Premio Musatti – Roma, 25 novembre 2018
Discorso di ringraziamento di Vittorio Lingiardi alla Società Psicoanalitica Italiana
Era il 1978 quando comprai il Trattato di Psicoanalisi di Cesare Musatti. Avevo 18 anni, la Boringhieri era blu e l’Italia era un altro pianeta. Ricevere oggi un premio che porta il suo nome mi commuove e mi rende felice. La prima parola è dunque grazie. Grazie alla vostra Presidente, all’Esecutivo e a voi tutti che in questo modo riconoscete il mio impegno e la mia passione per la psicoanalisi. Per me è un onore. In tutti questi anni la SPI, soprattutto nei centri di Milano e Roma (è uno dei vantaggi della mia bigamia metropolitana), è stata una comunità di amici e colleghi con cui brindare, scambiare idee e discutere, anche in modo animato. Ho parlato ai vostri convegni, ho scritto per le vostre riviste, abbiamo presentato insieme i vostri libri e i miei, abbiamo condiviso le delicate considerazioni attorno all’invio di un paziente o di un analizzando. Insomma da almeno vent’anni non ci perdiamo di vista.
L’esordio però non si può tacere, anche se si può, diciamo così, “posizionare” storicamente. Avevo 22 anni, frequentavo il quart’anno di medicina, e volevo iniziare l’analisi. Scelsi un’analista SPI di cui mi avevano parlato bene, ma bene non andò. Alla fine del primo colloquio – e qui il tema del convegno: “Dalla consultazione alla costruzione della relazione analitica” casca a pennello – mi disse che mi avrebbe analizzato volentieri. Ma, aggiunse, “per correttezza devo dirle che, per via del suo orientamento sessuale, non potrà fare l’analista”. Una ferita, ma sullo sconforto prevalse la convinzione autentica e resiliente che il tempo mi avrebbe dato ragione. Che non sarei cambiato io, ma la teoria psicoanalitica.
Devo dire che mi sono molto speso per questo cambiamento, che in buona parte è avvenuto. Credo che, in un modo o nell’altro, il vecchio Musatti stia premiando la capacità della psicoanalisi di trasformarsi. Di fare a stessa quello che giustamente chiede di fare agli altri. Una fetta di questo premio, dunque, la dedico alle analiste e agli analisti che con le loro parole, i loro scritti e il loro esempio hanno contribuito ad abbattere il muro dei pregiudizi umani e scientifici. E a quella sorprendente Luciana Nissim che, alcuni anni dopo, a cena da amici comuni, molto incuriosita dal mio “caso”, mi fece una carezza e mi sussurrò all’orecchio «noi analisti dell’omosessualità non abbiamo mai capito niente». Per la cronaca, optai per un’analisi junghiana seguita da una formazione patchwork – dalle supervisioni veneziane con Salomon Resnik ai Psychoanalytic Dialogues con i colleghi americani della svolta relazionale. Le strade della riparazione interna possono portare frutti inattesi e maturi.
Dopo la specializzazione in psichiatria, gli anni di pratica all’Ospedale Maggiore di Milano, le esperienze di studio negli Stati Uniti (in quelle che allora ancora sopravvivevano come cliniche psichiatriche dove si praticava la psicoanalisi, la Menninger e la Chestnut Lodge Clinic), ho iniziato a lavorare nella nobile struttura milanese che erano le Ville Turro e che presto diventarono parte dell’Ospedale San Raffaele. È qui che, nei dieci anni di ambulatorio per la diagnosi e il trattamento dei disturbi di personalità, iniziai a sviluppare interesse per il dialogo tra clinica e ricerca. Convinto che l’una facesse bene all’altra. L’interesse per la ricerca aumentava, e con esso il desiderio di creare un gruppo di lavoro e di insegnare quello che fino ad allora avevo imparato. Presi una decisione, che sintetizzai in una poesia che diceva così:
Io penso solo quando nuoto
o quando vado in moto.
Braccia distese, corpo in movimento.
Devo licenziarmi: in questo momento.
Era il 1998 e iniziava la mia avventura alla Sapienza di Roma. Da allora la mia cattedra è un laboratorio aperto, una sala parto in continua attività. La stanza è veramente piccola, con una densità di abitanti per metro quadrato (studenti, tesisti, tirocinanti, dottorandi, assegnisti, specializzandi) che riflette il loro entusiasmo e, temo, la mia ipomaniacalità. Un’altra fetta di questo premio va sicuramente a loro, ai miei allievi. I nostri argomenti sono la valutazione e la diagnosi della personalità; lo studio, spesso a partire dai trascritti delle sedute, dei meccanismi di difesa, dell’alleanza terapeutica, del controtransfert, la riflessione teorica e clinica sulle identità sessuali.
Il premio viene così a posarsi su un altro terreno accidentato e spinoso, oggetto di controversie nel mondo psicoanalitico: la ricerca. So che parte della comunità psicoanalitica è poco interessata alla ricerca empirica e la ritiene irrilevante sia per la clinica sia per gli sviluppi teorici della disciplina. Molti sono invece giunti alla conclusione che la psicoanalisi ha bisogno della ricerca. Non solo per progredire (tecnicamente e concettualmente), ma anche per sopravvivere. E certo non sto parlando di ricerca evidence based. Se condotta rispettando determinati standard, la ricerca e l’operazionalizzazione dei costrutti possono essere coltivate anche per difendere la psicoanalisi dai suoi detrattori e favorirne lo sviluppo e la diffusione. Anche dal punto di vista delle politiche sanitarie è importante dimostrare in modo non solo aneddotico l’efficacia dei nostri trattamenti, il fatto che le terapie dinamiche esercitano effetti a più ampio raggio e di più lunga durata di altri tipi di terapia. Vi sono studi che dimostrano che i benefici di un trattamento analitico, diversamente da altri tipi di terapia, tendono ad aumentare anche dopo la conclusione del trattamento. Sostenere l’utilità della ricerca in psicoanalisi non significa partire dalla convinzione onnipotente che tutto sia spiegabile e misurabile; né credere che l’unicità del rapporto terapeutico possa essere risolta in indici statistici. Ma aprirsi alla cultura della ricerca è una delle sfide che la comunità psicoanalitica dovrà affrontare nei prossimi anni. È una sfida che richiede capacità di dialogo con le altre culture cliniche. Si può essere curiosi dell’altro rimanendo se stessi, o magari assimilando ciò che ci piace o ci interessa. E non dimentichiamo che le nostre scelte teoriche a volte riflettono le nostre personalità e, se ne siamo consapevoli, questo può donarci una serena autenticità, fare di noi buoni clinici e buoni insegnanti, e proteggerci dai rischi dell’auto-contemplazione.
Nello sforzo integrativo non dobbiamo ovviamente perdere di vista le caratteristiche portanti della pratica analitica, il suo specifico relazionale, compresi i dubbi e persino gli errori (entro certi limiti). Lo psicoanalista non è uno scienziato, la seduta non è un laboratorio, il paziente non è un cervello in risonanza magnetica. Il cammino della psicoanalisi è fatto di perdite, invalidazioni, contaminazioni, ma anche di punti fermi e fondativi. Penso alla causalità psichica; ai limiti della coscienza e al ruolo degli stati mentali inconsci; alle rappresentazioni interne delle relazioni interpersonali; all’onnipresenza del conflitto psichico; al valore della prospettiva evolutiva; alle difese psichiche; alla complessità dei significati; alla centralità della relazione terapeutica con le sue dinamiche transferali e controtransferali.
Queste considerazioni mi portano dirette all’ultimo punto di questo discorso di ringraziamento. Parte della mia vita accademica si è sposata da una parte con quella editoriale e dell’altra con quella della divulgazione scientifica. Un area, quest’ultima, troppo importante per essere trascurata o peggio lasciata al danno delle semplificazioni. La malattia politica e culturale del nostro tempo è proprio la paura-rifiuto della complessità. Usando le parole di Christopher Bollas nella mia intervista di qualche giorno fa, “le risposte-scorciatoia non ci portano lontano”, “la psicoanalisi serve a favorire domande capaci di muovere idee inconsce infinite”, a battere “l’egemonia delle soluzioni semplici a favore dei movimenti complessi del pensiero”. Definendo la mentalità contemporanea come caratterizzata da operativismo, orizzontalità e omogeneizzazione, Bollas rileva un cruciale “cambiamento del clima intellettuale”. Una preoccupazione che riguarda tutti noi: la connettività istantanea ha soppiantato l’introspezione e il modo in cui definiamo il nostro Sé si è significativamente trasformato. Il rifiuto delle psicologie del profondo ha spianato la strada a forme di odio non elaborato. Ma poi, se non le psicologie del profondo, chi ci offrirà una mano, o meglio, un ascolto “trasformativo”? Per come va il mondo, c’è sempre più bisogno di “due persone che parlano in una stanza”…
Da quasi trent’anni lavoro con Raffaello Cortina (premio Musatti 2016; Cortina è anche l’editore di Vittorio Gallese, premio Musatti 2014 – dunque tout se tient). Difficile dire tutti gli ingredienti di questo lavoro. Molte letture in prima persona e suggerimenti da conosciuti e sconosciuti. Qualche folgorazione, non troppe. Le proprie convinzioni e l’apertura a quelle degli altri. La passione per i cataloghi, la bellezza intramontabile delle librerie “vere” e l’evidenza ineludibile di quelle online. L’attenzione per il lavoro dei colleghi. La cura artigiana per la costruzione dei libri. Ignorare le mode, ma sentire lo spirito del tempo.
Quello che mi piace della psicoanalisi – la mia idea di psicoanalisi – è il suo bisogno, per rimanere viva, di tendere a un compito impossibile: sapersi muovere mettendo radici. Un’idea rizomatica. Bion ci invitava a leggere tutti i libri che vogliamo, ma aggiungeva: «non permettete che vi stiano tra i piedi» mentre state formandovi un’opinione sulla persona che avete davanti. Ecco, quando sento che la teoria e il “modello” prendono il sopravvento, quello è il momento della clinica, della sua pratica. Ma quando mi accorgo che la pratica non basta, ecco il richiamo di letture e ascolti che alimentano e sfidano il lavoro clinico.
Di volta in volta la psicoanalisi è in un libro, in un paziente, in un dialogo con una collega, in una supervisione, in un’ipotesi di ricerca. Con il tempo e l’esperienza diventa uno stato della mente, un modo di stare al mondo. Da proteggere sia dai rischi del dogmatismo sia da quelli della psicoanalisi prêt-à-porter e dell’ecumenismo forzato o ruffiano. La psicoanalisi è una compagnia impegnativa, un’interlocutrice che può chiederti molto, anche e soprattutto sul piano etico, ma poi ti soccorre nei momenti difficili, ti nutre di curiosità, ti aiuta a fronteggiare sfide private e pubbliche. La psicoanalisi è viva quando sa distinguersi dalla cugina triste che celebra la propria purezza. La psicoanalisi non conosce purezza: la sua ricchezza teorica nasce dalla contaminazione, la sua forza clinica dal contatto incandescente tra verità storica e verità clinica, tra ciò che è successo e ciò che ricordiamo e raccontiamo. A volte, per un istante, capita di intravedere «la città candida dove il sole di mezzogiorno non proietta più l’ombra delle cose», come scrive Jankélévitch nel suo elogio dell’imperfezione. Dimentichiamoci subito di questa purezza, perché il resto, direbbe Pontalis, è traversata e trasformazione.