Dossier

Approfondimento – Cinema e guerra

21/01/14

Cinema e guerra

Pietro Rizzi

Il cinema “va alla guerra” insieme con milioni di giovani chiamati alle armi  nel 1914, fatale inizio di quella che sarà “la Grande Guerra” per antonomasia. Nel suo primo ventennio, il cinema aveva prodotto film a sfondo bellico, di tipo per lo più documentario – non come oggi li intendiamo – ma era chiara fin dall’inizio la potenzialità del mezzo come strumento di rappresentazione, la sua capacità di attrarre e influenzare grandi masse di persone. Così, in un film spettacolare per quell’epoca, “Nascita di una Nazione”, 1915, D. W. Griffith già mostrava scene di combattimenti della Guerra Civile Americana.

Lo stesso Griffith, che pure aveva girato “Intolerance”,1916, un film decisamente progressista e a suo modo pacifista, avrebbe varcato poco dopo l’Oceano, in piena  guerra,  per realizzare un film commissionato dal governo britannico con lo scopo di influenzare l’opinione pubblica americana, “Hearts of the World”, “Cuori del mondo”,1918, nel quale una romantica storia d’amore veniva brutalmente troncata dall’invasione tedesca. Vedendo  da vicino la guerra nelle trincee, come facevano, rischiando la vita, altri operatori della macchina da presa, Griffith aveva scoperto quanto poco “cinematografica” fosse la guerra “vera” e aveva optato per il dramma romantico, come del resto facevano in molti, utilizzando comunque i documentari raccolti sul terreno.

Si manifestava così la “cifra” conflittuale di tutte le narrative del cinema di guerra: la necessità di far convivere il realismo ineludibile degli eventi bellici e le vicende, vere o immaginarie, della vita di sempre, una vita “normale” che non sarebbe mai più stata veramente tale. Solo che questa tensione, con la guerra in atto, diventa uno strumento di propaganda, un mezzo per tenere in ostaggio le emozioni profonde del pubblico. E’ il peccato originale di questo cinema “da” guerra: la stessa parola “propaganda”, tratta dal lessico ecclesiastico (“propaganda fide”), allude alla diffusione, con qualsiasi mezzo, di credenze inattaccabili. La “fede” è rivolta alla Vittoria finale, ma deve essere raggiunta, e mantenuta, con un attento equilibrio di paure e speranze.

Per nulla ingenui, i semplici film del ’14 – ’18 rivelano un attento mestiere da parte di operatori vissuti in mezzo alla gente e ben decisi a realizzare la propria missione. E’ necessario “sembrare” realisti senza mai esserlo del tutto, anche in quelli che appaiono documenti dal vero, come quelli dedicati alle grandi, sanguinose battaglie che allora si susseguivano senza sosta. A ben vedere, ciò si ottiene alterando i dati dello spazio e del tempo. Lo spazio è aperto e distante, contrariamente alla realtà claustrofobica delle trincee. Il tempo è invece chiuso nel tempo stesso della rappresentazione, l’evento descritto è sempre “a posteriori” e rinvia ad altri eventi che saranno certamente risolutivi per concludere il conflitto. Il film “da guerra” è sempre, paradossalmente, calato nella storia, sia pure contratta nel momento presente.

Il cinema di finzione si svincola in parte da queste costrizioni, perché può giocare sulla contrapposizione tra i due “teatri”: quello delle prime linee e quello del mondo lontano dal fronte, le retro/vie, anche queste tenute però a distanza di sicurezza. Gli assi lungo i quali si situano queste narrative sono vecchi come il mondo: Io /Altro (Noi e Loro, se vogliamo) articolati in  Amico/Nemico.

Tuttavia, occorre evitare un rischio: per quanto l’Altro/Nemico sia barbaro, crudele e pericoloso, non deve apparire così terribilmente lontano da rappresentare i’Alieno (come è invece permesso nel descrivere i folli) per non entrare nell’area dell’impensabile, del crollo di tutti i punti di riferimento acquisiti. Questa esperienza, l’impensabile, tuttavia è riservata ai combattenti della guerra tecnologica totale, dove tutto è metallico, anche la carne conservata in scatola, senza la quale la guerra difensiva e immobile, di massa, forse non sarebbe stata possibile!

Per ottenere questo risultato, si gioca su una duplice idealizzazione: l’Amico è eroico, altruista, devoto alla Nazione e alla Bandiera, tanto quanto l’Altro, il Nemico, è il suo contrario. Come vasi comunicanti, le idealizzazioni non sublimabili si sostengono a vicenda, senza il minimo dubbio che la bilancia porti a effetti perversi: sono quelli che faranno esplodere gli ammutinamenti di Verdun, le fucilazioni di Caporetto e infine la Rivoluzione russa, con la rivelazione che l’Altro, il Nemico, sono i propri comandanti. Il cinema bellico tiene a bada, a suo modo, proprio questa eventualità. Parafrasando Von Clausewitz (“La guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi”) si direbbe che il cinema sia stato, allora, il proseguimento della guerra con altri mezzi – una guerra contro la verità, di fatto attuata tramite la distorsione delle coscienze.

In “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”,1921, Freud evoca non per nulla due fenomenologie psichiche basate sull’idealizzazione,  segnate entrambe dalla transizione dalla fisiologia nella patologia. Sono l’innamoramento e l’ipnosi, a proposito della quale egli osserva che “l’ipnosi è una formazione collettiva a due” e aggiunge che la versione individuale e quella collettiva del fenomeno ipnotico non sono distinguibili, sono identiche. Singolare generalizzazione, che induce a pensare che Freud avesse visto nei cinque anni della guerra scendere sulle masse dei civili, come dei combattenti, uno spesso strato di trance collettiva, seguito da un brusco risveglio, con il crollo delle strutture istituzionali e degli assetti psichici fino allora consolidati. I legami libidici si rivelano tragicamente impotenti a fronteggiare il panico creato dalla degradazione delle figure ideali, bastioni morali della coesione sociale. E’ evidente che Freud parla di esperienze raccolte dai suoi stessi figli e dai discepoli che avevano servito nei teatri di guerra.

Lo stesso brusco risveglio avviene nel cinema, soprattutto europeo, che perde la propria funzione e giustificazione morale: emerge  la profonda ambiguità insita nella convivenza tra un cinema realistico e “verista” e un cinema propagandistico, manipolato e manipolatore, al servizio degli alti comandi e della politica militarista. Sarà questo un lascito, quasi un marchio, che il cinema di guerra porterà – e porta – con sé fino ai nostri giorni.

Solo Chaplin, in “Charlot soldato”, 1918, riesce a risolvere la contraddizione: con la sua geniale comicità riesce a difendere la “guerra democratica” e insieme a mostrarne la profonda insensatezza. Il soldatino Charlot nel finale cattura addirittura il Kaiser, ma è tutta l’Autorità militare che va in pezzi, compresa quella della propria parte. “Il grande dittatore” riprenderà lo stesso motivo, ma i tempi sono cambiati in peggio: il piccolo barbiere, sostituendosi a Hynkel/Hitler, è costretto a fare quasi lo stesso discorso bellicoso, sia pure in tinte e toni democratici.

“Charlot soldato” è l’esempio di un cinema che si risveglia dall’ipnosi bellica, ma mostra anche l’energia ingenua con cui il cinema hollywoodiano da allora affronta la guerra, rivolgendosi a giovani che partono con spirito d’avventura e voglia di novità, uno stile che durerà almeno fino ai film sul Vietnam. “La grande parata”,1925, “Gloria”,1926, “Ali”,1927, sono i titoli: sarà il cinema europeo, dopo il sonoro, a “farsi carico” del fardello di amarezza e di dolore prodotta da tanti lutti, dal suicidio, di fatto, di una intera civiltà.

Film come “Westfront” (G. Pabst,1930), “Montagne in fiamme”( L. Trenker,1931), “Les croix de bois” (“Le croci di legno”, R. Bernard,1932) e “La grande illusione”,1937, capolavoro di J. Renoir, emergono tra gli altri per la forza pura della rappresentazione ineludibile di una guerra folle, ma non inspiegabile, voluta da classi dirigenti accecate dai propri interessi e da un nazionalismo autodistruttivo. Solo rifugio, e speranza per l’avvenire, è ritrovare la fraternità.

Tale è il tema di base di questi film, riprodotto in uno schema sempre simile: l’inserimento del combattente, giovane recluta o veterano, in un gruppo casuale di compagni diversi che diverranno, sotto il fuoco e/o in presenza del rischio estremo (la morte) i suoi “camerati”, per sempre. Riapparirà dopo la guerra, questa fraternità vissuta solo nel perimetro chiuso della disciplina militare?

E’ la domanda che nasce alla fine de “La grande illusione”, film vietato per anni e anni in vari paesi europei, per il suo carattere “disfattista”. Una risposta si trova forse nella prima scena di un film di assoluto rilievo nel cinema di guerra: “All’Ovest niente di nuovo”,1930, di Lewis Milestone, americano, tratto da un romanzo del tedesco E. M. Remarque, storia di un giovane tedesco trascinato nella guerra di trincea e destinato a morire in modo insensato (cerca di afferrare una farfalla nella “terra di nessuno”).

All’inizio del film, in un liceo tedesco, il professore di greco esorta i giovani a partire per il fronte citando i classici. Il modello è quello antichissimo della guerra greca, l’Iliade, Atene, Sparta. Anche Freud, nelle “Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte”,1915, si lascia sfuggire che si considererebbe persino accettabile una guerra tra nazioni civili, purché condotta secondo le regole di un tempo.

Il “modello greco” rispetta la fraternità, anche tra nemici: ciò che la mette in dubbio è l’emergere dell’odio tra uguali, per l’infrangersi di quell’ambivalenza emotiva che la civiltà  (sempre Freud) riesce a tener sotto controllo. E’ l’ira di Achille, che porta i  guerrieri alla rovina. Sarà questo un “topos” del film di guerra americano nella 2° guerra mondiale, guerra di movimento dove il piccolo gruppo diventa essenziale per la sopravvivenza e dove i comandanti si sentono spesso psicologicamente eredi dei capi greci e dei romani, come nel famoso “Il giorno più lungo”,1962.

Ma l’antica Grecia non serve a capire la Grande Guerra tecnologica. Paradossalmente sono gli intellettuali conservatori che vi si adattano meglio, E. Jünger, F.T. Marinetti, a suo modo lo stesso Heidegger: per loro, l’esercito/fabbrica permetterà di tenere le masse sotto controllo, come nelle future tre grandi dittature del XX° secolo. Invece, quando Einstein e Freud si scambieranno le celebri lettere di “Perché la guerra”,1933, apparirà una certa loro inevitabile difficoltà a una lettura retrospettiva della guerra da poco trascorsa, nella sua novità: l’essere stata un gigantesco scontro di macchine, assurdo, inarrestabile, sempre più impersonale. Freud tuttavia aveva levato lo sguardo fino al destino globale della civiltà umana, elaborando ne “Il disagio della civiltà”,1930, il tema della violenza che poi emergerà in “Perché la guerra”.

Dura poco l’ “entre deux guerres”, vent’anni tra il 1919 e il 1939. Con lo scoppio del 2° conflitto mondiale  torna il cinema “da” guerra: i belligeranti rimettono in moto la produzione dei film di propaganda. Ma questa volta, tra tutte, sarà l’industria americana, Hollywood, a lasciare una traccia indelebile nella “forma cinema”. I “War movies” statunitensi sono capaci di fondere il realismo e la “fiction” con l’abilità ereditata dal cinema “civile” degli anni precedenti, in questo favoriti dal fatto che molti registi e attori fanno esperienza diretta dei combattimenti. Sono noti i documentari “Why we fight”, ai quali contribuiscono registi come Franck Capra, come John Ford nel Pacifico, oppure John Huston in Italia, che si vedrà censurare i suoi filmati per la loro crudezza.

S. Fuller, R. Walsh, H. Hawks, N. Ray (i futuri autori di culto dei “Cahiers du cinéma”) e lo stesso L. Milestone di “All’Ovest niente di nuovo”, e altri ancora, mettono la loro sapienza narrativa al servizio di un cinema che vuole essere epico e “storico” anche quando la guerra è ancora in corso. La vittoria degli Alleati consacra questo cinema come “autentico” cinema “di” guerra”, rendendolo in certo senso indiscutibile.

Il tema di fondo è ancora quello della fraternità di fronte alla paura, all’orrore e alla morte. Non è più la fraternizzazione claustrofobica della 1° guerra mondiale: le nuove battaglie sono in perpetuo movimento, i soldati ora usano macchine più complesse, in prima persona: sono meno operai e più tecnici. Dipendono sempre più gli uni dagli altri, e tutti insieme da altri tecnici alle loro spalle.

Il “topos” è quello del gruppo eterogeneo, dove convivono Wasp, irlandesi, italiani, ebrei, afroamericani, persino nativi-americani (non più “pellerossa”!) guidati dalla figura, destinata a diventare mitica, del sergente che fa da tramite con gli ufficiali superiori, ma cerca anche di proteggere i suoi uomini.

Il gruppo stesso incarna l’ideologia democratica: l’Altro/Nemico non è più soltanto il “barbaro” della guerra precedente, è qualcosa di più; è il Diverso Assoluto, che solo per caso può tornare umano: ma prima deve rifiutare non solo la propria Nazionalità, ma anche la propria disumana ideologia. Questo, in Europa; nel Pacifico, la diversità è percepibile per ragioni “razziali” e i giapponesi spesso passano da “musi gialli” a “scimmie gialle”, diventano animali, da sterminare senza rimorsi.

Per motivi analoghi, l’idealizzazione prende strade diverse: per i combattenti,i comandanti sono psicologicamente più vicini, ma per ciò stesso la loro incompetenza scatena una furia omicida che scivola nel crollo psicotico. Per la prima volta, il cinema di guerra ammette apertamente la presenza della malattia mentale tra i combattenti, come mostrerà il famoso comandante paranoico de “L’ammutinamento del Caine”,1954.

In compenso, per idealizzazione contraria, i capi degli “Altri” diventano dei mostri, rappresentanti del Male Assoluto, e le pareti d’acciaio delle macchine da guerra (carri armati, aerei, sottomarini) sono necessarie anche a isolare psicologicamente da un mondo esterno completamente folle e soprattutto perverso. Il cinema degli anni di guerra e del secondo dopoguerra permette, allora,  di “leggere” i processi mentali collettivi che hanno sostenuto e reso accettabili operazioni belliche (che oggi possono sembrare impensabili) come i bombardamenti a tappeto sulle città e la stessa bomba atomica.

D’altra parte, il cinema hollywoodiano, raggiungendo grandi masse di spettatori, poteva porsi come una sorta di gigantesco esorcismo della psicosi paranoide quotidianamente serpeggiante in patria, acquietando conflitti etnico/sociali potenzialmente pericolosi. Il piccolo gruppo dei combattenti persi in un territorio nemico ostile, con le proprie differenze e i relativi conflitti, raffigurava metaforicamente la più vasta realtà sociale e collettiva: poter presentare la possibile ricomposizione dell’oscillazione tra ragione e follia, significava mostrare la “cura” reale  di una temuta lacerazione sempre in agguato.

In quegli anni, affrontando con i gruppi la cura della follia latente nelle menti di combattenti traumatizzati, W. R. Bion stava portando a compimento la raccomandazione freudiana ( in “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”)  di vedere in ogni psicologia individuale una corrispondente psicologia sociale e leggeva nel profondo la loro struttura come “funzione di confine” tra mondo esterno e mondo interno,  rappresentazione di diverse aree mentali, come contenitori di tensioni/eventi altrimenti insopportabili.

Altri importanti psicoanalisti britannici (J. Bowlby, D. W. Winnicott) studiavano i danni psichici di guerra, traumi da separazione e deprivazione nei bambini allontanati dalle famiglie e dalle città. Ma non viene abbozzata una visione sistemica della guerra e del suo impatto sulla civiltà, tentativo molto impegnativo e tuttora in fieri con lo strumento psicoanalitico.

Nel cinema, reduci e traumatizzati sono presenti, ma per lo più indirettamente: nel cinema americano, le voci critiche (“Odio implacabile”,1947, “Da qui all’eternità”,1953) vengono spazzate via dall’aggressione maccartista alla libertà di espressione. In Europa, il compito viene assunto dal Neorealismo italiano, con film di grande forza come “Sciuscià”,1946, “Paisà”,1946, e, altro capolavoro di R. Rossellini, dalla vita difficile, “Germania anno zero”,1948, che inizia con un ragazzino che si aggira tra le macerie di Berlino e in seguito finisce per uccidersi disperato.

Come guardare alla guerra appena trascorsa? Un luogo speciale è occupato da due film ambientati nel 1945, del giapponese K. Ichikawa. “Fuochi nella pianura”,1959, è un’implacabile radiografia della ritirata giapponese nelle Filippine, con episodi di crudezza  a tratti insopportabile, e un finale in cui la morte del protagonista è una forma di redenzione. Di poco precedente, “L’arpa birmana”, 1956, è la storia di un reduce che si fa monaco buddista per dare sepoltura ai cadaveri abbandonati dei combattenti nella giungla. Qui la salvezza è in una visione panteista di straordinaria intensità religiosa, per la rinuncia a ogni tentativo di ricomposizione/riconciliazione individualistica.

Terrence Malick sembra avere raccolto ne “La sottile linea rossa”,1998, questa lezione da Oriente. Si può accostarvi “L’infanzia di Ivan”,1962, primo film di Tarkovskij, tragica, dolente rivisitazione antieroica della “guerra patriottica” russo-sovietica contro i tedeschi invasori. Infine,  il film di Dalton Trumbo, un perseguitato del maccartismo, “E Johnny prese il fucile”, girato solo nel 1971. Anche qui la sorte orribile di un reduce rimasto senza braccia né gambe né parte del volto si trasfigura in una lezione di pura umanità che tocca i fondamenti del bisogno di pace sulla Terra.

Intanto, però, i “War Movies” continuano, in quella sorta di indefinito dopoguerra che dura dal 1945 al 1989, anno della caduta del Muro di Berlino. L’Occidente con la sua “superiore” cultura si è reso responsabile di due guerre mondiali con oltre cento milioni di morti in cinquant’anni e di immani rovine, vero e proprio suicidio di una evoluta civiltà.

Come affrontare il lutto di aver originato una simile, quasi impensabile catastrofe? La “soluzione” si offre, anche grazie alla  nuova arma pantoclastica, la bomba nucleare, sotto forma di quella che Fornari definisce con brillante intuizione, la “elaborazione paranoica del lutto”: una Guerra “fredda” tra due blocchi con a capo U.S.A. e U.R.S.S., le potenze vincitrici della guerra precedente, ognuna delle quali rappresenta per l’altra il Nemico e, tramite l’ideologia, l’Alieno disposto a tutto per distruggere la Civiltà: beninteso la propria e solo la propria.

Il cinema di guerra ritrova una sua collocazione non nella esplicita propaganda di un tempo, ma recuperando i temi forti che abbiamo visto all’opera nella fase precedente: la fraternità “democratica” tra i cittadini/combattenti e il rapporto con i comandanti, che ora sono anche i responsabili “civili” e politici che manovrano le guerre da lontano. La Fraternità e la Fiducia idealizzata nei Capi (e nei loro valori) però non possono più essere quelle di un tempo.

I film di guerra, così, apparentemente sono riletture della vicenda bellica appena trascorsa o di qualcosa che le somiglia (la Corea, l’Indocina, i conflitti coloniali). In realtà parlano metaforicamente e allusivamente della guerra presente, la guerra totale che può scoppiare da un momento all’altro, dando origine a quel “Day after” che comincia a popolare un filone di film “distopici” esplicitamente ansiogeni.

Non si tratta di film ingenuamente “bellicosi”, anzi tra loro ve ne sono alcuni molto critici e di alto livello, per esempio quelli di R. Aldrich (“Attack – Prima linea”,1956) ma si concludono necessariamente con un Happy End, come richiesto dalle regole di Hollywood, il che implica la ricomposizione dei conflitti, l’oblio delle nefandezze, la ben nota vittoria del Bene.

Fortunatamente, non tutto il cinema è condizionato dalla “longa manus” hollywoodiana del complesso militare-industriale o, in Unione Sovietica, dalle direttive del Partito. Per esempio, J. Losey e S. Kubrick , tra la fine dei ’50 e i primi anni ’60, non certo anni facili, realizzano due film violentemente anti militaristi, che metteranno in pericolo le loro carriere. Il più noto è “Orizzonti di gloria”,1957, (S. Kubrick), durissima rappresentazione degli scontri di massa nelle trincee della Grande Guerra e della macchina repressiva dell’esercito, nel caso quello francese. Ma il film assume quasi un respiro  metafisico, per l’aspetto di tragica partita a scacchi nella quale si trovano costretti tutti gli “attori”, pur essendone al tempo stesso responsabili, come nelle scene del processo, per presunta codardia, e della inevitabile fucilazione di tre soldati scelti a caso.

Analoga vicenda in “Per il re e per la patria” di J. Losey, 1964, che attacca uno dei “totem”della società britannica, l’esercito; viene anzi inaugurata una filmografia storico-militare che svela quella incompetenza arrogante che fece dire a un contemporaneo che i soldati inglesi erano “leoni guidati da asini” ( esempio: “Gli anni spezzati”,1981, di P. Weir sui neozelandesi e australiani coinvolti nella 1° guerra mondiale).

Non è stata casuale la scelta della Grande Guerra (e non della 2°) e insieme di un contesto giudiziario/processuale da parte dei due registi. L’apparente distanza temporale fa sì che i meccanismi di distorsione della verità fattuale e i ricatti ideologico-emotivi sui quali si regge la presunta legittimità dell’impresa bellica vengano potentemente illuminati. Per l’epoca in cui sono stati girati (circa all’inizio degli anni ’60) è chiaro il collegamento implicito con il clima della Guerra Fredda, e con il ruolo dei “falchi”, nei due blocchi, per spingere al conflitto.

Di quegli anni è anche il coraggioso film di M. Monicelli “La Grande Guerra”,1959, che rompe un radicato tabù dell’epoca, tipicamente italiano, che impone di non parlare mai di “quella” guerra e ancor meno dell’esercito. Per poterlo fare, Monicelli ricorre alla commedia, sia pure con finale tragico, e viene, naturalmente, attaccato politicamente sia dalla destra sia dalla sinistra.

Solo molti anni più tardi (1971) F. Rosi realizzerà un film violentemente antimilitarista, “Uomini contro” forse metafora della crisi politica allora in atto. Quanto alla 2° guerra mondiale, in Italia bisognerà aspettare ancora altri anni prima che venga varato qualche film, preferibilmente sulla guerra nel Nordafrica, e sempre con una figura tipica: il soldatino “buono” che pensa alla mamma e alla fidanzata, questa come futura madre dei suoi figli; quasi che la maternità potesse arrestare e annullare la circolarità mortifera degli eventi bellici.

Il cerchio inesorabile che porta alla distruzione è il tema del più famoso film di S. Kubrick, “Il Dottor Stranamore, ovvero come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la Bomba”,1964, una delle più originali – e feroci – satire che il cinema abbia mai conosciuto. E’ un film che sconvolge tutti gli schemi del War Movie, con un unico filo conduttore (già sottolineato da Freud nel 1915) ovvero la stupidità esaltata dalla guerra e inesorabilmente circolante in tutti i teatri dove essa si svolge: con il finale sconvolgente delle esplosioni atomiche che distruggono il pianeta, al suono di una nostalgica canzone cara ai giovani combattenti.

Da allora, nasceranno altri film satirici sempre sullo stesso tema, l’assurdità dei regolamenti: da “Comma 22”,1970, diventato proverbiale, a “M.A.S.H.”,1970, di R. Altman, feroce satira del “buon dottore”, molto apprezzato dal pubblico americano – fino, recentemente, a quel singolare racconto fantastico che è “Mediterraneo” di R. Salvatores,1991, dove “la pattuglia perduta” di un gruppo di alpini approda al dolce-far-niente di un’isola greca e lì trova pace.

Il cinema di guerra rimane legato agli schemi della “guerra democratica” (e vittoriosa) con qualche variazione come “Il ponte sul fiume Kwai”,1957, o, anni dopo, l’inquietante “Furyo”,1983, del giapponese N. Oshima.  Irrompe però la guerra nel Vietnam, che apre una fase nuova, con i “Nam Movies”, film che non possono nascondere la crisi crescente della pretesa legittimità della guerra, persino quando sono schierati con la propaganda più vieta, come il ben noto “Berretti verdi”,1968, girato da John Wayne o l’ancor più prevedibile “We were soldiers”, fatto su misura nel 2002 per il “falco” Mel Gibson. Persino film come questi denunciano il vero e proprio collasso dei valori strutturali della “forma” esercito.

Se l’autorità è evidentemente in crisi, per incompetenza e la sua abissale distanza dalla realtà sul campo, anche la fraternità viene erosa dal generale senso di assurdità che permea il Vietnam. La sostituisce una sorta di “amicizia virile” generalizzata, forse più emotiva, ma anche più labile: infiltrata da una dolorosa nostalgia, non accettata perché segno di debolezza, diventa qualcosa di spurio tra i resti dell’adolescenza e la discesa perversa nell’alcol e nella droga.

“Il cacciatore”,1978, di M. Cimino, in cui il protagonista torna da casa nel Vietnam per salvare un amico (famosa la scena della “roulette russa”) e “Platoon” di O. Stone,1986, sono la radiografia di questa perdita epocale della coesione personale e collettiva, che non sarà mai completamente recuperata da allora, e lo si vede nel cinema di guerra attuale.

Ma il cinema del Vietnam dà anche origine a due film divenuti veri classici, non solo del genere, ma dell’arte cinematografica in generale. Sono “Apocalypse now” di F.F. Coppola,1979, e “Full metal jacket”,1987, di S. Kubrick, ultimo della sua vena antimilitarista. Il primo ha quasi movenze di leggenda, nella ricerca/risalita del fiume alla volta di un regno fantastico creato dal colonnello Kurtz, pazzo e insieme logico interprete della nuda volontà di potenza che sopravvive anche alla scomparsa della tecnologia – ma il bombardamento finale riporta a zero il gioco.

“Full metal jacket” è un  rivestimento delle pallottole: e il film è un vero “proiettile” nel corpo della guerra vietnamita e nel corpo militare simbolo della potenza bellica americana: i marines. Lo schema classico dell’addestramento, con tutti i topoi del genere, termina con l’omicidio del sergente e il suicidio della recluta traumatizzata “Palla di lardo” – ma viene fatto deflagrare nella seconda parte, dove i soldati si muovono (simbolicamente) tra le macerie di una fabbrica, alla ricerca di un micidiale tiratore che è una piccola donna vietnamita.

Compare qui la macchina fotografica: il protagonista, un “uomo qualunque”, la salva dai combattimenti e si avvia verso destinazione sconosciuta insieme a tutti gli altri. E’ la prima riflessione sul ruolo delle immagini nel “costruire” una realtà, la guerra, che in realtà è “invisibile” per quanto è di fatto “invivibile” nella sua interezza: tema destinato a emergere in pieno nelle guerre degli anni ‘2000.

Si comprende allora, dopo questa mutazione del cinema di guerra, il successo della serie “Rambo”,1982,1985,1988,(è la pronuncia di “Rainbow”, arcobaleno) con un protagonista anarco/riparatore delle sconfitte e delle rinunce, che riesce a essere il sogno di ogni preadolescente occidentale: un esercito tutto da solo! E il pubblico adulto si cala nel sogno che Hollywood ancora una volta gli confeziona.

Nel 1989, inizia il crollo dell’Unione Sovietica, “Impero del male”, come la chiama R. Reagan citando una saga bellica in gran voga, “Guerre stellari”, amabile calco, non del tutto innocuo, del War Movies in serie.

Brillano tra gli altri in quegli anni due film del francese B. Tavernier, ancora sulla Grande Guerra: “La vita e niente altro”,1989, sulla ricerca e recupero dei caduti o dispersi negli anni ’20, con la scelta (tra l’altro) di una salma di “milite ignoto” da portare all’Arco di Trionfo a Parigi; “Capitan Conan”,1996, profetico film su un militare francese  che non vuole tornare a casa, sorta di guerrigliero tra Romania e Bulgaria negli stessi anni ‘20. Il piacere di uccidere, quasi una droga, appare qui nella sua eccezionalità minacciosa, ma nei Balcani in quegli stessi anni diviene la norma.

Ma la sua rappresentazione, nel mondo cinematograficamente e televisivamente globalizzato, dilaga ovunque e diventa una normale forma di divertimento. L’illusione è che non ci saranno più guerre, almeno a Occidente, l’uccidere può impunemente essere fantasticato: illusione che, come tale, è destinata a una triste fine. Il meccanismo è scoperto da Freud, appunto, ne “L’avvenire di un’illusione”,1927, valido anche per le numerose pseudo-religioni del secolo XX°, e ora XXI°.

Una forma di religione/religiosità appare in due film singolari, “mutanti”, della fine degli anni ’90, anni in cui le guerre sono tornate a diffondersi in un pianeta dichiarato “pacifico” dall’ottimismo ufficiale. Ex Yugoslavia, Somalia, Cecenia, Guerra del Golfo, ci si domanda di nuovo “perché la guerra?”.

I due film assumono implicitamente il compito di rispondere, ma entrambi “fuggono” dalla realtà tornando alla 2° guerra mondiale – dunque parlando metaforicamente dell’oggi. Si tratta di “La sottile linea rossa”,1998, di T. Malick e di “Salvate il soldato Ryan”,1998, di S. Spielberg. Ciò che li accomuna è il tentativo di trovare, alle soglie del XXI° secolo, un senso alla guerra che non sia quello, datato, del cinema bellico precedente.

Entrambi i film si concludono con la morte del protagonista, uomo senza colpa precipitato suo malgrado nel caos della guerra, in un mondo dove la fortuna, o il destino, decidono ampiamente della sorte degli uomini. Sembrano dunque appartenere a più classico degli schemi – se non fosse per una sottile differenza che rende evidente il diverso clima culturale in cui nascono.

Nel film di Malick, la guerra nel Pacifico e la natura lussureggiante sembrano quasi equivalenti agli occhi del protagonista, un giovane soldato, istintivamente pacifico nonostante tutto: creativa e protettrice l’una, distruttiva l’altra, ma entrambe viste come forze impersonali, all’interno di una ancor più vasta vita universale, che sovrasta le piccole vite dei combattenti.

I resti della fraternità di un tempo, tramandata dalla tradizione militare, si esprimono nella solidarietà personale, individuale, degli uomini che si affrontano, talvolta con ferocia ma senza odio: così lo sguardo si posa pietoso sui propri e sugli altrui caduti, sui giapponesi, prigionieri o combattenti, anch’essi stretti nella loro parabola esistenziale. Tutti sono perdenti, anche i comandanti, portati lontano da una nave alla fine del film.

Spielberg tenta la carta, ancora una volta, di un patriottismo morale: il protagonista è un insegnante che cerca di salvare qualche regola di comportamento in una guerra che sembra svolgersi nel vuoto, per una missione che ha dell’assurdo: salvare l’ultimo dei fratelli Ryan dopo che gli altri sono morti. E’ un soldato semplice, come sottolinea il titolo originale (“private Ryan”) e la sua ricerca avviene per ragioni propagandistiche, non certo per una ragione autentica. La morte del protagonista , nel finale, dovrebbe essere una sorta di consacrazione della superiorità morale dell’esercito vittorioso, in realtà appartiene ormai a un topos del passato, e Spielberg si salva nella retorica dei reduci che visitano ancor oggi i luoghi dello sbarco in Normandia.

Troppe guerre stanno dimostrando, in tutto il pianeta, che le ragioni dei conflitti sono ormai molto lontane dagli ideali elevati, o creduti tali, delle guerre del XX° secolo. Lo hanno dimostrato gli europei, complessivamente inerti di fronte alle terribili vicende della ex Yugoslavia; la stessa guerra del Golfo ha una legittimità non del tutto evidente, dopo che per anni l’Iraq è stato “usato” per una sanguinosa guerra contro l’Iran, ampiamente trascurata dai media e dall’opinione pubblica occidentale.

Al cinema si avverte il disagio del pubblico dalla presenza di film grotteschi o surreali, come “Three Kings”, (sono i tre Re Magi) 1999, dove G. Clooney si aggira con due soci nel deserto irakeno alla caccia del tesoro di Saddam Hussein, o l’analogo “L’uomo che fissa le capre”,2009, con lo stesso attore, su improbabili nuove armi “ipnotiche”. “No man’s land” di D. Tanovič,2001, tocca le assurdità della guerra serbo-bosniaca, appunto “terra di nessuno” nonostante l’intervento delle Nazioni Unite.

La frammentazione degli eventi e del loro significato collettivo, nonostante la copertura mediatica globale, sono il dato ricorrente del cinema dei primi anni ‘2000. Paradossalmente, poco dopo l’ 11 Settembre, escono ancora film sugli insuccessi della macchina militare, corretti solo dalla dedizione dei singoli, come “Black Hawk Down” di R. Scott sulla Somalia,2001, e il particolare “K 19”, di K. Bigelow,2002,  su un sottomarino russo in avaria, che i marinai riescono a salvare evitando, col loro non riconosciuto sacrificio, una catastrofe nucleare.

La stessa Bigelow firma nel 2008 “The Hurt Locker” su un artificiere della guerra irachena che sviluppa una vera e propria passione perversa per il pericoloso mestiere, simile in questo alla donna, agente dei servizi segreti, che dà la caccia a Bin Laden in “Zero Dark Thirty” (2012), sorta di manifesto conclusivo delle vicende belliche a venire, fatte di segretezza e di piaceri psicologicamente perversi, autodistruttivi, presenti in tutti gli attori della vicenda, i “Buoni”come i “Cattivi”. I titoli in inglese di questi film sembrano il segno della incomprensibilità/intraducibilità delle vicende che raccontano, in aperto conflitto con la pretesa di visibilità che attraversa il mondo mediaticamente globalizzato.

Questo è in fondo il tema “vero” che una lettura psicoanalitica di questi “messaggi” può rivelare: il collasso della comprensibilità “autentica” che in fondo ogni essere umano si aspetta quale diritto del proprio essere in società, in cambio della “lealtà” richiesta e dovuta ai propri simili, i familiari prima di tutto. Il “vedere” qui diventa una pulsione perversa, le relazioni sono narrate e rinarrate, disperatamente, senza diventare autentiche o addirittura reali. Del resto, la guerra è diventata “The Job”. E la pace?

Clint Eastwood, anarchico individualista e sicuramente un “falco”, riesce tuttavia a comunicare, forse senza rendersene conto, l’ampiezza di questa crisi nei due film che realizza nel 2006 sulla 2° guerra mondiale: “Flags of our fathers” e “Lettere da Iwo Jima”, entrambi del 2006, campo e controcampo (visto dai giapponesi sconfitti) della sanguinosa conquista di quell’isola. Ma nel primo, buona parte del film è occupata dal “tour” propagandistico al quale sono costretti tre marines coinvolti nella famosa scena della bandiera fotografata sulla vetta del monte Suribachi, foto probabilmente costruita ad hoc. L’esperienza si rivela sempre più angosciosa, così come, dall’altra parte, avviene per un soldatino giapponese di fronte alla richiesta dei capi di suicidarsi collettivamente prima dell’arrivo degli americani.

Partiti come seguito de “il soldato Ryan” (e coprodotti da Spielberg!) i film di Eastwood divengono la funerea elegia dell’innocenza, perduta per sempre, di una democrazia americana sempre meno trasparente e “autentica”. Collettivo e individuale si fondono in uno stesso malessere, in una vera e propria sofferenza.  Le evidenti “bugie” di G.W. Bush per iniziare la guerra irachena rappresentano una macchia indelebile sulla credibilità della classe dirigente U.S.A. ma gli effetti psicologici sono profondi .

Ciò che ci rivela il cinema di guerra contemporaneo è quanto questo fenomeno si sia  inserito nella mente individuale, indipendentemente dalle scelte politiche (posto che ci siano) di ciascun “cittadino” dell’Occidente; gli slogan, le molte parole vuote sono lo “specchio oscuro” attraverso il quale occorre guardare, anche a se stessi. Non ci sono più i “garanti “ metafisici o psicosociali, di cui acutamente parla Kaӫs nei suoi ultimi libri, ma gli stessi garanti psichici della propria tenuta individuale si presentano fragili (o perversi) di fronte a eventi troppo vasti e complessi per essere compresi.

Una piccola pattuglia di registi, in presa diretta con le vicende che narrano, si incarica negli ultimi tempi di portare una luce “diversa” e divergente sulla guerra di oggi come paradigma esistenziale, con una sorta di ammonimento per tutti. Americani, europei, israeliani, sono, ciascuno a suo modo, registi ribelli privi di rispetto per la supposta “realtà” che viene loro mostrata dal filtro televisivo e mediatico, e per gli stilemi di sempre del cinema di guerra. Sono, parafrasando il titolo di un film di J. M. Straub e D. Huillet, registi ”contro” di molti anni fa, i “Non riconciliati”,1965.

Americani sono S. Mendes (“Jarehead”, “Testa quadra”, 2005), P. Haggis (“Nella valle di Elah”, 2007) e B. De Palma (“Redacted”, 2007, termine equivalente a “censurato”). Sono film dove si scopre una realtà delle due guerre irakene nascosta o sconosciuta, una tematica da sempre presente nel cinema di guerra, ma qui rivisitata in una società e un mondo non più paragonabili a nessun esempio del passato.

I primi due hanno la forma del cinema classico, “Jarehead” con la storia di un marine che passa la guerra nel deserto in una totale, degradante inerzia, e “Nella valle di Elah” (luogo della lotta tra Davide e Golia nella Bibbia) con un padre ben saldo nei suoi principi costretto, indagando sulla morte del figlio, a incontrare la realtà dei traffici criminosi creati dalla guerra, e insieme l’inarrestabile degrado dei valori del suo Paese. E’anche il tema de “L’altra verità”, 2010, del britannico Ken Loach.

A B. De Palma si deve  l’operazione più coraggiosa, che ripete quella di un suo film, “Vittime di guerra”, 1989, su un episodio di violenza e stupri in Vietnam. Il tema qui è lo stesso, il luogo è Samarra, Iraq, dove i soldati americani riescono a mascherare il loro delitto trasformando le vittime in terroristi. De Palma ricostruisce la vicenda non con una classica narrazione, ma attraverso i  numerosi, diversi documenti visivi prodotti dagli stessi combattenti, dai loro sorveglianti, dai media sempre alla ricerca di qualcosa da mostrare al pubblico. Le videocamere sono ovunque, i filmati passano immediatamente al Web, tutti sembrano vedere tutti, eppure in questa realtà caotica lo sguardo si perde.

Ne nasce il ritratto impressionante di una realtà completamente costruita e filtrata da quei mezzi audiovisivi che pretendono di assicurare la visibilità e la trasparenza di quanto avviene sul campo. E’ un attacco frontale, ineccepibile, ai mass media commerciali e alla loro capacità di creare a livello planetario una “società dei simulacri”, come avrebbe detto J. P. Baudrillard – e P. K. Dick, lo scrittore di fantascienza. Naturalmente, il film, pur essendo Leone d’Argento a Venezia, subisce un pesante ostracismo.

Tra i film europei, spiccano alcuni italiani, come “El Alamein – la linea del fuoco”, 2002, di E. Monteleone e “Le rose del deserto”, 2006, del “grande” M. Monicelli, film entrambi sulla nostra guerra in Nordafrica, vista “dal basso” e con la tonalità malinconica dovuta a una storia  tragica quanto ignorata nella sua reale portata. Ma i più originali sono forse “L’uomo che verrà”, 2009, di G.Diritti, sulla strage nazista di Montesole (Bo) nel 1943 e “Venti sigarette”,2010, di A. Amadei, su un’altra, terribile vicenda rapidamente dimenticata, quella della strage di nostri soldati a Nassiryya, Iraq, nel 2003, vissuta dal regista in prima persona.

Diritti riesce a rivolgere uno sguardo di nitida, autentica pietà sulle vittime innocenti del tragico evento, i contadini immersi in una natura “eterna”, difficile ma non nemica, dal respiro quasi sacrale; al tempo stesso è capace di mostrare i loro carnefici come uomini-macchina, dis-umani, ma non inumani come in tanti film precedenti. In tal modo, come anche in Malick, evita la rimozione difensiva che nasce da simili rievocazioni, spingendo piuttosto a cercare comunque un significato di più ampio respiro a ciò che è stata “quella guerra”, appartenente al passato, ma pur sempre presente come fantasma tuttora attivo nelle nostre menti.

Il film di Amadei ha tutta la credibilità di una vicenda vissuta in prima persona dal regista, gravemente ferito nel sanguinoso attentato, e insieme mostra lo schematismo dell’opera prima: testimonia soprattutto lo scollamento tra i piani di realtà nei quali vive il protagonista, l’evento in sé, l’interesse mediatico-politico che lo coinvolge, la vita sociale e familiare di ogni giorno. La guerra, in un paese che si ritiene e vuol essere psicologicamente periferico come l’Italia, è ancora più impensabile e manipolabile che altrove, ed è significativo che la vicenda di Nassiryya venga poi trasferita in un più innocuo “format” televisivo, e sostanzialmente dimenticata.

Ben più presente e urgente la guerra in due film israeliani, “Valzer con Bashir” (A. Folman, 2007) e “Lebanon” (S. Maoz, 2009). Quest’ultimo ripropone una storia-modello apparsa spesso nei film bellici, l’ultimo dei quali, un singolare film americano del 1988, “Belva di guerra” (K. Reynolds) si riferiva a un carro armato sovietico nella guerra afghana – e venne girato in Israele!

Solo che l’equipaggio del Tank di “Lebanon”, in partenza per un’incursione in Libano, è fatto di giovani reclute, tecnicamente poco competenti e soprattutto psicologicamente travolte dal rapporto con un mondo sconosciuto e terribilmente ostile. Dovranno entrare in contatto sia con i falangisti sia con guerriglieri palestinesi, in un crescendo di confusione e ambiguità (assenti o lontani i comandanti israeliani) che porterà il gruppo a una sorta di crisi psicotica claustrofobica. Nel significativo finale aperto, il carro armato è immobile in un vasto campo di girasoli, fotografia di uno stallo della pensabilità della guerra, certo in quel contesto, forse più in generale.

Molto originale la struttura di “Valzer con Bashir”, nato direttamente dalle angosce e dai sogni del regista, che ce li rappresenta visivamente mentre cerca di ricostruire i propri ricordi, perduti, della guerra in Libano del 1982. Le interviste (reali) con alcuni commilitoni lo inducono a passare dal documentario alla ‘fiction’, nella forma particolare del film di animazione, di tipo realistico, con cui riproduce l’esperienza da lui vissuta. Scoprirà di avere assistito ai massacri indiscriminati nei campi palestinesi, attuati dai falangisti cristiani per vendicare il loro capo, il Bashir (Gemayel) del titolo, senza che fossero fermati da nessuno.

“Valzer con Bashir” si trasforma in un’altissima meditazione sulla colpa, presente nel profondo anche in chi combatte per la sopravvivenza del proprio paese, elemento questo che in fondo emerge raramente, almeno in tutta evidenza, nella lunga storia del cinema di guerra.

Si può concludere (provvisoriamente) questo percorso, certo non esauriente, con due film a loro modo “paralleli”. Il primo, “Buried” (“sepolto”) del 2010, è girato in Europa da uno spagnolo, R. Cortès, e ha un unico protagonista. E’ un camionista americano, uno dei tanti reclutati per lavorare in Iraq a fianco delle truppe. E’ stato sepolto nel deserto, in una bara, con pochi oggetti tra cui un cellulare, da terroristi senza volto che lo spingono a telefonare a chi, secondo loro, pagherebbe un riscatto per la sua vita.

La vita dello sventurato non interessa realmente a nessuno, nonostante i suoi appelli ripetuti e disperati. La bara si riempie di sabbia, e all’ultimo istante, mentre sembra prossimo l’”Happy End”, si scopre che l’hanno scambiato per un altro. Finale atroce di una vicenda surreale, che lascia il dubbio che possa essere stata vera, come del resto sono state analoghe altre storie di ostaggi in quel periodo – e tuttora.

La bara piena di sabbia potrebbe rappresentare allora, metaforicamente, la mente dello spettatore-tipo, soffocata da messaggi inconsistenti e tendenzialmente fasulli, che rinviano a realtà troppo lontane per essere comprensibili, e a interessi politico-militari, e soprattutto economici, che devono restare intoccabili.

Se “Buried” è estremo-surreale, l’altro film bellico con cui si può concludere è apertamente grottesco e interamente pervaso di fantasie cinematografiche/cinefile. E’ il noto “Unglourios Basterds” (traducibile circa con “Brutti bastardi senza gloria”) di Q. Tarantino, 2012, una “ucronia” nella quale un commando di spietati combattenti ebrei sbarca nell’Europa occupata dai Nazisti per vendicare la propria gente.

Con uno stile che ricorda “La guerra lampo dei fratelli Marx”, Tarantino rivisita tutti i luoghi, o le gag,  più prevedibili dei film di guerra, di spionaggio, persino di gangster: quasi a dire  che nel cinema tutto è possibile, basta liberarsi dagli schemi. Nel sottofinale, un cinema di Parigi dove è riunita l’élite del III° Reich salta gloriosamente per aria, mentre nel finale al colonnello nazista, traditore, che ottiene così di trasferirsi negli Stati Uniti ciò viene permesso – ma prima gli viene incisa sulla fronte una svastica. Come dire che è meglio stare in guardia nei confronti di chi indossa una divisa o si mostra troppo falsamente “patriottico” ricucendosi addosso una nuova veste.

Il dato comune ai due film sembra essere il rifiuto di quell’effetto della guerra che denunciava Freud durante la I° guerra mondiale, la stupidità individuale e collettiva nutrita dalla fiducia nelle “magnifiche sorti, e progressive” promesse dalle élites al potere con il pretesto di un Nemico più o meno reale, di un Barbaro che preme alle porte della Città Ideale.

Potrebbe essere questa, in sintesi, la conclusione di una rilettura critica del cinema di guerra e delle sue manifestazioni attuali. La “vera” guerra in atto, come insegna la psicoanalisi, è una guerra per la libertà mentale ed emotiva messa in pericolo da una “Civiltà” molto cambiata, almeno in apparenza, da quella di cui parlava Freud. Non più repressiva, ma sempre più permissiva, dinamica, promettente. Poi, deludente.

La storia delle guerre, anche quelle cinematografiche, insegna che la guerra, all’inizio, spesso è “bella” esteticamente, e molti sono affascinati da questo aspetto. Poi le cose cambiano, e la bellezza svanisce tra sofferenze e colpe non sempre elaborabili. Anche questo, il cinema migliore ha saputo insegnarlo, o meglio farlo vivere a tanti come esperienza prossima al reale.

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