Intervista a Marie Rose Moro
A cura e traduzione di Ludovica Grassi e Monica Ricci
1 – Lei ha scritto che l’etnopsichiatria può essere soltanto psicoanalitica: ci può spiegare meglio questa affermazione?
Effettivamente ritengo che storicamente la psicoanalisi sia ancora oggi la disciplina più adatta ad esplorare in modo complementarista le interazioni tra il funzionamento psichico e la cultura, ma anche tra la clinica e la diversità culturale che caratterizza la nostra epoca. Uno dei primi a porsi la questione dell’universalità psichica è stato Freud che, quando ha descritto il complesso di Edipo a partire da un mito greco che permetteva di rappresentare i processi intrapsichici da lui osservati e dedotti su di sé e sui suoi pazienti, si è immediatamente e giustamente domandato se potesse considerarsi universale. Di qui è scaturito un ampio dibattito che negli ultimi anni sembra essersi arricchito dei contributi decisivi di psicoanalisti originari di paesi come l’India, lo Sri Lanka o l’Africa centrale, e che ha portato a un rinnovamento dei suoi contenuti non più basati soltanto su presupposti universalisti in realtà derivati dalla cultura occidentale, ma conseguenti anche alla loro posizione di persone nate in ambienti culturali diversi. Si è così approdati ad una certa destrutturazione del complesso di Edipo, di cui una parte sarebbe universale e intrapsichica, ed un’altra culturale e intersoggettiva, con delle modalità di risoluzione che dipendono dal contesto sociale, dalle strutture familiari, da modalità di discendenza privilegiate…Va sottolineato come ancora oggi questo atteggiamento freudiano di confrontare i nuovi concetti forgiati da una disciplina con la diversità delle culture e delle società rimanga raro e prezioso: in questo Freud, come anche la psicoanalisi, è sempre all’avanguardia. La psicoanalisi, permettendo di comprendere la psiche umana nelle sue componenti conscia e inconscia, se associata ad altre discipline come l’antropologia, la linguistica o la storia, rende possibile accedere alla complessità dei fatti umani iscritti nel loro contesto e nella loro storia. Ma proprio per questo, deve rinunciare alla gerarchia delle discipline e accettare che lo strumento e il metodo psicoanalitico si applichino soltanto al mondo interiore e intrapsichico, e che il collettivo sia interpretato dalle scienze in grado di farlo, come l’antropologia o la storia . Si arriva così a cogliere nel suo insieme una realtà umana che richiede un metodo complesso e adeguato ai diversi livelli di lettura che se ne possono fare, ed è inscritta in una storia e in una geografia, oltre che in una lingua e in un certo tipo di legame con l’alterità e con il mondo.
2 – E’ possibile distinguere a livello qualitativo e quantitativo le forme e le espressioni della fragilità psichica nei migranti di prima, seconda e terza generazione? Ed eventualmente del gruppo specifico rappresentato dagli adolescenti migranti non accompagnati?
In questi ultimi anni studi quantitativi e qualitativi portati avanti da diverse scuole e in paesi differenti ci hanno permesso di comprendere meglio non solo la vulnerabilità psichica dei figli dei migranti, ma anche le loro potenzialità e la loro creatività. Riassumendo tutti questi studi , possiamo affermare che non esiste più una psicopatologia dei migranti, ma che i figli dei migranti presentano una specifica vulnerabilità che si esprime essenzialmente sul piano qualitativo piuttosto che su quello quantitativo. Dal punto di vista qualitativo, non si tratta di una sintomatologia specifica, ma di una vulnerabilità legata alla situazione transculturale che può assumere tutte le forme della psicopatologia del bambino e dell’adolescente. La specificità di questa vulnerabilità deriva dal fatto di essere legata a meccanismi specifici dovuti alla situazione transculturale, come ad esempio la scissione fra il mondo del dentro e il mondo del fuori o la discriminazione subita dai bambini per la pelle diversa, per la lingua materna o per lo stile di vita… Il fattore culturale è in sé un elemento di rischio, a sua volta rafforzato da altri fattori, quali ad esempio la situazione sociale precaria delle famiglie, che rendono vulnerabili i bambini. Dunque non sono i bambini migranti o figli di migranti ad essere vulnerabili, ma è la situazione transculturale a renderli tali, soprattutto quando questi bambini rinunciano alla lingua materna o quest’ultima non viene loro trasmessa, oppure quando esiste una gerarchia tra le lingue del bambino, tra la lingua materna e la seconda lingua del paese di accoglienza o, ancora, fra i mondi a cui appartengono i bambini.
Gli adolescenti migranti non accompagnati costituiscono un gruppo particolare e altamente specifico: sono i figli inviati dalle loro famiglie rimaste a casa o i ragazzi che abbandonano la famiglia per tentare la sorte in Europa. In generale, questi adolescenti arrivano nei nostri paesi dopo viaggi lunghi e pericolosi, nel corso dei quali hanno vissuto esperienze gravi, e spesso hanno dovuto confrontarsi con la morte o con delle strategie di sopravvivenza che li hanno resi fragili: sono gli avventurieri dei tempi moderni. La patologia più frequente che presentano dopo l’arrivo nei nostri paesi è una patologia traumatica e postraumatica, che rende conto delle traiettorie complesse e degli ostacoli a volte disumani che hanno dovuto affrontare. È importante riconoscere queste patologie traumatiche, che si esprimono sia attraverso il corpo (dolori, somatizzazioni multiple), sia attraverso intense reminiscenze diurne o notturne, ma anche con stati ansiosi difficili da verbalizzare. Il confronto con la realtà dei paesi di accoglienza, spesso inospitali e comunque ben diversi da come questi ragazzi se li erano immaginati, può anche sprofondarli in stati depressivi secondari, nei quali ogni speranza di cambiamento del proprio destino funesto è perduta, di fronte a una realtà dove non c’è posto per loro.
3 – La condizione di immigrazione ha delle ripercussioni sulla strutturazione delle competenze cognitive, intellettive e affettive del bambino?
È necessario distinguere i bambini migranti dai figli dei migranti. Per i bambini che migrano, gli effetti sullo sviluppo e sulle competenze dipendono dall’età: è ben diverso se si tratta di lattanti, bambini o adolescenti. I bambini piccoli dipendono sostanzialmente dai genitori e dagli effetti diretti che la migrazione comporta per questi ultimi: tutto ciò che rende fragili i genitori ha lo stesso effetto anche per i figli (perdite, separazioni dolorose, angosce di separazione, traumi…). Inoltre i bambini piccoli sono molto sensibili ai cambiamenti ambientali e in particolare della lingua: per questo è importante che in casa si continui a parlare al piccolo con la lingua ch’egli conosce e che ha lasciato in lui le prime impronte. Se gli adulti che se ne occupano reggono e riescono a costruire legami fra i due universi, il bambino passerà facilmente da un mondo all’altro. Per i bambini che migrano in età scolare il cambiamento è più significativo soprattutto sul piano cognitivo, ed è fondamentale che essi possano continuare a mantenere dei legami fra gli elementi che li strutturano dal punto di vista cognitivo e affettivo, quindi fra il mondo dei genitori e quello esterno della scuola. Ma anche per il mondo esterno la trasmissione da parte dei genitori è fondamentale perché il bambino possa iscrivervisi. Infine, la migrazione in adolescenza implica una rottura talvolta brutale dei legami sociali che tanto peso hanno in questo periodo della vita, e anche dei supporti delle identificazioni. L’adolescente migrante ha bisogno d’essere guidato nel nuovo mondo per poter trasformare la sua destabilizzazione in una condizione di rinnovata libertà e di competenze inesplorate.
La situazione dei figli di migranti nati in Europa da genitori migranti è completamente diversa . Essi presentano, come ho evidenziato prima, una vulnerabilità specifica legata alla situazione transculturale, che può esprimersi o meno in funzione di fattori protettivi quali la trasmissione della lingua materna, una rappresentazione sufficientemente buona della lingua materna e del mondo di provenienza, o ancora la presenza di un passeur che li aiuti a investire il mondo esterno pur rispettando il loro mondo familiare e quanto è trasmesso loro dai genitori. È fondamentale riconoscere questa vulnerabilità legata alla situazione transculturale, che può interessare sia l’organizzazione intellettiva sia la strutturazione affettiva: essa, infatti, non solo può essere superata, ma può anche essere trasformata in un potenziale creativo e nella capacità di padroneggiare mondi, codici e lingue diversi, sviluppando competenze metacognitive rispetto alla lingua e alle appartenenze. In questo caso i figli dei migranti diventeranno dei figli meticci, capaci di affrontare la pluralità e la differenza, quindi degli individui particolarmente adattati al mondo attuale in continua trasformazione.
4 – Nel lavoro transculturale quali sono le specificità e le difficoltà controtransferali?
Freud ha lavorato molto sul transfert e meno sul controtransfert, ma dopo di lui numerosi autori, fra i quali Devereux , hanno concettualizzato il controtransfert nella sua componente affettiva, descritta da Freud, e in quella culturale. Secondo Devereux, esiste un controtransfert culturale ineludibile legato alle nostre reazioni consce e inconsce, implicite ed esplicite, all’alterità culturale, alla differenza, allo scarto fra me e l’altro, fra le mie appartenenze e le sue. Queste reazioni dipendono dalla nostra identità culturale di terapeuti e di persone, dalla nostra identità di genere, storica e sociale, ma anche da ciò che l’altro proietta su di me, cioè dal suo transfert. Bisogna dunque riconoscere le appartenenze del nostro essere terapeuti perché non diventino un ostacolo alla relazione. Queste reazioni consce, ma soprattutto preconsce e inconsce, vanno dalla fascinazione che trasforma l’altro in un oggetto culturale esotizzante al rigetto razzista: fra questi due estremi ci sono moltissime altre possibilità di reazioni controtransferali. La questione è riuscire a riconoscere questo controtransfert, spesso misconosciuto e a volte negato, elaborarlo e trasformarlo in una potenzialità di legame piuttosto che in qualcosa da scartare, disprezzare, fraintendere, oppure in un’impossibilità di incontro o in un influsso da esercitare sull’altro. La difficoltà consiste quindi nel riconoscimento di questi sentimenti negativi o esotizzanti suscitati dalle situazioni transculturali e dalla loro elaborazione.
5 – All’interno del Suo dispositivo di lavoro, il setting transculturale funziona come una cornice culturale in cui circolano più lingue e più interpretazioni del mondo: in che modo vi s’inserisce l’analisi delle rappresentazioni delle malattie dal punto di vista linguistico?
Effettivamente, fra le varie possibilità di lavoro transculturale abbiamo immaginato, come già aveva fatto Nathan, un dispositivo gruppale comprendente dei co-terapeuti di formazione psicoanalitica e un traduttore che traduca parola per parola quello che dicono il paziente e i terapeuti: quando è necessario cerchiamo di offrire una decodifica culturale, e in particolare rispetto alla rappresentazione della sofferenza e della malattia che, ad esempio, portano i genitori migranti. Il bambino è collocato al centro di questo dispositivo in cui circolano le lingue e le interpretazioni del mondo, che noi ci assumiamo il compito di esplicitare nella loro diversità e nella loro estensione, che siano del padre, della madre, dei bambini, dei partecipanti o dei co-terapeuti. Ciò che è più prezioso non è la verità, ma la molteplicità delle interpretazioni esistenti e dei legami che si possono creare fra loro, e come in questa situazione transculturale, caratterizzata dalla molteplicità e dalla diversità, si possano costruire dei nuovi significati.