DALLA SOLITUDINE ALLA COMUNITÅ: EVOLUZIONE DEL CINEMA LGBT+
a cura di Anna Cordioli in collaborazione con Elisabetta Marchiori e Angelo Moroni
Quanto impatto può avere sulla società un solo film che tratti una data tematica? Poco. Può generare emozione ed interesse attorno a un argomento ma per un breve periodo di tempo. Perché il cinema, come ogni forma d’arte, possa raccontare e promuovere una trasformazione sociale, è importante che esista una produzione coerente, che costringa ad una discussione.
Una delle specificità della settima arte è sempre stato quello di rappresentare l’umano nel suo divenire storico, concorrendo ad evidenziare nuove rappresentazioni sociali e culturali di una data identità. Questa è rispecchiata e ridefinita attraverso la fruizione dell’opera da parte del pubblico, specialmente per effetto del suo coinvolgimento intellettivo, affettivo ed emotivo. Il cinema, in particolare, ha sempre avuto un accesso diretto all’inconscio, come già insegnava Musatti e la possibilità di identificarsi in un personaggio, di provare empatia, consente di comprendere meglio il proprio mondo interno, quello che ci circonda e gli altri, creando rappresentazioni e facilitando una “raffigurabilità”.
Qualsiasi identità, sia essa sessuale, di genere, etnica o religiosa, si costruisce anche attraverso le modalità in cui è presentata nel cinema. Vito Russo, conosciuto per il suo libro “Lo schermo velato” (1981) sostiene che il modo in cui sono rappresentati gli omosessuali sul grande e piccolo schermo influenza il modo in cui vengono visti, vedono loro stessi e costruiscono la propria identità sociale. Una riflessione da fare riguarda dunque il rapporto tra raffigurazione e destino, in quanto i media hanno un ruolo attivo nel definire dialetticamente un individuo.
Quello che proponiamo qui, non è quello di addentrarci sul rapporto profondo tra immagine sociale e percezione di sé, ma vorremmo tracciare brevemente quella che è stata l’evoluzione del cinema LGBT+, dalle prime caricaturali macchiette di sfondo fino alla ricca e variegata scena filmica attuale. Lasciamo al lettore di chiedersi come si saranno sentite negli anni le persone non eterosessuali, guardando sullo schermo questa o quella versione di sé.
Per tutto il ‘900, il cinema ha trattato poco la tematica LGBT+: era raro trovare come protagonista una persona omosessuale e, anche il quel caso, con ruoli secondari e stereotipati. Fin dai tempi del cinema muto appaiono personaggi che alludono al mondo gay, prettamente con sfumature effemminate o tomboy. I primi anni ’30 furono di relativa libertà espressiva, con l’ascesa di star, diventate icone gay, come Greta Garbo e Marlene Dietrich che, in “Marocco” (1930), travestita da uomo, bacia una donna.
In seguito, il cinema americano venne imbavagliato per effetto delle proteste delle frange conservatrici della società. Nel 1934 entrò in vigore il “Codice Hays”, che imponeva una serie di direttive atte a censurare specifici contenuti, e che ebbe effetto anche sulla rappresentazione della sessualità. Un suo passaggio recita: “La simpatia del pubblico non dovrà mai essere indirizzata verso il crimine, i comportamenti devianti, il male o il peccato. […] Non sarà mai sollecitata la simpatia dello spettatore per la violazione della legge naturale, divina o umana”. Furono vietate le allusioni alle “perversioni sessuali”, tra cui veniva inclusa l’omosessualità. Non veniva dunque censurata la presenza di personaggi omosessuali, anzi era concessa ma a patto che fossero odiosi, improbi e infelici. Possiamo immaginarci cosa voglia dire per una persona vedersi sempre rappresentata così?
Dagli anni ’40 agli anni ’60, nel cinema americano, i personaggi non eterosessuali quasi spariscono e, se vengono rappresentati, muoiono o cadono in una rovina esistenziale.
Nella cinematografia europea, più libera, troviamo film come “Victim”, un film inglese del 1961 diretto da Basil Dearden. “È forse il primo film che afferma chiaramente che l’omosessualità non è una perversione, non una cosa da nascondere, ma un’identità da affermare. È anche il primo film a introdurre un omosessuale (l’avvocato) che corrisponde a tutti i canoni del maschio di classe medio-alta” (Pizzo, 2013). Questo tipo di rappresentazione sarebbe stata impossibile ad Hollywood.
Con la fine degli anni ’60 il codice Hays cade in disuso e contemporaneamente si manifestano i primi moti di rivolta della comunità LGBT+ contro la criminalizzazione dell’omosessualità: ricordiamo almeno la sommossa del Compton’ Cafeteria a San Francisco nel 1966 e Stonewall a New York nel 1969. In quegli anni vengono organizzati anche i primi festival cinematografici LGBT+ (il primo fu a San Francisco nel 1967), che fanno del cinema un mezzo di auto-consapevolezza e di lotta per i diritti civili.
Nel 1970 ha luogo a New York il primo Gay Pride, la prima occasione in cui la comunità arcobaleno si presenta e rappresenta al mondo con la propria faccia e la propria rete sociale. Sono anni di lotta per i diritti civili di base a partire da quello di avere una identità libera e non discriminata, tanto nella vita quotidiana quanto nel modo in cui si viene raccontati.
Dagli anni ’70 la scrittura delle sceneggiature filmiche mostra una notevole evoluzione: finalmente le persone omosessuali possono essere rappresentate come persone, buone o cattive, con i loro sogni, affetti, problemi reali. “Festa di compleanno per il caro amico Harold” (William Friedkin, 1970) è stato uno dei primi film in cui i personaggi erano omosessuali e parlavano apertamente delle loro vite. Sempre del 1970 è il film tedesco “Non è l’omosessuale ad essere perverso ma la situazione in cui vive” (Rosa von Praunheim), uno dei primi film militanti di liberazione della comunità LGBT in Europa.
Tra gli anni ’60 e ’80 in Italia molti grandi registi come Visconti e Pasolini scrissero parti importanti per personaggi LGBT+. Vorremmo ricordare in particolare il meraviglioso documentario “Comizi d’amore” (1965) in cui Pasolini gira per l’Italia del dopo guerra intervistando le persone comuni e gli intellettuali circa il tema della rivoluzione sessuale. Tra gli intervistati appare anche Cesare Musatti.
Ma quelli furono soprattutto anni di scherno: è molto istruttivo vedere il documentario “Ne avete di finocchi a casa?” (Meroni, 2017) che ci ricorda la maniera con cui il cinema italiano degli anni ’70 e ’80 ha trattato gli omosessuali: “Semplici caricature per fare colore”, cioè far ridere. Dobbiamo ad un breve ma splendido dialogo in “Berlinguer ti voglio bene” (Benigni 1977) un raro caso in cui la commedia italiana ha deprecato proprio questa abitudine alla derisione ( https://marteau7927.wordpress.com/2018/04/23/almeno-io-son-buco-ma-te-berlinguer-ti-voglio-bene/ ).
Sempre di quel periodo è il musical surreale “The Rocky Horror Pitture Show” (Jim Sharman, 1975). Ironico ed erotico, fu il primo di una serie di film che oggi definiremo “Queer” e che introduce lo spettatore ad una estetica “in drag”, onirica, vitale e che gioca col perturbante.
Negli anni ’80, il tema dell’omosessualità diventa più presente al cinema, con la comparsa di protagonisti bisessuali e relazioni lesbiche. Assistiamo ad una progressiva attenzione e simpatia nei confronti delle persone lgbt, purtroppo però le loro storie sono sempre storie drammatiche in cui qualche omosessuale alla fine muore. Ciò non di meno i film si fanno più complessi e dai contenuti universali. Possiamo citare, tra gli altri, “Il colore viola”, “Mery per sempre”, “My beautiful Laundrette”, le prime pellicole di Almodovar. Tuttavia i film che hanno successo fuori dai circoli culturali ristretti sono comunque poche decine e si coglie lo sforzo da parte della comunità LGBT di far percepire la propria esistenza al di fuori degli stereotipi, che stanno migliorando ma non cadono.
Negli anni ’90 il cinema percorre due binari paralleli: su uno l’omosessualità viene mostrata come disfunzionale (come il serial killer di “Il segreto degli innocenti” e le donne bisessuali pericolose di “Basic instinct”), l’altro binario invece tende a esplorare la condizione interna delle persone LGBT+. La produzione si intensifica, le opere acquistano maggiore consistenza e intensità, a testimoniare il fitto dialogo presente all’interno della comunità LGBT+ per rappresentarsi e mettersi in relazione con il pubblico. Nel 1992 la giornalista femminista e critica cinematografica B. Rudi Rich nota per prima questa sorta di “rinascimento culturale” e lo definisce “New Queer Cinema”. Quello a cui si assiste è la differenza che c’è tra il pensare all’omosessuale come un singolo, una mosca bianca nella società, e invece l’apparizione di una comunità attiva e creativa. Tra i moltissimi titoli di quel periodo segnaliamo: “La mala noche”, “La moglie del soldato”, “Philadelphia “, “Priscilla”, “Wilde”, “In & Out”, “Boys don’t cry”, “Velvet Goldmine”. Quello che è importante sottolineare è che non tutto il mondo LGBT+ si sente ben rappresentato dal cinema di quegli anni, specialmente quando rinforzava l’equazione omosessuale=emarginato/AIDS/vittima-succube. Era dunque maturato definitivamente il bisogno di vedere personaggi positivi ed essere visti come persone normali, che fanno lavori normali e che soffrono o gioiscono per amore come chiunque altro.
Dagli anni ’90 in poi il numero di film, e serie televisive, LGBT+ fruibili dal grande pubblico, cresce moltissimo e lo spettatore può sempre più facilmente identificarsi con i protagonisti, rappresentati nella loro complessità e nelle loro infinite sfumature di persone, al di là dell’orientamento sessuale.
Oggi, nel terzo millennio, troviamo film come “Le fate ignoranti,” “Breakfast on Pluto”, “The history boys”, “La mala educacion”, “Transamerica”, “Milk”, “Pride”, “Moonlight”, “Chiamami col tuo nome”, “A single man”, “Dallas Buyers Club”, “i segreti di Brokeback Mountain”. Con i sui successi mondiali, il cinema LGBT+ diventa sempre più presente sugli schermi e vari registi, che prima erano considerati di nicchia, sono ormai riconosciuti come pietre miliari della settima arte, tanto che diventa difficile scegliere tra i tanti titoli quelli più significativi.
Parallelamente in questi ultimi vent’anni si sono moltiplicate le produzioni legate alle televisioni e ai canali on demand, che hanno permesso una maggiore libertà espressiva e hanno aperto a show più innovativi, offrendo la possibilità al pubblico di conoscere e riconoscere temi riguardanti la sessualità e le variazioni di genere. Quello che si può notare negli ultimi dieci anni è una particolare attenzione a dare spazio a tutte le sfumature del mondo lgbtq+, facendo in modo che ciascuno si possa sentire rappresentato in modo positivo: lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer, intersessuali, asessuali, a-gender. Ognuna di queste comunità ha al suo interno molte sotto-rappresentazioni. Queste molteplici diversità sono vissute come tutte ugualmente importanti perché, nel pubblico, ci potrebbe essere una persona che ha bisogno di potersi riconoscere sullo schermo e non sentirsi più sola nella propria esperienza.
Alla base del cinema Queer c’è dunque una forte tensione all’inclusività sociale, al punto che i film tendono ad essere rispettosi anche di tutte le minoranze: diversi colori della pelle, diverse religioni, atei, ogni tipo di neurodiversità e di condizione fisica. Dunque la contemporanea lotta LGBT+ non si limita a chiedere voce per le persone omosessuali, ma per tutti coloro che la società WASP (White Anglo-Saxon Protestant) tende ad emarginare.
Un altro aspetto importante del contemporaneo cinema Queer è una certa vocazione a educare il pubblico alle differenze di genere e di sessualità. Se guardiamo ai film cento anni fa ci accorgiamo gli omosessuali rappresentati erano spesso uomini vestiti da donne o donne con abiti maschili. In questa rappresentazione non c’era la consapevolezza della distinzione tra genere e sessualità che oggi abbiamo acquisito.
Sul piano della sessualità (che in psicoanalisi chiameremo la scelta dell’oggetto d’amore) nel cinema come nella società si incontrano eterosessuali, gay, lesbiche, bisessuali e asessuali Oggi la rappresentazione di queste tendenze è sempre meno stereotipata: ad esempio le donne lesbiche non sono più tutte poco femminili e gli uomini gay non sono più tutti effeminati, anzi. L’uscita da questi stereotipi permette di raccontare storie molto diverse da quelle rappresentate in passato.
Sul versante del genere, è importante distinguere tra cisgender, transgender, fluid-gender e a-gender. A questi ultimi tre gruppi appartengono persone, che non si riconoscono nel loro genere biologico. Soprattutto è importante capire che una persona Trans M-to-F non va confusa con le persone che decidono di vestirsi in Drag (Dress as a Girl). Non tutte le persone che scelgono di mettersi abiti fluid gender sono in transizione, e il fenomeno delle drag-Queen è una cosa ancora diversa da chi si veste così nella vita di tutti i giorni. Segnaliamo la serie tv “AJ and the Queen” (2019) con RuPaul, che può aiutare a iniziare la scoperta di questo mondo.
Tra i tanti personaggi del mondo dello showbiz che stanno facendo la storia del cinema LGBT+ degli ultimi anni vorremmo infine soffermarci su Ryan Murphy. Regista, sceneggiatore e produttore, più di tutti, ha compreso che non si può avere un impatto sulla società se si ragiona producendo un film per volta. Murphy ha firmato le sue prime opere proprio a cavallo del millennio e da allora ha sfornato decine di successi su piccolo e su grande schermo (“Correndo con le forbici in mano”, “Mangia prega ama”, “Glee”, “American horror story”, “The politician”, “The boys and the band”, “The prom”, “Pose”, “Hollywood” e molti documentari). Questo prolifico autore ha una poetica ed una estetica chiare: i suoi personaggi positivi sono degli outcast, spesso messi ai margini, che cercano un riscatto agendo per una società più inclusiva, mentre i personaggi negativi sono maschere ciniche e crudeli, mosse da un rifiuto delle proprie parti fragili.
Nel corso degli anni Murphy ha progressivamente fatto in modo che le sue opere diventassero uno strumento di azione politica. Nei suoi show non mancano mai personaggi Lgbtq e sempre più spesso diventano i protagonisti e non restano più solo comprimari della storia principale. Fa recitare attori in ruoli simili a quelli del proprio orientamento sessuale e/o di genere e anche questo elemento suona come uno statement nell’industria cinematografica. Forse qualcuno ricorderà la polemica che, una decina di anni fa, seguì la scelta di affidare ad attori eterosessuali ruoli di uomini gay (in “Milk” e “A single man”). La questione fu acquietata con l’argomentazione che un attore deve comunque sapersi mettere nei panni di un altro. Evidentemente però, dietro le quinte, il problema ha continuato ad essere discusso ma soprattutto è progressivamente cambiata la sensibilità del pubblico su questo tema: oggi, ad esempio, è vissuto come irrispettoso che una persona trans sia interpretata da una persona cisgender (qualcuno che si identifica col proprio genere biologico). Questo movimento non è in fondo distante da quello che ha portato alla sparizione in tv di quella che veniva chiamata la black-face, ovvero il trucco che gli attori bianchi si mettevano per interpretare dei personaggi di colore.
In questo senso Murphy ha sempre avuto la capacità contribuire ai mutamenti del costume del nostro tempo. Il suo è un messaggio sociopolitico forte che si spende per una società più inclusiva e più capace di riconoscere le peculiarità di ciascuno.
Concludiamo infine questa nostra carrellata storica con una riflessione che fa Antonio Pizzo (2013) e che troviamo particolarmente condivisibile: “Teatro, cinema e televisione, in modo più o meno esplicito, “registrano” la temperatura culturale e possono essere letti come misuratori sul tema della discriminazione contro gli omosessuali. Analizzare la produzione culturale a tematica gay è dunque importante perché è come fare un’indagine, un censimento sulla rappresentazione degli omosessuali che per di più ci informa sul nostro livello di democrazia.”
Bibliografia
Antonio Pizzo (2013). “Essere visto e vedere. Dal tema all’estetica omosessuale nel dramma”, Mimesis Journal 2:1, 101-119 https://journals.openedition.org/mimesis/285)
Vito Russo (1981). Lo schermo velato (1981), ripubblicato da Baldini & Castoldi, Milano 1999, corredato da due saggi di Vincenzo Patanè: “L’omosessualità nel cinema americano 1987/1998” e “Breve storia del cinema italiano con tematica omosessuale”.
Maggio 2021