Dossier

Cinema e maternità psichica. I “cattivi pensieri” delle madri: gravidanza, aborto, maternità.

6/03/12

Gabriella Giustino

Credo che un contributo che il cinema può dare anche a noi analisti consista nell’aiutarci a comprendere condizioni mentali molto distanti, perturbanti e “straniere” per noi.

Nel recente film di A. Capone (2007) presentato fuori concorso a Cannes ed intitolato “Amore nascosto”, un’insuperabile Isabelle Huppert interpreta il ruolo di  Danielle
una donna fredda e priva di alcuna capacità di contatto emotivo che sposa un
uomo ( il primo che le capita d’incontrare) e fa una figlia con lui. Il film  è tratto dal romanzo di Danielle Girard intitolato ” Madre e ossa”.

Nel progetto di avere una gravidanza non c’è in Danielle alcun desiderio di
maternità ma una sorta di ricerca conformistica di normalità e soprattutto il
bisogno di accondiscendere il marito (che la protagonista silenziosamente
disprezza). Il film mette in scena, in modo acuto ed intuitivo,  il vissuto
privo di qualsiasi emozione di questa donna che vive la maternità, il parto e
poi la nascita della bambina in modo totalmente anaffettivo.

La protagonista non ha uno spazio mentale per questa figlia ma solo corporeo, l’utero.

Appena Sophie nasce e si separa da lei, Danielle si sorprende subito invidiosa e gelosa della figlia. Questa rabbia per il valore e la vitalità della figlia cresce di anno in anno e la madre stabilirà con lei un terribile rapporto sado-masochistico. Quando la figlia è ormai adulta ed è diventata a sua volta madre di una bambina, Danielle verrà ricoverata  (dopo il terzo tentativo di suicidio) mentre  Sophie, invasa dalla follia della madre,  finirà infine per uccidersi.  Nell’intento suicidario  la figlia vuole da una parte liberare la madre dall’ossessione folle; dall’altra, avendo lei stessa una bambina, vuole
(illusoriamente) proteggere anche la propria figlia da un’eventuale ripetizione del trauma.

La scena del parto, in particolare, descrive magistralmente la modalità di vivere questo momento. La protagonista
vive la figlia in gestazione  come un alieno che invade il corpo deformandolo mentre dopo il parto la pancia vuota
evoca il senso di depressione e svuotamento .

Cristina  e Francesca Comencini  si sono occupate in modo straordinariamente intuitivo ed acuto della maternità considerata come evento interiore che  rappresenta per la donna un momento di crisi
ma anche un ‘ “opportunità” per riorganizzare la propria vita  emotiva. Spesso la riparazione del mondo
interno, necessaria per queste donne,  comporta  una comprensione transgenerazionale della maternità.

Nel recentissimo
film intitolato “Quando la notte” (2011),
Cristina Comencini si  è occupata
della negazione dell’ambivalenza della madre nei confronti del figlio .

Il film racconta di una giovane neo-madre alle prese con le richieste
performative di un marito che la “spedisce” in montagna da sola col figlio  di due anni. Lei è smarrita, visibilmente
impaurita dalle richieste del figlio che ama ma che, in parte, non sa come
contenere emotivamente. Una maternità apparentemente “normale” come la società
si aspetta che sia, che debba essere. Eppure, la protagonista è angosciata,
sola;  il bambino piange e lei si sente
colpevole e claustrofobica,  soprattutto
quando la notte… il figlio strilla e non dorme.

Al piano sottostante la sua casa isolata di montagna vive   un omone che ha subito l’abbandono
traumatico di una madre che ha preferito l’amore passionale ai figli. Anche lui
solo, pieno di rabbia, vigila  in segreto
sulla coppia madre-figlio.

Fino a  quando,  in una notte di pioggia,  egli sente il solito pianto del bimbo e poi
un rumore sordo, un tonfo, seguito da un silenzio innaturale. Con l’intuito di
chi “sa” corre a suonare alla porta e trova il bimbo con la testa rotta,
sanguinante, la madre svenuta.

Capisce tutto. Per entrare ha dovuto sfondare la porta. Il ricordo di Cogne
incombe nella mente dello spettatore. Ma lui, l’omone guida alpina, dopo aver
salvato madre e figlio,  li porta in alto
nel rifugio dove è nato: è lì che questa madre potrà fare  un percorso di consapevolezza. Sarà aiutata
da uno dei fratelli dell’alpino ma soprattutto dalla cognata che ha tre
bambini. Le due donne si parlano, condividono la fatica e l’ambivalenza che è
insita nel crescere un bimbo; la protagonista per la prima volta si sente
capita e si chiede: perché nessuno me lo aveva detto prima? Perché la maternità
è così idealizzata dalla società che nega la normale ambivalenza della donna?

La donna del rifugio ha un marito che non ha dato  per scontato nulla (anche lui sa cos’è
l’abbandono) e ha vigilato sulla sua donna in maternità, è stato al suo fianco,
pronto ad aiutare nei momenti difficili.

La protagonista, invece,  è sola col
suo “male” dentro che non accetta e non la fa sentire “normale”.

Nel film “Lo
spazio bianco” (2009), tratto dal romanzo omonimo di Valeria Parrella),
Francesca Comencini trasmette il senso d’attesa e d’impazienza che esprime la
protagonista.

Il film è ambientato in una città difficile Napoli, cariata come un dente
malsano, ma al contempo bellissima e piena d’umanità dolente.

Maria, la protagonista, è “dentro la città”, impegnata nell’insegnamento
serale dei più sfortunati e lo fa con passione e serietà.

La sua vita sentimentale però sembra molto complessa.

Ha appena lasciato un uomo che l’amava e, quando lo rincontra, dopo qualche
tempo, evita di commentare la foto del figlio di lui

(avuto da un’altra donna), come se volesse negarlo.

Maria s’innamora poi di un papà che cresce da solo il proprio figlio, ma
quando è lei ad aspettare una bimba, lui l’abbandona.

Resta sola, ma in attesa  di che
cosa? Maria non lo sa veramente,  sembra
vivere la gravidanza come qualcosa d’infantile, con  fierezza e notevole inconsapevolezza.

Quando arrivano le dolenti note di una nascita prematura a rischio, compare
in lei

un’ attesa impaziente che  non può
risolversi con un atto volitivo ma che comporta invece  lo sviluppo di uno spazio mentale per una
figlia ancora non nata, né viva né morta.

L’incubatrice che  protegge e fa
crescere Irene è uno spazio per la bimba ma anche e soprattutto uno
spazio-tempo per la madre. In questa sospensione tra la vita e la morte della
sua piccola, Maria  impara ad aspettare,
a tollerare i suoi sentimenti d’ambivalenza, ad ascoltare gli altri nelle loro
miserie umane e a non pretendere che la vita sia sempre dominabile dai propri
intenti. Lei, così  abituata
all’autosufficienza, deve ora tollerare di dipendere dal corpicino d’Irene, che
appare sfocato ai suoi occhi ansiosi.
Maria è intensamente desiderosa di vederla viva ma talvolta, pur di
porre fine allo strazio dell’attesa, sembra sperare che la bimba non ce la
faccia.

Nella nostra società sono sempre più frequenti  le nuove maternità: padri senza madri e madri
senza padri.

A mio avviso quello che conta veramente è lo sviluppo di uno spazio
psichico idoneo per accogliere un figlio mentre talvolta si pensa solo a
predisporre uno spazio concreto. Frequentemente nei nostri pazienti vediamo che
quello che è mancato (nella relazione con i propri genitori): è  stata questa disponibilità ad accogliere
mentalmente, a saper attendere senza troppe aspettative precostituite, a
prepararsi a fare il lutto di una relazione col figlio che, inevitabilmente,
non sarà un idillio perfetto.

Maria sembra trovarsi in una sorta d’incubatrice mentale insieme ad Irene e
impara  faticosamente ad aspettare senza
uccidere la speranza dentro di sé.

In lingua spagnola  aspettare si
dice  “esperar”, sperare. Un compito difficile che comporta
la necessità di elaborare anche  il lutto
di una tecnologia solo apparentemente onnipotente.

La piccola che infine la protagonista stringe tra le braccia è finalmente
“sua” figlia.  Maria ha imparato ad
amarla-odiarla tra mille incertezze; all’inizio Irene per lei era solo un rospo
nerastro sfocato, poi man mano era diventata una  bimba viva e intera.

La protagonista ha imparato che nella vita bisogna amare la relazione con
l’oggetto caduco, che, nella sua umana imperfezione, da un momento all’altro ci
può teoricamente lasciare o  deludere,
che può non corrispondere a nostre aspettative precostituite, ma che possiamo
stringere a noi con gioia perché è vivo, dipende da noi e vuole crescere.

Il figlio, dunque, come potenzialità di sviluppo che ci permette di
tollerare meglio i limiti imposti dalla realtà.

E’ il senso del limite che  Maria
impara a tollerare, anche  il limite
dell’esistenza di tutti noi, talvolta appesa ad un filo, come per Irene, ma
così misteriosamente sorprendente e capace di darci momenti d’intensa felicità.

Nel film “La
Bestia nel cuore”  Cristina Comencini
(2005) mostra come la gravidanza può riattivare nella donna un percorso
interiore che la rimette in contatto con i traumi infantili (nel caso del film
un abuso grave) che hanno segnato il suo sviluppo femminile.

Sabina è una giovane donna dolce e un po’ troppo remissiva che ha
rinunciato al sogno di fare l’attrice e lavora come doppiatrice. Convive con
Franco, anch’egli attore frustrato che
non rinuncia però a provarci, sebbene con scarsi risultati. Accade così
che la protagonista, donna tenera e propensa ad adattarsi, si sobbarca il
mantenimento dei due in nome della coppia e del loro amore.

Sabina tollera con dolcezza e pazienza (cosa che emerge ancora meglio
dall’omonimo romanzo) anche le sfuriate caratteriali di Franco; anche nei
rapporti sessuali con lui, che sembrano appagarla profondamente,  si nota una sorprendente arrendevolezza,
lievemente eccessiva. Franco  da un lato
l’ama e la ammira per questa sua dolcezza, dall’altro segretamente è irritato
con lei perché la sente più capace di lui di controllarsi. Questo particolare
del carattere arrendevole di Sabina (il ratto delle Sabine risuona in noi) è
molto importante perché come vedremo è il primo sintomo della dissociazione  come difesa dal trauma. Vi è nella
protagonista una sorta di calma e di passività, di rassegnazione verso gli
eventi sfavorevoli della vita che fa pensare a qualcosa che viene negato, messo
da parte, segregato. Dov’ è l’aggressività normale di questa donna? (si chiede
lo spettatore),   la sua capacità di
difendersi, di reagire? Dov’ è la rabbia per le frustrazioni?

Quando Sabina aspetta un bambino, la
gravidanza attiva in lei
l’emergere (soprattutto nei sogni) di memorie traumatiche infantili.
Come vedremo poi,  una ricostruzione del
grave trauma infantile s’imporrà per permetterle di vivere appieno le proprie
emozioni e la propria identità.

Sabina ha  bisogno di uno spazio
psichico per un figlio e perciò deve elaborare definitivamente le angosce
relative al trauma dissociato.

Infatti è proprio a questo punto che cominciano a comparire sogni connotati
da frammenti fortemente angoscianti riguardanti il padre e che alludono a
“qualcosa di troppo intimo” avvenuto con lui. Sabina si risveglia angosciata:
una parte di lei ha una sorta di consapevolezza inconscia (“un conosciuto non
pensato”) dell’accaduto; un’altra parte non comprende, è perplessa, non sa di
sapere. I dubbi la pervadono ed è per questo che decide di partire per
l’America ed incontrare l’amato fratello Daniele che non vede da molti anni.

Ora Sabina sa di aspettare un bambino ma non rivela nulla a Franco: prima
deve capire, sistemare dentro di sé una storia che preme per essere ricordata
soprattutto attraverso i dettagli angoscianti del sogno.

Recentemente ho scritto
sull’International Journal of Psychoanalysis un lavoro sul tema della memoria traumatica nel sogno.

Vi sono alcuni sogni che, come uno scrigno, conservano intatta la memoria
del trauma infantile rimosso o dissociato e che vanno a completare le lacune
della storia della persona.

Esiste un’ampia letteratura sul collegamento tra sogni e memoria del trauma
e vi sono anche importanti evidenze neuroscientifiche che spiegano tale
meccanismo. Si tratta comunque di un fenomeno intuitivo nella vita delle
persone  perché, quando Sabina (in
America) rivela di aver fatto dei sogni strani e angoscianti riguardanti il
padre al fratello,  questi subito si
allarma. Daniele, testimone e vittima “vedente” della pedofilia incestuosa del
padre, le chiede ansioso: “cos’hai sognato?” e poi le dice: “dimentica, sono
solo sogni”. Daniele “sa”  ma tenta di
proteggere la sorella dal dolore. Nel romanzo il fratello dice: “dimentica
sogni e morti” mentre Sabina continua a chiedersi: “perché ha detto così? i
morti va bene vanno dimenticati, ma i sogni sono dei vivi, perché dimenticarli
e non cercare di capirli?”

Emilia l’amica d’infanzia, che poi crescendo era diventata cieca (ed era
segretamente innamorata di Sabina), rappresenta una parte di lei che nega e
dissocia; Daniele invece è la parte che vede ma che tenta invano di proteggerla
dal trauma (che lui stesso ha subito con disastrose conseguenze). Mi chiedo se
si può eludere il trauma per sempre:  si
può non rielaborarlo mai per non soffrire? Forse si, ma il film suggerisce che
per crescere, maturare e vivere con pienezza la propria identità di madre e di
donna, Sabina non può non farlo, deve attraversare questo mare in tempesta
doloroso ed incredibilmente sconvolgente per riemergere e diventare un’altra donna.
Naturalmente il ruolo della gravidanza della protagonista è cruciale.
Infatti,  da un lato stimola
inconsapevolmente e riattiva il trauma sessuale col padre favorendo una
trasformazione emotiva dell’approccio alle figure maschili; dall’altro riporta  in primo piano la relazione di Sabina con la
madre. Una donna depressa ed infantile che non ha saputo proteggere i figli
colludendo col padre,  inducendoli al
silenzio e al segreto (conscio per Daniele, inconsapevole per Sabina).

Ho ribattezzato
“Un posto per l’altro…”, citando un noto lavoro di Giuseppe Di Chiara, il  film “L’Enfant” dei Fratelli Dardenne ( Palma
d’oro al festival di Cannes nel 2005). Il film ripropone il tema della
maternità  interiore da un altro
interessante punto di vista.

Durante  la visione del film lo
spettatore empatizza  per le sorti di
questo  fagottino appena nato, Jimmy, che
viene sballottato tra mille pericoli da una coppia di genitori-bambini che non
sono preparati a proteggerlo ed accudirlo.

Quello che emerge in modo molto evidente è che la capacità  di sviluppare un posto mentale per il figlio
non è solo una questione che riguarda il sesso femminile.

In questo film Sonia, la mamma, per quanto impreparata e prematuramente
esposta a  competenze emotive più grandi
di lei, sembra avere una sorta d’innato, istintivo senso della maternità.

In questo caso è il padre che non ha alcun posto interiore  per
accogliere il figlio, al punto che (nella sua caotica delinquenzialità
adolescenziale) il bimbo stesso diventa una cosa, una merce da vendere.

Nel protagonista è evidente lo stato di disumanizzazione  sostenuto dal senso d’onnipotenza ( legato
all’età e alla condizione sociale).

Tralasciando l’elevato significato sociologico del film, mi vorrei
concentrare su alcuni aspetti psicologici.

Sonia, mamma-bambina innamorata del suo Bruno, mostra un’evidente
immaturità per il compito ma (in modo inconsapevole) sembra anche  pronta per sviluppare un buon un attaccamento
col figlio.  Molte madri più adulte  non sarebbero
così istintivamente propense alla maternità.

John Bowlby, osservando il comportamento etologicamente predeterminato di
alcune specie animali, aveva esteso alla specie umana l’ubiquitarietà
dell’attaccamento che è una potenzialità bidirezionale dal figlio alla madre e
viceversa. Poiché nell’umano le cose sono infinitamente più complicate,  l’Autore aveva poi classificato vari tipi
d’attaccamento sulla base della qualità della relazione madre-bambino.

Possiamo dire che Sonia, pur nella precarietà del contesto, sia (come
diceva Winnicott) una madre destinata a diventare sufficientemente buona.

La capacità biologica di procreare compare molto presto nella specie umana
ma, potremmo chiederci, corrisponde sempre alla presenza di uno spazio
interiore per un bimbo? La questione appare complicata perché anche se Sonia
(sullo sfondo di degrado sociale del film) accudisce teneramente il piccolo
come può, sembra non percepire abbastanza il segnale di pericolo che viene da
Bruno. La sua ingenuità infantile la porta a sottovalutare il rischio e il suo
amore adolescenziale per il compagno non le consente di difendersi  dall’immaturità maniacale e onnipotente di
lui. L’idillio narcisistico a due di Sonia e Bruno  non permette lo sviluppo un posto per un
terzo. A Bruno manca la capacità di tollerare il dolore e la frustrazione. Solo
in carcere egli riuscirà ad umanizzarsi e ad
esprimere piangendo  la colpa per
i suoi agiti delinquenziali:

la manifestazione  della colpa  rende possibile una riparazione.

Diverse sono le lacrime della cammella (nel film “La storia del cammello
che piange”)  che ha partorito con
immenso dolore un piccolo albino. La madre
rifiuta (perché piena di risentimento) la ricerca d’attaccamento del
piccolo cammello che rischia di morire di fame. La mamma-cammello associa il piccolo
albino al dolore del parto e finché non riesce a piangere (grazie ad un
escamotage degli uomini che ne hanno cura) non riesce a dargli il latte.
Naturalmente gli animali non sono consapevoli e questa è solo una metafora. Ma,
a mio parere,  possiamo trovare dei
collegamenti  con la storia di Bruno e
Sonia.

La protagonista afferma che quando il piccolo Jimmy è uscito dalla sua
pancia non le ha fatto male. Chissà,
forse anche questo ha aiutato la madre-bambina ad attutire l’inevitabile
ambivalenza verso il piccolo così precocemente concepito. Per Bruno la storia è
diversa. A me pare che lui non abbia minimamente elaborato

il risentimento verso una società ingiusta che non lo ha premiato e
l’invidia per le ricchezze altrui.

Egli sosta in una posizione rivendicativa
e maniacale che solo col pentimento, la colpa (e la riparazione che ne
consegue) riesce a superare. Forse allora
Jimmy potrà trovare un posto, magari non molto comodo, nella mente del
padre.