Dossier
Intervista a Lucia Correale
6/03/12
Trudi Verticchio
Lucia Correale è nata il 13 settembre del 1960 a Napoli, dove si è laureata in lettere moderne. Vive a Roma da circa trent’anni e fa la giornalista: per molti anni nella carta stampata, attualmente autrice di testi per la rubrica
televisiva della RAI “Sorgente di vita”, quindicinale di cultura e vita ebraica. Da trenta anni è sposata con
Fabio, ha tre figli Chiara, Simone e Camilla.
Dai fatti di cronaca emerge un’immagine di maternità conflittuale.
Sicuramente è sempre stata presente nell’immaginario perché è depositata nel mito, come a segnalare un tema col quale comunque la donna fa i conti. Il tema della maternità e delle sue ambivalenze è tema scottante.
E’ difficile trovare un equilibrio fra il proprio esser donna e la maternità
È faticoso: perché una volta che hai cominciato a conquistarti uno straccetto di consapevolezza di te come essere umano femminile, cioè donna, a me è successo intorno ai vent’anni, poi ti imbatti nel desiderio di cosiddetta
maternità. La parola maternità mi risulta un po’ indigesta, direi piuttosto: decidere di avere un figlio. Perché di decisione si tratta: non me lo sentivo come destino, scontato, come poteva essere per la generazione di mia madre. Non
era neanche amore per i pargoli, all’epoca oggetti del tutto sconosciuti; non c’entrava niente la riproduzione o l’orologio biologico. Era proprio un desiderio, fortissimo e condiviso, di avere un figlio dal mio compagno, proprio da lui e nessun altro.
E’ stato faticoso anche scrollarsi di dosso tutta quella retorica dell’istinto materno, che ancora oggi mi fa rabbrividire, e che da adolescente negli anni Settanta avevo fortemente contestato, ma che, poi mi sono accorta, mi era un po’ rimasta nella pelle.
Come ha vissuto il pensiero di divenire madre, ad esempio rispetto ai cambiamenti nel corpo o al tema della
sessualità? Ricorda come ha attraversato questo momento così intimo e conflittuale? Vi sono state differenze tra la prima e l’ultima gravidanza rispetto alla conflittualità?
Con grande… curiosità per i cambiamenti del mio corpo e, lo confesso, con un pizzico di orgoglio nello scoprire dentro di me un meccanismo biologico che funzionava perfettamente. Mi sentivo amata, bellissima, privilegiata dalla naturalezza e
facilità della gravidanza. Forse un tantino troppo “unica donna al mondo capace di generare”, ma questa componente si è attenuata nelle gravidanze successive.
Nella altre gravidanze mi sentivo, infatti, con i piedi più piantati per terra, abbracciavo i cambiamenti e i chili
che mi fioccavano addosso e, una volta raccolta e vinta la sfida del parto naturale, che ho fortemente inseguito e avuto, per le gravidanze successive ero più tranquilla. Quello che dovevo dimostrare a me stessa, la capacità di
partorire, l’avevo già dimostrato…Questo è stato un aspetto curioso: un desiderio forsennato di parto naturale,
una sorta richiamo ancestrale che non avevo messo in conto. Quasi una fissazione, come del resto anche la
nevrosi da allattamento. Pur essendo, o almeno sentendomi, come dire, una donna emancipata all’alba del terzo millennio, mi sentivo zavorrata da reperti ottocenteschi… un vero guazzabuglio di sensazioni.
Per il resto mi godevo gravidanza e chili di troppo senza fare tante storie. Sperando con tutta l’anima di
rientrare un giorno nei ranghi della mia taglia.
La sessualità è sempre stata ancora più dolce, tenera, ma soprattutto direi “complice”.
Quella della maternità è un’esperienza forte. Ti si dice che sei fatta per questo e se invece non ti
senti preparata? Può raccontarci come ha vissuto la sua scelta di maternità, se ha sentito che c’era un cambiamento generazionale rispetto a sua madre?
Come ho già detto rifiutavo in blocco “quel” tipo di maternità scontata e ineluttabile, del tipo da che mondo è mondo. No, questo era il mio modo di sentire, il mio desiderio, il mio senso del figlio: desiderato, programmato – ebbene si, in base a precise sequenze lavorative della mia vita – e avuto subito, quando ho smesso di usare sistemi di contraccezione. Insomma mi sentivo, ero, ed ero orgogliosa di esserlo, padrona della mia scelta.
La maternità spesso richiede cambiamenti nei rapporti di lavoro e sociali. Quali le difficoltà personali e
sociali? Quali cambiamenti? Sente necessaria una riflessione sulla differenza, che non sia una “diminutio”?
Certo, i mesi di maternità, moltiplicati per tre gravidanze, influiscono sulla carriera e sugli scatti di stipendio, ma ho sempre continuato a lavorare, bene, e qualche volta mi è sembrato di leggere degli atteggiamenti di alcuni
colleghi maschi, una nota di velata ammirazione. E poi, lo confesso, non vedevo l’ora di tornare in redazione dopo la maternità, e pazienza se quasi tutto il mio stipendio veniva girato a colf e babysitter. Questo era in
conto. Una scelta implica qualche rinuncia, ma mai “la” rinuncia.
Il vissuto della madre col suo bimbo è anche isolamento e solitudine. Quali secondo lei i problemi connessi a questi stati d’animo?
Travolta dalla tempesta ormonale di post parto e allattamento, e dallo tsunami di una nascita , mi sono sentita spesso
inadeguata, incapace, spesso insofferente. Ecco, inadeguata mi sembra la parola riassuntiva del mio stato d’animo predominante da neo mamma.
Il tutto amplificato dalla solitudine a cui ti condanna spesso il primo figlio, a cui dedichi un’attenzione esclusiva quando non spasmodica.
E poi, nella penombra di una casa, d’estate, non sempre riesci a sentire la musica della maternità ( sì certo, quella che avevo contestato, ma che mi agiva ancora sotto la pelle) piuttosto la fatica, il sentirsi tagliati fuori, la
solitudine, sociale, ma anche esistenziale che ti assale quando ti rendi conto che allatti, cambi pannolini, culli, ma forse non sai comunicare col tuo bambino. O addirittura non sai volergli bene. Non ancora.
Nella religione ebraica si nasce ebrei solo se figli di madre ebrea. Come ha vissuto questo particolare
aspetto? Questo importante investimento le ha reso più esaltante o più difficile il diventare madre?
Ho vissuto con una grande gioia e quasi un senso di privilegio il fatto di trasmettere ai miei figli l’appartenenza al
popolo ebraico: consegnare loro un bagaglio identitario così ricco e forse anche un po’ pesante. Ma non credo che
abbia influito direttamente sulla cosiddetta maternità, forse di più sull’idea di famiglia, sul concetto di educazione, di esempio continuo, di osservanza di regole e feste ebraiche. Del resto la trasmissione dell’ebraismo per via
matrilineare è solo un primo passo nella costruzione dell’identità ebraica. Il resto lo fa la vita familiare. E lo studio.
Il tentativo di genocidio nei confronti degli ebrei pone interrogativi forti a tutto il genere umano
perché è un attacco alla possibilità di ricreare la vita. Quale è stato il suo vissuto rispetto a questo, visto che lei è stata anche ferita insieme a suo marito nell’attentato alla sinagoga di Roma il 9 ottobre 1982 mentre li si
celebrava una festività ebraica in cui è prevista la “benedizione dei bambini”?
Nell’ambito del mio lavoro ho visionato ore e ore di documentari d’epoca riguardanti gli anni delle persecuzioni antiebraiche in Europa. Resta un buco nero, di cui è difficile parlare da un punto di vista personale. Un buco…
Ho fatto grande fatica, e delegato vigliaccamente ad una nonna narratrice per mestiere e per amore, l’approccio
con la storia ebraica del ‘900.
Raccontare ai miei figli la Shoah, no, non ce l’avrei fatta. In un secondo momento, poi, con figli già più o meno informati, allora sì, ne ho parlato e ne parlo. Ma pur considerando unica e gigantesca l’importanza che la Shoah ha
nella storia del ‘900 e dell’Ebraismo, non credo che sia un aspetto fondante dell’identità ebraica.
Altro argomento, è il vissuto personale dell’attentato alla sinagoga di Roma: per quello ho fatto i conti, faticosamente, con l’odio cieco e assassino, senza mai dimenticare il bimbo di due anni, Stefano Tachè Gaj ucciso per il solo fatto di essere ebreo. Di nuovo.
Ma poi, ho sempre portato i miei figli in sinagoga, fin da piccolissimi, qualche volta ho avuto un po’ paura, nei periodi di allarme più elevato, ma questo non mi ha mai impedito di sentirmi libera ed orgogliosa della nostra appartenenza.
Si è interrogata su quali possano essere le difficoltà di un uomo che diviene padre?
Si: sentirsi, almeno nella fase della gravidanza, parto e allattamento, in una posizione “collaterale”: ma il fatto di assistere al parto, di entrare in sala parto, secondo me, già stempera un po’ questa presunta o reale collateralità. Per contro, vogliamo parlare dei meccanismi di fuga dei padri, quegli stessi meccanismi che anche le madri, io per prima, vagheggiano? Ma la madre i meccanismi di fuga li censura o li gestisce, mentre il padre, che va a lavorare, li può mettere in pratica.
Beato lui…
Non è facile per l’uomo capire cosa affronti la donna nella maternità, ma è anche necessario. Che tipo
di equilibri di potere può immaginare all’interno della coppia? E nella decisione di maternità, come viene
condiviso l’essere genitori oggi?
Per un attimo ho pensato che l’unica cosa che non avrei potuto condividere fino in fondo col mio compagno fosse la gravidanza, il parto e l’allattamento, che invece nella mia testa erano “la” condivisione per eccellenza. Forse un
uomo fa fatica a capire… ma una volta non si parlava di mistero della maternità?
E’ ancora fondamentale oggi secondo lei per una donna l’esperienza della maternità e in che senso? Le nuove
madri che donne sono? C’è una differenza nel modo in cui oggi le ragazze vivono il proprio corpo, la sessualità, la maternità?
La maternità, o avere figli, è senza dubbio la “madre” di tutte le esperienze di una vita … per chi lo desidera, non per tutte. E’ questo, secondo me, il segno di un cambiamento epocale, che credo sia in atto.. Chi lo vuole e soprattutto quando lo vuole, sceglie, sceglie e sceglie, di diventare madre. Lo spartiacque è qui: nella possibilità di scegliere o di non scegliere. Senza che questo significhi una diminutio per chi non parte per fare questo viaggio:meraviglioso e spaventoso.
Marzo 2012