono i fiori belli, il sole bello, gli uccelli che cantano.
P: vorresti vivere in un posto così.
M: no, a volte andavo al parco a vedere i fiori.
Riprende a colorare e si sentono sempre fortissime delle sirene, mi viene di pensare che potrebbero essere autoambulanze.
M: ho finito.
E’ giunta l’ora di lasciarci, le dico che quasi certamente tornerò a novembre e Maram mi saluta così:
M: Spero che ritorni con grazia con l’aiuto di Dio.
A novembre dello stesso anno torno di nuovo a Gaza e questa volta la mia missione inizia nel peggiore dei modi. Arrivo di venerdì e il giorno prima un blindato era entrato a Khan Younis e aveva ucciso un ragazzino di dodici anni che stava giocando a calcio per strada. La reazione della Jiahd islamica è pesantissima, vengono lanciati moltissimi razzi, che però non fanno vittime fra gli israeliani che rispondono con bombardamenti sporadici. Il venerdì e il sabato altri adolescenti palestinesi vengono uccisi. Rimandiamo di 24 ore il nostro ingresso a Gaza. In fine entriamo e le prime due notti vi sono bombardamenti.
Anche in questo incontro vedo Maram che in apparenza pare essere diventata del tutto impermeabile ai bombardamenti.
Dopo aver lavorato con i ragazzini torno a casa e, mentre stiamo pranzando tutti assieme con i cooperanti italiani, ascoltiamo in televisione la notizia che un missile israeliano ha ucciso Al Jabal, il capo delle Brigate Qassam, l’ala militare di Hamas, nel pieno centro di Gaza City. Ricomincia il lancio di missili verso Israele e la risposta è durissima. Gaza viene bombardata notte e giorno per nove giorni dal cielo e dal mare. La marina fatti si posiziona a cinquecento metri dalla costa e comincia a cannoneggiare. Restiamo chiusi a casa per una settimana, senza poter fare nulla, senza poter aiutare la popolazione. Le direttive del CISS sono di non muoverci, siamo in una zona relativamente tranquilla, abitata da internazionali e personale delle Nazioni Unite, gli israeliani hanno le coordinate degli edifici e non li bombarderebbero volontariamente, ma un errore è sempre possibile, ce ne rendiamo conto quando le bombe cadono a meno di cento metri da casa. Sono giorni surreali, siamo in otto su quattro appartamenti, ma per lo più stiamo tutti assieme. La mia mente è come congelata, dormo, mangio, comunico con le mie figlie in chat, per fortuna c’è la connessione a internet. Dopo sei giorni usciamo da Gaza con un convoglio delle Nazioni Unite.
Gennaio 2014