Dossier
L’impensabilità della guerra nucleare di P. Bion Talamo. Commento di G. D’Agostino
21/01/14
Giuseppe D’Agostino
Lo scritto si trova nella raccolta postuma di saggi Mappe per l’esplorazione psicoanalitica (P. Bion, 2011); inizialmente era stato pubblicato nel volume collettaneo Immagini dell’impensabile. Ricerche interdisciplinari sulla guerra nucleare (Messeri, Pulcini, 1991), con il titolo L’impensabilità della guerra nucleare (P. Bion, 1987a). Si tratta di una relazione letta dall’Autrice al Seminario <<Guerra, paura e sicurezza>> promosso dal Forum per i Problemi della Pace e della Guerra, che si svolse a Firenze il 5 dicembre 1987. Il Forum era stato fondato a Firenze, nel 1984, da alcuni studiosi di discipline diverse, con lo scopo di sviluppare e scambiare conoscenze sulla pace e la guerra. Nel 1986 si era costituito, nell’ambito del Forum, un gruppo di lavoro sui temi della paura e della sicurezza legati alla guerra nucleare; vi avevano partecipato filosofi, antropologi, sociologi, psicologi e due psicoanalisti: Parthenope Bion Talamo e Giovanni Hautmann. L’interdisciplinarietà del gruppo aveva lo scopo di condurre, da più prospettive, un’indagine << non tanto delle cause oggettive e strutturali della guerra, quanto piuttosto delle motivazioni soggettive, dei meccanismi psichici profondi, sul piano individuale e collettivo, che, direttamente o indirettamente, possono avere a che fare con l’esistenza o la possibilità del conflitto nucleare >> (Messeri, Pulcini, 1991, p. 8).
Subito dopo Hiroshima e Nagasaki gli studi scientifici si erano concentrati sugli effetti di una singola esplosione nucleare; fu solo agli inizi degli anni ottanta che si cominciarono a indagare le conseguenze, per l’intera umanità e la vita del pianeta, di un utilizzo su vasta scala degli arsenali atomici con i quali i due “imperi”, quello USA e quello sovietico, “freddamente” si minacciavano da decenni (dal 1945 al 1991 furono fabbricate nel mondo oltre 128.000 testate nucleari) (Dinucci, 2003). I modelli scientifici elaborati portavano tutti alla stessa conclusione: un conflitto nucleare generalizzato avrebbe causato, insieme ai milioni di morti, uno sconvolgimento degli equilibri climatici e degli ecosistemi (Dinucci, 2003). Se oggi nomi quali SS-20, Pershing e Cruise non ci evocano particolari emozioni, così non era negli anni ottanta quando – solo per ricordare una pagina italiana di quel momento storico – a Comiso, in Sicilia, si svolgevano imponenti manifestazioni pacifiste per contrastare l’installazione dei missili della NATO.
La comunità scientifica internazionale, in quel periodo, si ritrovò unita nella produzione di conoscenze utili per denunciare il pericolo nucleare (eccetto, ovviamente, le menti occupate a lavorare per l’industria militare) e furono molti gli psicoanalisti che sentirono il bisogno e il dovere morali di impegnarsi su questi argomenti (Cfr. Levine, Jacobs, Rubin, 1988). La stessa IPA – grazie al lavoro H. Segal e M. Laufer – istituì, nel corso del congresso di Amburgo del 1985, l’organizzazione International Psychoanalists Against Nuclear Weapons (IPANW). In quell’occasione H. Segal lesse una relazione, Silence is the Real Crime, che volle essere un forte invito all’impegno civile degli psicoanalisti; per comprendere il clima del momento è utile leggere le sue appassionate parole conclusive:
What role can we, as analysts, play in this tragic drama? I think first we must look into ourselves and beware of turning a blind eye to reality. We are like other humans with the same destructive and self destructive drives. We use the same defences. We are prone to the same denials and, moreover, we can hide behind the shield of psychoanalytic neutrality. We know that, as psychoanalysts, we should be neutral and, for instance, not take part in political debates as psychoanalysts, whatever our own political convictions, which we can pursue as individuals. But there are situations in which such an attitude can also become a shield of denial. To be acquainted with facts and recognize psychic facts, which we of all people know something about, and to have the courage to try to state them clearly, is in fact the psychoanalytic stand. We must face our fears and mobilize our forces against destruction. And we must be heard. There has been a change in the nature of the movement opposed to the nuclear arms race. Today it is largely led by informed opinion […]. I think we have a specific contribution to make. We are cognizant with the psychic mechanisms of denial, projection, magic thinking, etc. We should be able to contribute something to the overcoming of apathy and self-deception in ourselves and others. When the Nazi phenomenon was staring us in the face, the psychoanalytic community outside Germany was largely silent. This must not be repeated. Nadejda Mandelstam said: ‘Silence is the real crime against humanity’ (Hope Against Hope, 1971). We psychoanalysts who believe in the power of words and the therapeutic effect of verbalizing truth must not be silent (Segal, 1987, pp. 10-11).
Non possiamo non fare un collegamento con quanto scrisse Primo Levi, il 21 Settembre del 1986, sul quotidiano La Stampa di Torino – la città di Parthenope Bion – in un articolo sulla responsabilità degli scienziati dal titolo Covare il cobra; questo il passaggio finale:
“Che tu sia o no un credente, che tu sia o no un << patriota >>, se ti è concessa una scelta non lasciarti sedurre dall’interesse materiale o intellettuale, ma scegli entro il campo che può rendere meno doloroso e meno pericoloso l’itinerario dei tuoi coetanei e dei tuoi posteri. Non nasconderti dietro l’ipocrisia della scienza neutrale: sei abbastanza dotto da saper valutare se dall’uovo che stai covando sguscerà una colomba o un cobra o una chimera o magari nulla” (Levi, 1986b, p. 977).
Parthenope Bion – che era un membro dell’IPANW – aveva fatto la sua scelta, ed è in questa cornice storica che si colloca il suo scritto, i cui intenti etici e scientifici sono esplicitati nell’incipit:
“Il problema dell’esistenza sulla terra di armamenti nucleari, e di governi che in qualche modo contemplano il loro uso, non può essere visto da uno psicoanalista come esclusivamente politico, economico, o sociale: è intriso di pensieri e fantasie inconsce, e ritengo che sia molto importante cercare di portare questi elementi inconsci al livello conscio, allo scopo di mitigare la loro potenza” (P. Bion, 1987b, p. 39).
La riflessione psicoanalitica di P. Bion, che possiede la sintesi asciutta e pregevole propria di certi autori britannici, si sviluppa attraverso due registri: una descrizione di cosa dobbiamo intendere per impensabilità del disastro nucleare e quale funzione può assumere un gruppo di lavoro per aiutare l’individuo a stare con questa impensabilità. Il discorso si basa sulla teoria kleiniana-bioniana: il pensiero nasce dalla capacità di creare un legame e un affetto con l’oggetto assente, proiettando all’esterno il dolore per l’assenza e, al tempo stesso, sperimentando la realizzazione di una pre-concezione dell’oggetto.
“Fondamentalmente, – scrive l’Autrice – sembra che il nostro pensare sia orientato per trattare con un mondo buono, un mondo che ci verrà incontro se facciamo qualche sforzo, noi, un mondo a cui, istintivamente “diamo fiducia” (P. Bion, 1987b, p. 39).
In altri termini, potremmo dire che per pensare allontaniamo da noi ciò che ci uccide internamente, sperando che qualcosa di vitale lo possa sostituire. Ma cosa accade quando la realtà tutta coincide con la distruzione? Quando non giunge alcun oggetto o pensiero a portarci sollievo? Quando non ci sono aree sane che confinano con quelle distrutte?
L’auto-distruzione del genere umano è un pensiero impossibile da tenere dentro la mente, perché non ha alcuna risonanza con il mondo interno e con quello esterno. Il tipo di guerra che P. Bion tratta è una guerra de-umanizzata, senza passioni collettive. Per comprenderla non sono sufficienti le rappresentazioni teoriche fornite da Fornari (1966), perché non ci sono all’opera meccanismi schizoidi e paranoici che “fabbricano il nemico”, attraverso le proiezioni delle pulsioni distruttive e delle colpe persecutorie sull’Altro. La guerra nucleare non è segnata dal legame emotivo con il nemico; tutto è oscuro.
Giovanni Hautmann, nel commentare lo scritto di P. Bion, ha definito l’impensabilità della distruzione nucleare come: “impossibilità di rappresentazione ideo-affettiva di un oggetto che lascerebbe la mente incapace di promuovere nuove rappresentazioni del Sé, degli oggetti e delle loro reciproche relazioni”. L’oggetto “armamento nucleare” è da lui definito un oggetto cancro-psicotico, perché “la costellazione dell’oggetto tecnologico armamento nucleare” potrebbe costituire una presentificazione di parti mentali psicotiche che troverebbero un supporto esterno per la loro realizzazione” (Hautmann, 1987, p. 47).
Consapevole che l’impensabilità è la non rappresentazione, P. Bion è alla ricerca di un abbozzo di rappresentabilità possibile e la trova proponendo un collegamento con lo sterminio nazista. Coglie nei “Sommersi” raccontati da Primo Levi (1986a) i segni dell’annientamento del pensiero e ricorre alla propria esperienza di analista di figli di sopravvissuti dei Lager per descrivere la trasmissione inconscia, da genitore a figlio, della “sfiducia nella possibilità che la vita abbia senso, che le si possa conferire un significato, che si possano circoscrivere le zone devastate con qualcosa di vivo, che al di fuori del campo ci sia un mondo meno ostile” (P. Bion, 1987b, p. 44).
L’intuizione dell’Autrice è carica di suggestioni teoriche, è come se dicesse: “la distruttività che ci angoscia e non riusciamo a pensare ha già fatto la sua comparsa, è nella nostra storia”. P. Bion non sviluppa questo tema ma è da questa prospettiva che approda a definire il ruolo protettivo del gruppo. L’individuo, per l’Autrice, può stare con l’impensabilità della distruzione nucleare, in una maniera vitale per la sua mente, solo se appartiene a gruppi “sufficientemente forti mentalmente e sufficientemente deboli operativamente, che siano in grado di pensare alle conseguenze di una guerra nucleare senza impazzire e senza fuggire verso l’azione” (ibidem, p.46). L’importanza di un gruppo “sufficientemente forte nel pensare e debole nell’agire” è un concetto carico di significati, soprattutto se lo leggiamo calato nel periodo storico in cui è stato scritto il lavoro.
Come ho accennato all’inizio, P. Bion partecipò appassionatamente a gruppi che avevano lo scopo di far nascere pensieri su ciò che non era pensabile. Questi gruppi furono la risposta scientifica e morale ad altri gruppi che, invece, si identificavano con le strategie politico-militari-industriali e agivano seguendo le razionalizzazioni della propaganda che perseverava nella logica della deterrenza (tenere a bada le armi del nemico costruendo armi più potenti). In quel periodo molti psicoanalisti sentirono il bisogno di formare gruppi che contrastassero il non pensiero, fecero ricorso alle loro conoscenze per dedicarsi alla cosa pubblica per eccellenza, la vita di tutti, vale a dire, fecero politica; in una maniera nobile.
Tutto questo accadeva trent’anni fa; oggi la guerra fredda è finita e l’umanità non si è auto-distrutta, ma non si sono estinte le violenze, le ingiustizie e le angosce collettive. Forse, si è assopita la forza degli psicoanalisti di creare gruppi per dare parola ai temi e alle passioni civili. Lo scritto che ho commentato ci ricorda che non è stato sempre così.
Gennaio 2014